di Giulio Savelli

 

Un’amica ha rinvenuto fra le cose di suo padre, deceduto qualche mese fa, la stampata di una conferenza alla quale egli aveva assistito. Secondo i ricordi della figlia, a cui ne aveva parlato, si era tenuta in una biblioteca di Roma, circa vent’anni fa, in un tardo pomeriggio d’inverno. Avrebbe dovuto essere una conferenza su un qualche tema di linguistica italiana o di storia della lingua italiana, ma era stata, sorprendentemente, tutt’altro. Evidentemente il padre aveva poi chiesto al conferenziere di fargli avere il testo, che ha conservato. Mi è stato dato nella speranza che sapessi individuarne l’autore. Purtroppo non ne ho idea. Lo immagino come una sorta di “uomo del sottosuolo della cultura”, probabilmente un professore di liceo in pensione o qualcuno del genere. Sebbene io condivida solo in parte ciò che sostiene, e abbia delle riserve sul tono generale del discorso, mi è sembrato per altri versi interessante. Per tale ragione lo propongo in questa sede. Il titolo, presente sul dattiloscritto, è ovviamente differente da quello che era stato dato per la conferenza e si direbbe guardare, più che a un qualche pubblico, all’autore stesso.

 

 

Signore e Signori,

 

il tema di questa conferenza avrebbe dovuto nelle mie intenzioni iniziali essere molto più limitato e assai più trattabile. Avrei voluto e dovuto parlarvi, come risulta almeno implicitamente dal titolo di questo incontro, di alcune questioni della nostra lingua italiana e delle misure che occorrerebbero – se davvero vi sono – per frenarne l’impoverimento. La riflessione su tale tema mi ha però condotto a considerare come esso sia intrecciato, e dipenda, da questioni di ordine più generale. Appunto della matassa rappresentata da tali questioni, di tutt’altra natura, mi azzarderò dunque a parlarvi.

Per avvicinarmi gradualmente al nucleo centrale della riflessione, inizierò però con un problema che al primo sguardo si direbbe del tutto linguistico: l’estensione che negli ultimi decenni ha avuto il saluto familiare. Tutto è partito da qui, dalla riflessione sull’abitudine, relativamente recente, di dare del tu e salutare con «ciao» gli estranei. Non vi nascondo che la questione non ha per me un rilievo puramente intellettuale – devo cioè ammettere che ne sono coinvolto in prima persona. Poiché ritengo che una certa misurata impudicizia sia preferibile a una discrezione ostinata, mi permetto di fare riferimento diretto alla mia particolare esperienza.

Ecco qui: nel mio palazzo – un grande condominio di Roma – abita un tizio che da circa vent’anni mi saluta dandomi del tu. Fra di noi non c’è mai stato altro che quel saluto, neppure una conversazione sul tempo o sulla prossima assemblea di condominio o sull’ascensore rotto: nulla. Ci salutiamo: io dico «buongiorno», lui: «ciao». Io: «buonasera», lui: «ciao». Così per vent’anni. Se tutto questo invece di iniziare alla fine degli anni Ottanta fosse cominciato negli anni Cinquanta o negli anni Sessanta, avrei potuto fermarlo e chiedergli perché mi da del tu. Da ormai più di venticinque anni un simile atto è però diventato indecente, impossibile. Quindi dovrei dargli del tu anch’io. Lo confesso: ci ho provato ma non ci sono riuscito. Da qui iniziano i problemi. Problemi che non sono più linguistici ma personali. Perché io non sono capace di cambiare livello linguistico? Che tipo d’incapacità è la mia? Mi sento male ogni volta che lo vedo. Ogni volta io devo scambiare il saluto non alla pari ma da una posizione di inferiorità; e ogni volta lui, forse, mi offre una vicinanza che io rifiuto, considerandola senza fondamento e quindi inaccettabile. E questo mio rifiuto mi rimorde, anche se da parte sua non vedo nessun disagio e nessuna intenzione di andare oltre quel «ciao». Dovrei farci amicizia in modo da dare una base di plausibilità al suo saluto? Per me occorre essere amici o almeno buoni conoscenti, oppure colleghi, per darsi del tu.

Evidentemente io conservo rigidamente codici culturali che sono stati aboliti da molti altri. Per esempio dalla mia azienda telefonica, che mi da del tu. Ma non è solo il tu o il ciao. Non capisco, per esempio, quando chi risponde a un numero verde aziendale mi dà il suo nome proprio: che me ne faccio? E come faccio a sapere che è il suo vero nome e non quello d’arte, simile al nome di una prostituta? Ma ha poi importanza, dato che altri si fanno chiamare con designatori linguistici tipo “operatore B 39”? Quello che conta è distinguere un operatore dall’altro e basta: ma allora perché usare il nome proprio, carico di valenze affettive, personali? Mi devo sentire amico dell’azienda? Che cosa significa sentirsi amici di un’astrazione giuridica ed economica? Oppure l’azienda semplicemente finge di essere il bar sotto casa, in cui conosco il barista per nome perché tutti gli altri lo chiamano per nome, e io invece gli do, come per me giusto, del lei? Da una vita: come al mio barbiere, come al mio psicoanalista. In ogni caso il problema è mio, non di chi si sente dare del lei da me. Io mi sento obbligato a fare delle differenze che altri ignorano serenamente, perfettamente a loro agio. Il mio disagio è un anacronismo, piuttosto ridicolo come tutti gli atteggiamenti testardamente fuori moda.

Ma – ancora una domanda – si tratta semplicemente di una moda linguistica? Non nascondiamoci dietro un fuscello, gentili signori. Se fosse un cambiamento di superficie, lessicale, ci saremmo tutti adeguati. Chi dice più «perbacco»? Nessuno. È un mutamento più profondo a determinare scelte linguistiche come l’uso del tu o del lei. Non si tratta neppure, semplicemente, di preferire un registro piuttosto di un altro, di mettere o non mettere la cravatta. Si tratta di una distinzione, una sottile linea invisibile, che per pochi è rimasta evidente, per molti no. Mezzo secolo fa quel tizio del mio palazzo avrebbe anche lui detto «buongiorno», non avrebbe osato varcare la linea. Adesso lo fa. Certamente la conosce, ma è ai suoi occhi stinta come la striscia blu di certi parcheggi – abbastanza sbiadita da poter essere ignorata senza contestazioni da parte di nessuno. Questa linea separa il dentro dal fuori, stabilisce lo spazio dell’intimità, custodisce i confini sociali dell’individuo. Cosa penseremmo se chiunque potesse entrare nella casa di chiunque altro – gli appartamenti tutti senza serrature, sembra brutto infatti tenere le porte chiuse anziché accostate – potesse aprire il frigo e scolarsi quello che trova, e quando noi ci affacciamo in cucina – «Ah, lei è quello del quarto piano, vero? Buongiorno!» – ci ruttasse in faccia? Adesso ci pare terribile, ma potrebbe diventare una consuetudine, un modo per essere rilassati e in confidenza un po’ con tutti, e per trovarsi spesso in compagnia senza tante formalità. Molto meglio che scambiarsi inviti. La sottile linea invisibile non è stata cancellata del tutto, resiste, è ancora abbastanza evidente da lasciare le serrature alle porte, ma non abbastanza da conservare il lei.

