di Nicoletta Vallorani
Pensare obliquo, rubrica a cura di Nicoletta Vallorani
A volte, le letture si intrecciano a caso con la Storia, quella con la esse maiuscola, nell’onda montante di un contraddittorio mediatico piastrellato di soldatini che credevano di farsi eroi imbracciando un fucile. La letteratura salva, a volte. Sposta le direttive dello sguardo. Riordina. Aiuta a mettere a fuoco, almeno per un po’, le sfumature che dimentichiamo quando schieriamo le nostre (pat)etiche armate dentro un mondo in due colori: il bianco – che è il bene inarrestabile e giusto – e il nero – quel male che non ci somiglia e che quindi val bene la pena di cancellare. Ricapitoliamo il nostro sistema cognitivo occidentale nella consueta ostinazione dicotomica: se è bianco è buono, e lo teniamo con noi. Se è nero, lo invadiamo di luce o lo espelliamo. Delle due l’una. Cancelliamo il nero e lo rendiamo invisibile: non ci somiglia, non è come noi, non ci riguarda. Nel territorio comanche tra un colore e l’altro, di norma, infuria la battaglia