 

L’indebolimento della linea perimetrale dell’intimità ha una relazione stretta con l’indebolimento di un’altra distinzione, quella che separa la vera cultura da tutto il resto.

Un tempo – non poi così tanto tempo fa – la rigidità e chiarezza dei tratti distintivi delle varie classi sociali, l’evidenza delle gerarchie, di tutti i tipi, ovunque, e l’idea diffusa che il comportamento collettivo e individuale dovesse tendere alla virtù (qualunque cosa poi fosse), modellavano anche la struttura del giudizio estetico, nel senso che si considerava ovvio fare gerarchie di gusto, attribuire una sorta di prestigio a ciò che è migliore (qualunque cosa significhi) e considerarlo preferibile. Questa struttura del gusto ha iniziato a mostrare incrinature, com’è noto, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, e a sbriciolarsi nel corso degli anni Settanta per dissolversi nel decennio successivo. Che si sia trattato per un certo verso di una liberazione non c’è dubbio. Ma ciò che è iniziato come un rinnovamento all’interno della cultura alta è diventato presto un’altra cosa. Oggi alcuni protagonisti di quel momento scoprono di essere nella posizione in cui si trovarono alcuni intellettuali illuministi di fronte alle teste che rotolavano dalla ghigliottina. Il punto raccapricciante, si direbbe, consiste nel fatto che la vera cultura non ha prestigio. È un prodotto di nicchia – ma non come i prodotti di lusso, che tutti desiderano e pochissimi possono permettersi. Piuttosto, come certi sport poco diffusi, che non hanno spazio nelle pagine sportive dei giornali e sono conosciuti solo da chi li pratica e dai loro familiari. Occuparsi, per esempio, di critica letteraria è, socialmente parlando, come giocare a tchouk ball. Per chi fa critica letteraria la sua attività non può essere però considerata uno sport inusuale. Scrivere di letteratura ha un significato e un valore che trascende la passione che motiva la pratica di uno sport, così come trascende la serietà propria di un’attività professionale.

La mancata simmetria fra il valore riconosciuto e il valore che le è attribuito da colui che la pratica riguarda la cultura alta nel suo insieme. In questo senso chi se ne occupa si trova nell’identica posizione di chi dice «buongiorno» e si sente rispondere «ciao»: il problema di non potersi adeguare all’uso corrente e di dover scambiare la propria moneta, considerata aurea, con conchiglie, dischetti di latta e gomme masticate.

 

Nell’indagare le ragioni della decadenza della vera cultura ci si trova di fronte a una singolare convergenza di potentissime forze. Quella più evidente è rappresentata dall’industria dell’intrattenimento, capace di attingere ovunque – anche nella cultura alta – forze e materiali per i suoi prodotti, e di raggiungere chiunque ovunque, a qualsiasi lingua e a qualunque ceto appartenga. L’aura scintillante dei prodotti dell’industria culturale ha coperto, come nell’auspicio futurista, ogni chiaro di luna. La laicizzazione dello spettacolo e la sua uscita da ogni penombra cultuale, dove la vecchia aura ha il suo ambiente d’elezione, sono definitive.

Ma un’altra forza è egualmente decisiva. A questo proposito ricordo che negli anni Settanta si è manifestato, proprio mentre l’industria culturale si sviluppava impetuosamente, un fenomeno curioso, e non privo di significato: sembrava che aver letto Proust, oltre che Marx, fosse cosa di importanza decisiva per la propria immagine sociale. Questo semplice dato potrebbe far pensare che la moda della cultura alta come gadget da esibire possa tornare. A mio parere è improbabile. Il fenomeno indica piuttosto la presenza della seconda forza che, accanto a quella dell’industria, condiziona il nostro modo di valutare: è la nobile aspirazione, democratica, progressista, alla diffusione universale del sapere. Non dell’opportunità del sapere, ma del sapere in quanto tale, da distribuire come fossero sacchi di latte in polvere o coperte. Allora, mostrare di aver attinto a questo patrimonio significava essersi adeguati alla regola che vuole il sapere non ripartito secondo il desiderio di ciascuno, e secondo le sue capacità di comprensione, ma secondo la dignità umana e i diritti del cittadino. Si leggeva Proust come si andava a votare, come si partecipava allo sciopero generale. Non occorre capire quando è questioni di diritti – non di piacere, di passione o di curiosità. Come corollario a questo punto di vista c’è l’assioma per cui è sufficiente la contiguità col sapere perché questo inumidisca, se non inzuppi, il cittadino-studente-lavoratore. Ovviamente l’industria culturale non solo non è antagonista ma anzi si fa docilissimo e inventivo strumento per appagare l’inesausta pulsione di ammollo nel sapere che questo ideale promuove. Ne è esempio recente la vendita di classici della letteratura assieme al quotidiano.

I sistemi scolastici sono l’esempio migliore dell’azione di questa forza ‘democratica’. Vengono insegnate cose che non interessano affatto alla stragrande maggioranza degli esseri umani, e che non saranno di alcuna utilità alla vita lavorativa futura dell’adulto o alla sua vita privata: cose che in realtà riguardano una ristrettissima minoranza di individui, motivati alla letteratura o all’arte o alla filosofia. Su questo ideale umano negletto e marginale si modella in teoria il sistema scolastico: in pratica però, poiché sarebbe folle pretendere nei fatti ciò che in teoria si dispone, non si richiede davvero l’apprendimento, si fa solo finta. I più bravi, i più studiosi, un dieci per cento forse del totale, trattengono un’inezia della natura reale di Dante – non di quella piattamente libresca – e poi faranno i medici, gli ingegneri, i manager, e anche quell’inezia sarà cancellata. Gli altri non ne saranno neppure sporcati. Forse uno su mille troverà in Dante qualcosa che lo tocca direttamente, utile alla sua crescita umana. Il futuro di questo uno su mille… ma lasciamo perdere un simile discorso. Quanto detto su Dante ovviamente vale anche per la matematica (universalmente considerata sotto l’aspetto del calcolo, purché ci sia l’evidenza, impossibile, dell’utilità dello stesso) e per ogni altro sapere. La scuola degli ultimi due secoli è nata pensando di dover adeguare tutti i cittadini a un modello umano astrattamente elevato, dovendosi poi confrontare con altre esigenze e altre aspettative. Si è così attrezzata all’ipocrisia, includendola nei programmi. Cosa altro sono le vasche da bagno che hanno afflitto i nostri dieci o undici anni e di cui, per ragioni incomprensibili, dovevamo calcolare il riempimento? L’ipocrisia ovviamente è poetica privilegiata anche dei libri di testo – perfetti a tale riguardo quelli per le lingue straniere, imbarazzati dalla grammatica, le pagine fitte di riquadri con scenette stolide, disegni assordanti, collage puerili, in un’agitazione grafica fintamente allegra e accuratamente futile.

 

Queste due forze – quella dell’intrattenimento, sapiente mescolanza di novità elettrizzante e dolce banalità, e quella dell’imperativo democratico – sono tanto fuori quanto dentro gli individui. Vorrei che fosse chiaro, gentile pubblico, che io partecipo, e vi partecipo nel mio intimo, al conflitto fra queste due potenti forze da un lato e l’evidenza delle mie preferenze intellettuali ed estetiche dall’altro. Ciò che motiva questa conferenza non è la deprecazione dell’esistente, ma la preoccupazione di un adattamento imperfetto e la ricerca di un sollievo a preoccupazioni e inquietudini che dovrebbero poter essere evitate.

La prima preoccupazione, che affligge quasi ogni minoranza, è quella relativa al proprio futuro. Ma lo affermo chiaramente: l’ansia per le sorti del pensiero, del sapere, della cultura alta è del tutto ingiustificata. Non c’è alcun fondamento al timore che nessuno legga più Platone, che la filologia risenta dello sviluppo dei videogiochi o che Mantegna sia ignorato a favore dei fumetti, come forse temevano gli apocalittici degli anni Sessanta. La ricerca – lo vediamo – non solo prosegue ma si sviluppa rigogliosamente, anche in campo umanistico. Basti pensare all’aumento vertiginoso del numero delle riviste accademiche e delle pubblicazioni scientifiche negli ultimi decenni. E ciò vale anche per altri ambiti. A teatro gli spettatori ci sono, e anche nei cineclub. Analogamente, ci sono festival di musica contemporanea ricchi e affollati, ci sono nuovi interpreti geniali del repertorio classico e sale da concerto piene, perfino, forse, teatri d’opera in buona salute, e le file per le mostre e i musei si stanno allungano ogni giorno, come l’esperienza dimostra. Se anche solo un articolo su cento di quelli pubblicati nelle riviste accademiche fosse originale e significativo, se solo uno spettatore, un ascoltatore, un visitatore su mille sanno apprezzare ciò di cui fruiscono, non ci possono essere problemi di sorta.

La preoccupazione sul destino della cultura nasce piuttosto dalla percezione della sua irrilevanza. Ma come si manifesta, se la diffusione dei suoi prodotti è abbondante, la ricezione entusiasta, e la creatività non manca? In cosa consiste ciò che viene percepito come abbassamento di prestigio e zoppicante omologazione al vasto campo dell’intrattenimento? E perché questa irrilevanza produce ansia? Siamo forse in ansia perché la marca di mentine da noi preferita non è amata da tutti quelli che frequentiamo, perché queste mentine non hanno l’apprezzamento universale che meritano? No, ci basta trovarle in ogni bar e in ogni supermercato. E perché non è lo stesso per Shakespeare o per Mozart? Li troviamo ovunque, possiamo dormire sonni tranquilli. Ma non è questo il punto. Il danno è altrove, si direbbe.

C’è una spiegazione vecchia e molto popolare, che potremmo definire come la teoria della «torre d’avorio»: l’alto luogo riservato a intellettuali e artisti, a cui le masse volgari e ignoranti non possono accedere. Vorremmo dunque che il consumo delle nostre mentine preferite fosse riservato ai sommi sacerdoti e all’élite, di cui facciamo ovviamente parte, che ci qualificasse come creature superiori, diverse dalla massa che fa uso di caramelline insignificanti e di cattivo gusto? Eppure una tale aspirazione a delimitare il proprio territorio spirituale è non solo universale, ma universalmente utilizzata per la promozione del consumo. Forse scegliamo delle mentine per caso? Non più di quanto accada con un libro – ma, in ogni caso, il loro consumo qualifica il consumatore. Non è solo la pubblicità che definisce a priori i significati fantasmatici e sociali del prodotto, ma, a posteriori, l’appartenenza sociale di chi lo usa a stabilirne l’identità. Se è ovvio che tutto il consumo, anche quello estetico e intellettuale, qualifica il consumatore, è anche ovvio che questa proiezione venga ampiamente sfruttata da chi organizza mostre o vende dischi, e che i consumatori di cultura si considerino speciali: non meno però di chi possiede un chopper e partecipa ai raduni di bikers. È nella natura del consumo costruire torri dei più svariati materiali e difformi altezze, più o meno vaste e ospitali. Una bottiglia di vino qualifica il suo bevitore fin da quando il fornaio Cisti inviò quel servo a prendere il vino in Arno. Caratteristico della qualificazione spirituale attraverso l’elezione del proprio consumo è la prospetticità: dall’interno della torre sembra che tutto il panorama attorno sia più basso, ci si sente migliori, «fighi», come direbbe Baricco, con le ali ai piedi grazie alle nuove scarpe da ginnastica. Non così appare la torre da chi si trova su altri edifici – sebbene possa apparire alta ed emozionante a chi si trovi a passare lì sotto e desideri accedervi senza averne la possibilità. L’esperienza della torre d’avorio è di massa: è stata forse il prototipo e il primo modello per infinite altre, ma non può essere considerata un monumento in mezzo alle baracche. Io la frequento, come voi, e desidero frequentarla non meno di molti altri luoghi, altrettanto vanamente e ridicolmente e realmente esclusivi. Chi frequenta una torre non si sente messo in pericolo da altri frequentatori di altre torri, così come chi entra in un supermercato di un certo gruppo non si preoccupa della concorrenza di un’altra catena.

La teoria della “torre d’avorio” è insomma assai debole. Non permette di comprendere perché chi sta nella torre della vera cultura possa avvertire un pericolo nella presenza di altri edifici, perché malgrado si senta, come tutti gli altri, speciale, percepisca anche, contemporaneamente, un malessere da declassamento che gli altri non si sognano di provare. È mettendo a fuoco questo specifico disagio che si può cogliere la ragione dell’allarme. Al cuore del malessere ci si avvicina osservando che il consumo culturale non significa niente, non indica nulla, è una particolarità, una preferenza che tutt’al più interessa i sociologi e gli uffici marketing. È appunto consumo. Mentre per i frequentatori dell’eburnea torre – per alcuni, almeno – dovrebbe essere altro. Non si sentono in una torre d’avorio ma nella piazza della capitale occupata dai barbari. La metafora della torre non è insomma la più adatta a comprenderne lo stato d’animo; piuttosto, la similitudine appropriata è quella della linea di confine: un tracciato ideale simile a quello che delimita l’intimità e la separa dallo spazio pubblico, e che, analogamente, dovrebbe dissociare la cultura vera da intrattenimento, cultura popolare, prodotti di consumo. La violazione della linea genera preoccupazione – a prescindere dalla vivacità della cultura alta in termini di prodotto e di consumo.

 

L’irrilevanza della vera cultura si manifesta nella commistione, nell’adiacenza inopportuna, nella mancanza di quella separazione fra sacro e profano che li delimita reciprocamente, e che colloca il Sacro in una posizione di superiorità (metafisica, non empirica) rispetto al profano. La natura della preoccupazione circa le sorti della vera cultura è analoga allo scandalo di un credente di vecchio stampo che vede sfilare l’allegro corteo del Gay Pride proprio dove si dipana solitamente la Via Crucis. Ricordo una pubblicità televisiva, di vent’anni fa almeno, in cui un’atleta, a rallentatore, si tuffava da un trampolino in una piscina. La dominante cromatica delle immagini era il giallo, poiché la vitalità dell’atto promuoveva un olio di mais. La musica che accompagnava il tutto era il Tannhauser: Wagner serviva da ancella a un tuffo nell’olio di semi. La cosa in verità filava via liscia, ma il disgusto mi ha seguito per molto tempo, come se di quell’olio mi avessero costretto a bere una cucchiaiata ogni sera. In profondità, l’omologazione è in effetti una desacralizzazione. È la laicizzazione del mondo a investire il campo della vera cultura, e la laicizzazione è realmente una minaccia mortale, perché priva la vera cultura dell’aggettivo «vera», che distingue la fede dalle opinioni. È la violazione del sacro temenos, il recinto che racchiude la vera cultura in un’intimità assai vicina a quella personale – a quella violata dall’uso generalizzato del saluto familiare per esempio – il problema della sua decadenza.

Cosa accade con la blasfemia? Succede che il credente prova inizialmente scandalo, ira, disgusto, paura, orrore. A questi sentimenti violenti, se la blasfemia perdura, segue una lunga ansiosa tristezza, che si cronicizza infine in comportamenti bizzarri. Ricordo una delle prime sequenze di Dove sognano le formiche verdi in cui un aborigeno australiano siede a meditare per terra nel corridoio di un supermercato, accanto agli scaffali colmi, fra i carrelli della spesa e la gente rispettosamente infastidita: il supermercato era stato costruito su di un luogo sacro a cui egli continuava a restare fedele. Per quanto mi riguarda, so di avere avuto tante volte comportamenti simili a quelli dell’aborigeno di Herzog. E so quanto autolesionistico, doloroso, stupido sia un tale nobile comportamento. Non è questa la via da percorrere. Se permettete, cito uno dei massimi esperti di vicoli ciechi, Franz Kafka, che in uno dei suoi quaderni appuntava, rivolgendosi come al solito a se stesso: «Nella lotta tra te e il mondo vedi di secondare il mondo». Secondare il mondo dunque: non per vincere il mondo né per vincere se stessi, ma per condurre in modo appropriato la lotta.

 

Vorrei qui ricordare le due principali posture sbagliate nella lotta – posizioni false che causano dolore inutile: non il dolore del colpo subìto ma quello della torsione involontaria e della tensione dannosa.

La prima postura dolorosa può essere anche detta ‘sindrome del professore’, per la diffusione che ha fra il corpo insegnante. L’elemento critico, che determina la perdita di equilibrio, è l’avvicinamento, in apparenza innocuo, del principio democratico alla sfera del sacro. Nella sua versione classica la sindrome consiste nel far confliggere la sacralità della vera cultura, combinata con l’imperativo democratico che ne impone la distribuzione, contro la realtà umana. Il primo passo per arrivare all’impasse è considerare la cultura valore supremo, il secondo è dedurne che in quanto supremo è proprio all’Uomo, il terzo, fatale, che in quanto dell’Uomo è anche potenzialmente di ogni singolo individuo. A questo punto non resta che comportarsi di conseguenza, e la delusione è assicurata.

Di fronte alla delusione (che arriva subito, il circuito si chiude quasi istantaneamente) inizia l’attività di riparazione: da un lato migliorare la propria capacità didattica e di persuasione, dall’altro combattere sul piano politico e sociale le inique condizioni che ottenebrano le menti degli adolescenti in tempesta ormonale e dei giovani sventati – l’ormai vetusta ma sempre terribile televisione, la playstation, i messaggini sul telefono, tutte le sciocche distrazioni fomentate da un mondo spumeggiante di stupidità, tutte responsabili esattamente come un tempo furono responsabili della stessa repulsione alla profondità e alla serietà i romanzi… Quando questa prima attività di riparazione, dopo anni, talora decenni di sforzi, non ha successo, si aprono due strade: quella sanzionatoria e burocratica o quella dell’illusione e del delirio. La prima si adatta agli spiriti meno generosi: si decreta che l’umanità è fatta di bestie e se si ha la possibilità si bacchetta chi si fa trovare a tiro. Anche qui le delusioni sono cocenti, perché a nessuno importa delle finte sanzioni erogate da autorità fasulle, ma qualche piccolo risarcimento di tanto in tanto è tuttavia possibile. La seconda si manifesta con la sorridente convinzione di stare facendo dei bei progressi, grazie anche ad accurate misurazioni che permettono di accertare di quanto il livello del mare sia sceso grazie al generoso lavoro di svuotamento manuale che da anni si sta portando avanti assieme ad altri volenterosi. Anche lungo questa via qualche rara soddisfazione è possibile, specie parlando coi propri compagni di manicomio. L’attività riparatoria della frustrazione è comunque, nel suo complesso, il principale impegno esistenziale degli insegnanti e di chi si mette in posizioni analoghe. Il livello di sofferenza che si accompagna a questa attività da criceto sulla ruota è inimmaginabile – e se si pensa che intere vite, a decine e centinaia di migliaia, vi sono immolate, l’idea di abolire la scuola in quanto istituzione si direbbe semplicemente un dovere.

La seconda diffusissima sofferenza inutile proviene dal far confliggere la cultura con il contesto in cui questa si trova. È la ‘sindrome del passatista’. L’elemento che determina la criticità è in questo caso l’esposizione della propria nuda sensibilità alla realtà dell’industria culturale. Voler scorgere l’aura del sacro guardandosi attorno è come cercare di identificare le costellazioni in una notte serena sdraiandosi supini al centro di Time Square: si può entrare in una qualunque grande libreria allo stesso modo, e constatare con orrore che i libri sono scomparsi, sommersi dalla carta stampata. La libreria – salvo eccezioni – è un luogo inutile per incontrare un libro – si può solo comperarlo, se per caso c’è. Per non parlare dell’evoluzione delle antiche terze pagine dei giornali, ridotte da decenni a svagati articoloni sulla gastronomia, collocate dopo quelle economiche e premute da quelle degli spettacoli, a loro volta ormai prive di critica cinematografica e teatrale degne del nome e divorate dal gossip. Questo tipo di sofferenza, di cui il caso personale di Wagner nell’olio di semi è un esempio tipico, si ripete in molti piccoli episodi giornalieri, minime irritazioni da cui nasce uno stato di infiammazione cronica.

Ma non occorre elencare. Occorre invece sottolineare come non sia sbagliato il mondo, ma chi pretende che esistano ancora cose morte e finite. Finite definitivamente, non da salvare, in via d’estinzione come le balene e gli idiomi dell’Amazzonia: cose morte, come i nonni e i bisnonni e i trisavoli: cenere, ossa sbriciolate, polvere. Pretendere di incontrarli al caffè dove usavano sostare è un atto da pazzi. Tutto qui. Lamentarsi – come fate, lo so benissimo – che in televisione ci siano solo programmi da voi poco graditi, programmi «poco culturali», cari signori, è una malattia della mente, la vostra, non un difetto di chi fa i palinsesti. Occorre convincersi che la superficialità gridata e la volgarità del nostro mondo è realtà massiccia, non contingenza: realtà così assolutamente reale, cogente, sostanziale, così irrevocabilmente esistente come necessità dell’Essere da non lasciare non dico la vaga speranza di qualche correzione, ma neppure la possibilità teorica di intuire una condizione differente all’Esistente Trionfante (al confronto gli Stati totalitari del secolo scorso erano fantocci, travestimenti, cartoni posticci appena appoggiati sopra il pensiero umano, che poteva immaginarli ‘diversi’ da come erano o poteva sperare in una concreata praticabile alternativa). Lagnarsi è inutile, e anche poco decente, se si pensa a cosa è stata la vita in altri tempi – a cosa è, ancora, in altre parti della terra. Non è il mondo sbagliato, siete voi sbagliati, cari signori. Il mondo va benissimo e riserva semmai sempre nuovi eccitanti miglioramenti.

 

Queste due posture errate e dolorose hanno entrambe origine ultima dalla sacralità della cultura ferita dall’evidenza del mondo. Le soluzioni proposte a difesa del sacro recinto, e dunque anche a prevenzione dai vani dolori posturali, sono state nel tempo innumerevoli. Ne ricordo brevemente alcune, che mi sembrano essere le più significative.

La prima soluzione consiste nell’isolamento. L’idea di fondo è che per preservare la purezza del sacro occorre ripristinare una distanza adeguata col profano, e siccome il profano è ovunque e non riconosce affatto il sacro, non resta che prendere le distanze dal mondo. Questa strada del resto è comune alla pratica religiosa più seria, da quella degli Amish del Vecchio Ordine a quella della Repubblica di Monte Athos. In alcuni casi è possibile costruire la propria vita ispirandosi principi di isolamento analoghi, lavorando e vivendo, per esempio, quale professore in un grande campus universitario di alto livello, frequentando esclusivamente persone simili a sé, viaggiando solo per partecipare a pochi selezionati congressi e ignorando rigorosamente tutto il resto. In altri casi è invece necessario vivere in clandestinità, da marrani. Questa strada implica un’ascesi assai più ardua di quella monacale, e si accompagna spesso all’esercizio della scrittura. Necessita di numerosi accorgimenti mimetici, diversi secondo l’ambiente in cui si vive, e, se l’esistenza dello studioso autentico è di tipo monacale, questa è piuttosto un incrocio fra quella di un dissidente politico e quella di un eremita. In generale, la strategia dell’isolamento ha un solo grande vantaggio: non mette in discussione la fede. Scriveva Bernardo Soares nel suo libro: «Ho sempre rifiutato di essere compreso. Essere compreso significa prostituirsi. Preferisco essere preso seriamente per quello che non sono, ignorato umanamente, con decenza e naturalezza». Il limite di questa scelta è l’assenza di confronto col mondo.

Nel momento in cui, invece, il sacro si mette in gioco e chiede al profano un riconoscimento, le due strategie per ottenerlo – ampiamente sperimentate dalle religioni storiche – sono o la rivendicazione della propria supremazia metafisica, accompagnata dall’ortodossia dottrinale, dalla pratica del potere mondano e da costruzioni ideologiche volte a dimostrare la razionalità del credo; oppure l’allargamento delle maglie del sacro, ibridandolo col profano, svuotando l’inferno e ampliando i posti disponibili in paradiso, annacquando e rendendo simpatici i vecchi dogmi, innovando e insomma venendo incontro ai giovani. La prima è la strategia di chi si sente abbastanza sicuro della tenuta dell’istituzione, la seconda quella di chi ne teme il crollo imminente o non si identifica del tutto con questa, vuoi per ragioni biografiche, vuoi per convinzioni personali, vuoi per convenienza. Questa seconda strategia è fondata su di una particolare ipocrisia, per cui la salvezza del sacro starebbe nel consenso riscosso dalla sua versione soft, quando è evidente che una simile salvezza equivale a un’eutanasia. L’ipocrisia della prima strategia sta invece nell’istituzionalizzazione stessa: le istituzioni sono costruzioni mondane, la fede è questione personale. Come si fa a credere al valore della cultura alta solo perché esistono cattedre di Estetica? Ovviamente da quelle cattedre provengono spiegazioni, ma l’argomentazione che sostiene la fede alla fine è sempre tautologica. Il Sacro è ben difeso dalle istituzioni a ciò preposte fino a che il Profano riconosce un’unica gerarchia universale, e in questa il posto del Sacro. In una civiltà laica la sicurezza della prospettiva istituzionale è revocata dai fatti. Alcuni anni fa Umberto Eco, su di un quotidiano, affermava:

 

Il fatto è che, per quanto riguarda problemi dell’arte e di gusto, non esiste democrazia, e per questo nelle scuole si insegna storia dell’arte o si cerca di convincere i ragazzi che Manzoni scriveva meglio di Carolina Invernizio. Per una grande maggioranza dei cittadini sono artistiche anche le decorazioni del palco di Sanremo e, se si ricoprisse l’intera facciata del Duomo con lampadine multicolori trasformandolo in un albero di Natale, ci sarebbero infinite famiglie che porterebbero i bambini a vederlo. Ma compito degli enti pubblici è educare anche il gusto di questi sfortunati.

 

Gli sfortunati non si considerano affatto tali, e neppure lo sono. Sono cittadini come gli altri, con gusti molto diffusi, e non prendono lezioni da nessuno. Sarebbe stato piuttosto Umberto Eco a dover prendere atto che i suoi giudizi di gusto non sono universali ma contingenti, esattamente come l’interpretazione del sacro che offre una qualunque religione storica. Non solo: che, essendoci innumerevoli religioni – e ciascuna di esse soggetta a mutamenti storici – il fatto che davvero esista almeno una delle divinità a cui esse si riferiscono è perlomeno improbabile. E che la mancanza totale di fede, o la fede in un vago e confuso dio personale, o il coltivare sciocchi pregiudizi magici, è perfettamente adeguato a una condizione umana piena e compiuta esattamente come essere un sacerdote di una qualunque di queste religioni. Eco sembra quasi parlare dal punto di vista dell’istituzione: non occorre avere fede, bisogna però andare in chiesa e sposarsi in chiesa, non occorre davvero credere in coscienza alla verginità della Madonna e sapersela raffigurare, e neppure occorre rimanere vergini prima del matrimonio, ma bisogna sostenere, anche con se stessi, che il Papa ha ragione… L’importante è andare a catechismo, imparare a considerare importante qualcosa che non si capisce e non si apprezza, che non si seguirà se non per finta. Su questo si basa l’istituzione: c’è qualche sfortunato da educare e soccorrere. E l’istituzione va onorata e rispettata.

Io vi chiedo, signori: non è forse meglio proporre che il duomo di Milano sia ricoperto di lampadine multicolori, se ciò può piacere ai nostri bambini? Non è meglio chiedere il Nobel per la Letteratura ‘alla memoria’ per Carolina Invernizio, ammesso che ancora qualcuno la legga, anziché esigere che milioni di sfortunati facciano finta di apprezzare l’ironia di Manzoni, come si pretende a scuola? Non è meglio riconoscere il pieno diritto all’ateismo e ad ogni assurda credenza anziché far battezzare tutti i bambini solo perché lo vogliono la Chiesa e l’abitudine? Che pazzia è educare il gusto? Con quale diritto? Da quale pulpito? Volete finire come i Testimoni di Geova, andare a suonare i campanelli e proporre in lettura le Elegie duinesi? Perché sta per accadere questo, anche se non vogliamo rendercene conto. Il nostro sacro è solo nostro, e l’umanità ha pieno diritto di respingerlo, ignorarlo, deriderlo, sopportarlo sbuffando: perché è una delle infinite forme storiche, parziali, contingenti, provvisorie, variabili, infine futili e lievi come i soffioni portati dal vento, di un culto a cui non corrisponde l’esistenza reale di alcuna divinità.

Questo punto è di fondamentale importanza. Nulla, ma proprio nulla, può dimostrare che un piccolo quadro di Bonnard è meglio di una bella foto, grande e colorata, di alcuni micetti dentro una cesta di vimini. Fino a che non esiste una dimostrazione completa, in senso forte, che sostenga simili giudizi di gusto, questi non possono essere considerati veri. Sono opinioni di un’infima minoranza di persone, che però immagina e pretende di essere l’Umanità con la maiuscola. La vera cultura, che è fonte del pensiero laico e libero, ha il dovere di non considerare se stessa in termini religiosi. Ha il dovere, anzitutto verso se stessa, di prendere atto che non esiste alcun dio da adorare. E di trarre da questa consapevolezza tutte le conseguenze necessarie.

 

Il problema a questo punto diventa: che ne è del nostro culto una volta privato della fede? Se nella lotta col mondo stiamo dalla parte del mondo, di noi stessi che ne è? Cosa significa conservare una fede sapendola infondata?

Anzitutto significa riconsiderare laicamente i nostri punti di vista troppo assertivi. Ovviamente, signori, ci consideriamo tutti privi di pregiudizi normativi. Ma non è proprio così. Di fatto continuiamo tutti a fare finta che ci siano solide ragioni per essere come siamo, continuiamo a comportarci come se ci fosse il giusto, noi, e lo sbagliato, gli altri. Bisogna essere capaci di scrollarsi via di dosso questo atteggiamento, se non altro per non essere sopraffatti nella lotta. Per esempio, crediamo forse di poter imporre l’ortografia, la grammatica? Possiamo usarla, insegnarla a chi per caso volesse imitarci, non possiamo né esigere che sia usata né, men che meno, considerare con sufficienza chi ha abitudini differenti dalle nostre. Al massimo, alla lunga, non lo capiremo, e lui non ci capirà, anche se questo è davvero poco probabile (del resto le lingue evolvono e si differenziano, ci sono sempre stati gli interpreti). Le norme linguistiche non sono questione di comprensione reciproca ma di uniformità imposta. Come le casacche cinesi all’epoca della Rivoluzione Culturale. Si può parlare, scrivere e capire l’italiano come una lingua straniera conosciuta approssimativamente, e vivere benissimo. Negli uffici è pratica consueta scrivere lettere in cui gli accenti sono sostituiti da apostrofi, senza alcuna ragione, e tutti considerano la cosa normalissima. Si scambiano messaggi in cui «per» è una «X», e va benissimo. Perché stabilire che «qual è» va scritto senza apostrofo se accenti e apostrofi sono vaghi segnetti che possono esserci o non esserci come un neo sul naso del parlante? Hanno ragione, ragionissima, per davvero, quei guazzabugli dementi dei libri di testo per le lingue straniere, perché non consentono di porsi inutili problemi di adeguatezza formale. E se non esistono per un italiano che vuole parlare inglese perché devono esistere per un italiano che vuole parlare italiano? Istruzione e cultura sono cose in toto differenti. L’istruzione serve a scopi pratici, di immediata evidenza, per esempio capirsi quando si parla – la cultura pretende forma e consapevolezza. Se il nostro recinto deve avere in una natura extra-normativa ed extra-sacrale la propria dignità, allora dobbiamo considerare la nostra grammatica da un lato una cosa insignificante, dall’altro un fatto intimo. Una questione che riguarda noi stessi e chi ci è più vicino. La grammatica va insegnata come si insegna ai propri figli che la lasagna della nonna è buona. L’ortografia è una questione affettiva, non normativa. Quello che si perde nel passaggio – nell’apprendimento, non nell’insegnamento – svanisce come ogni cosa nel trascorrere delle generazioni: un tempo si usava imparare a scrivere in poesia, i miei nonni lo sapevano fare, mio padre non lo sapeva più fare ma era stato addestrato a tradurre dall’italiano in latino – e se mio padre ricordava il viso di suo nonno, e io lo ricordo solo da un ritratto (ora smarrito), mio figlio non ne saprà nulla. La questione della decadenza della vera cultura è una questione di eredità affettiva sottoposta alle tensioni di un mondo infinitamente più grande di quello apprezzabile dal nostro sguardo, pieno di altri affetti, affollato di altre passioni e altri interessi. E va considerata con la stessa serenità con cui affrontiamo la morte e la vita.

 

Conservare una fede sapendola infondata significa continuare a praticarne i riti perché parte della propria identità individuale e allargata, senza proselitismo e senza considerare gli altri in errore. Come degli Ebrei agnostici che continuano a essere parte della loro comunità, senza sentirsi per questo parte del popolo preferito in esclusiva da Dio. Ci rimangono degli oggetti, oggetti mentali anzitutto, con i quali abbiamo avuto – noi, singoli individui, noi comunità – una lunga, lunghissima consuetudine. Oggetti come gli altri, esattamente come gli altri. Nulla distingue, da un punto di vista metafisico, la Passione secondo Matteo da una musica da spiaggia: per esempio bomba (ricordate la danza e il motivetto? «…un movimento sexy»… ricordate?) – o, al limite (sebbene oggetto non culturale in senso pieno, non tramandabile cioè) da un paio di zatteroni da mettere ai piedi, di quelli che si direbbero mutuati da una bambola Bratz. Oggetti amati e apprezzati, in modo diverso, da persone diverse. E allora? Oggetti transeunti, che ci accompagnano nella vita, per periodi brevi o lunghi – che importanza ha? E ascoltare Bach per abitudine, perché lo abbiamo fatto tante e tante volte, farlo come si beve il caffelatte la mattina – sapendo che in India milioni di persone invece prendono una piccola tazza di chai, masticano una foglia di betel. I nostri oggetti non hanno bisogno di giustificazioni metafisiche per essere amati, apprezzati, conosciuti e ricordati. Occorre saper vivere senza che nulla possa durare in eterno, senza bronzo imperituro, sapendo che il nostro amore è infondato negli oggetti e fondato in una devozione arbitraria – che il sentiero della Civiltà è un trompe l’oeil.

Conservare una fede sapendola senza basi diventa il problema del tenere i rapporti con il passato. L’esperienza dell’infondatezza metafisica accompagnata dalla devozione è in realtà esperienza universale, ma si applica alle persone: alle persone amate, a quelle vicine e a ciò che ce le ricorda. La consapevolezza della loro casualità e finitudine è sempre presente nell’apprensione che abbiamo per il loro benessere, in definitiva per il loro essere pieno. Ma queste persone esistono entro un orizzonte umano delimitato, più o meno vasto ma sempre infine delimitato. Si amano i figli, i nipoti, i nonni – poi, di chi si trova al di là della linea visibile, si tramandano delle proprietà, una frase, lacerti di una vita che è stata piena e complessa quanto la nostra, episodi trasmessi di generazione in generazione, semplificati e ridotti ad aneddoto ogni volta più scarno fino a svanire del tutto. Gli antichi Cinesi nel culto degli antenati ampliavano il loro orizzonte, ma pur sempre di un orizzonte umanamente comprensibile si trattava. Alla fine, creature un tempo amate, senza eccezione, si perdono in lontananza. Riguardo i nostri oggetti culturali esiste, per ciascuno di noi, una situazione simile: non solo non possiamo conoscere e tantomeno amare tutto il complesso universo tramandato, ma anche fra ciò che ci appartiene, che cosa è davvero abbastanza vicino da portarlo con noi? Possiamo conservare la consolle impero di famiglia in una casa di 80 metri quadri, e a che prezzo? Quanto tempo dedicare a Petrarca, e quanto lasciarlo andare lontano, periferico rispetto all’area abituale dei nostri pensieri? Se non abbiamo bisogno di sentire un legame con l’antenata ritratta in quel vecchio olio, con i nostri nonni lo abbiamo? E con noi stessi di trent’anni fa? Che cosa è degno di sopravvivere, se solo scrutando nelle nostre viscere affettive possiamo giudicarlo? Sono attendibili queste viscere o sono cangianti come il fegato su cui gli aruspici azzardavano i loro responsi? Che farne del passato? Tutto va conservato, tutto abbandonato?

 

Io non ho, gentili signori, risposte a queste domande. Ognuno è del resto chiamato a rispondere per sé. Vorrei però dedicare poche parole alla singolare capacità di adattamento nel tempo degli oggetti. Solo un pensiero ingenuo immagina che la durata dipenda dalla qualità intrinseca dell’oggetto. È invece impossibile predire cosa verrà tramandato e cosa si spegnerà presto. Si può però affermare con una certa sicurezza che il nuovo, in quanto tale, non scalza e non soppianta il vecchio, specie quando si innesta nel suo stesso ambiente. Faccio una simile affermazione solo per sottolineare come non ci sia ragione di temere, per la vera cultura, una volta abbandonata la sua sacralità, una decadenza per omologazione al profano. Vale per gli oggetti culturali nati sacri ciò che vale per quelli nati profani: gli oggetti, come gli esseri viventi, si specializzano, definiscono nicchie ambientali entro cui prosperare, e si estinguono, evolvono o si rimangono identici a seconda delle circostanze. Le penne a inchiostro liquido non hanno eliminato le comuni penne a sfera, e queste non hanno fatto scomparire le stilografiche – ciascuna invece si è ritagliata uno spazio particolare. Così, anche ciò che proviene dalla tradizione colta – non tutto, non sempre – potrà trovare una propria nicchia nell’universo culturale proliferante di vita nuova e straniera, senza necessariamente scomparire. La storia della cultura non è così diversa dalla storia naturale, e andrebbe considerata con uno sguardo analogo.

E vorrei dedicare qualche parola, sebbene si tratti un’osservazione ovvia, anche alla proprietà più importante che distingue gli oggetti culturali tramandati dalle persone che amiamo. È presto detto: mentre i legami di amore personali sono attivi fra un limitato numero di persone, entro quello che si è detto un limitato orizzonte umano, quelli culturali sono assai più vasti. Un oggetto culturale (appartenente alla tradizione della vera cultura come ad un’altra, naturalmente) può essere conosciuto da moltissime persone distanti fra loro nello spazio e nel tempo, ignote le une alle altre, e per ciascuna di esse possedere un valore intimo significativo. In questo senso stabilisce una singolare concordanza fra queste persone, una sorta di fratellanza fra sconosciuti. E, superando l’orizzonte di ogni individuo, effettivamente sfida la morte, intesa come evento che riguarda il singolo. Considerando la durata non comune della tradizione rappresentata dalla vera cultura, almeno rispetto alle nuovissime tradizioni del nuovo, la sua capacità di aver fatto e di far vivere emozioni, affetti, sensibilità e pensieri comuni in uomini fra loro remoti nel tempo, di congiungere così tante sfere intime isolate nell’esperienza esistenziale, di stabilire antenati spirituali condivisi, la vera cultura è tuttora il più compiuto organismo spirituale elaborato dall’umanità.

 

Quanto alla nostra lotta col mondo, naturalmente, continua. Continua non più come lotta per preservare la linea di confine fra sacro e profano, ma per difendere la seconda linea, quella dell’intimità. Qui i dolori dei colpi ricevuti non sono evitabili. Lo scambio di monete d’oro contro cianfrusaglie è fatale, e occorre farsene una ragione. Non occorrono infatti violazioni speciali perché l’intimità possa soffrirne. Basta il fatto di essere messi in condizione di non poter coltivare e curare e prestare attenzione al proprio mondo interiore per soffrire – come sempre è accaduto, del resto, a chi ha bisogno di tale attività più del nulla concesso dalla vita comune. Oppure di essere messi in condizione di trattare di ciò che ci è più caro di fronte a chi non può o non vuole comprendere; o di essere costantemente esposti a mondi estranei – situazione che, alla lunga, può risultare faticosa e penosa. Le sindromi del professore e del passatista possono essere curate, ma esiste un residuo di sofferenza che il mondo impone comunque. È l’idea che sia il mondo a dover essere corretto che è folle – l’idea che la vera cultura debba essere per forza di tutti. In fondo possiamo starcene per i fatti nostri, non credete, signori? Siamo forse molesti? La nostra attività si svolge quasi completamente in ombra, e non c’è ragione di esporsi al ridicolo e all’incomprensione. Possiamo diminuire in modo significativo le nostre sofferenze e paure se ci rendiamo conto di essere una singolarità nella storia naturale di uno strano animale, non il centro della sua essenza. Certamente è difficile non considerare in qualche modo sacro ciò che è intimo. Io stesso, che pretendo da me una compiuta laicità, ho spesso atteggiamenti inadeguati alle circostanze, come risulta evidente dai miei goffi comportamenti. Ma solo l’umiltà di chi sa di non avere Dio con sé può aiutare nel confronto con l’immensità e lo strapotere dell’estraneo.

 

Gentili signori, grazie della vostra attenzione. Certo di essere ricambiato, vi auguro una buona serata.

5 thoughts on “Quasi un congedo (sulla decadenza della vera cultura)

  1. Da accademica, studiosa di antichità classica, francamente non riesco proprio a immaginare come si possa essere d’accordo con una simile laudatio temporis acti nichilista (e reazionaria, checché se ne smarchi l’autore nella seconda parte dell’intervento), peraltro priva di ogni prospettiva storica – a partire dal termine “vera cultura”.

  2. Interessante lettura, mi piace anche la definizione “uomo del sottosuolo della cultura”, una via di mezzo tra la ‘sindrome del professore’, e la ‘sindrome del passatista’ di cui parla quest’uomo nella conferenza, anzi una fusione tra le due, come le due sfere che ognuno di noi si porta dentro e porta fuori, insomma quella pubblica e quella privata. Esistono confini, non lo si può negare. Non si può negare neanche il fatto che molti vogliono superarli. Il saluto è forse un primo passo.

    “Il problema a questo punto diventa: che ne è del nostro culto una volta privato della fede? Se nella lotta col mondo stiamo dalla parte del mondo, di noi stessi che ne è? … Che farne del passato? Tutto va conservato, tutto abbandonato?”

    In conclusione, per certi versi sembra di sentire Montale (un altro grande esperto dei vicoli ciechi), quello che forse ha visto compiersi il “miracolo” o quello chiuso in una stanza di specchi che ripete: Non chiederci la parola…

  3. “Le sindromi del professore e del passatista possono essere curate, ma esiste un residuo di sofferenza che il mondo impone comunque. È l’idea che sia il mondo a dover essere corretto che è folle – l’idea che la vera cultura debba essere per forza di tutti. In fondo possiamo starcene per i fatti nostri, non credete, signori? Siamo forse molesti? La nostra attività si svolge quasi completamente in ombra, e non c’è ragione di esporsi al ridicolo e all’incomprensione.” (Savelli)

    No, con la scusa che esiste e sempre esisterà “un residuo di sofferenza”, lasciamola aumentare, non correggiamo “il mondo”, teniamoci ben stretto al petto questo schifo di “vera cultura” (dimenticando quanto essa è ANCHE “documento di barbarie”, secondo W. Benjamin) e lasciamo trascinare ancora una volta i “tutti” alla solita guerra (per procura stavolta; o per ora…)
    Suvvia, un reazionario , che parla a bassa voce, suadente e dimesso , sempre reazionario resta.

    P. s.
    Ma il Giulio Savelli che firma questo lungo sproloquio è lo stesso di cui in Wikipedia si dice: “È stata la prima casa editrice italiana della sinistra antagonista ed extraparlamentare. Fondata a Roma nel 1963[1] da Giuseppe Paolo Samonà e Giulio Savelli, ha pubblicato centinaia di titoli legati all’approfondimento della filosofia marxista, alla lotta di classe, al marxismo-leninismo e al pensiero socialista rivoluzionario.”?

  4. Tutto questo scritto si basa sulla convinzione che dare del tu a uno sconosciuto sia una mancanza di rispetto e dare del lei invece sia una forma di rispetto. Inizialmente gli esperti della convivialità e del neuromarketing hanno deciso che titolari, baristi/e e camerieri/e dessero del tu ai clienti di qualsiasi età per farli sentire a loro agio in un clima informale e fidelizzarli. È una strategia perseguita in modo totalmente razionale. Da un lato la barista che dà del tu a un anziano può essere vista come una maleducata, ma dall’altro può anche darsi che la stessa non abbia risolto il complesso edipico, che in quell’anziano cerchi il padre e che quel modo di fare sia una forma di disponibilità sessuale. Oggi dare del tu significa dare la possibilità di entrare in confidenza e dare del lei significa mettere a distanza l’altra persona. Il lei non è più segno di deferenza. Sono passati i tempi della signorina Gradisca. La qualità elevata di questo saggio breve è indiscutibile, ma forse la parte iniziale è un poco da rivedere. Non discuto neanche sull’autore del saggio, che è senza ombra di dubbio uomo di cultura, ma su questo aspetto del tu/lei a mio avviso non è molto aggiornato.

  5. Chi se ne frega del “perbacco”, del tu al barista o all’operatore telefonico, quando stiamo assistendo alla più grande operazione di assassinio della cultura perpetrata dai grossi editori che stanno cancellando la letteratura, il genio, la creatività, il talento a favore di un business effimero? Questi sarebbero i veri drammi della decadenza di una cultura? L’uso di dare del tu all’interlocutore per farlo sentire a proprio agio? Sinceramente fa ridere! Non è piuttosto il vero dramma la pubblicazione di tanto pattume commerciale dei figli di e dei soliti raccomandati di sistema che uccidono giorno per giorno la cultura?

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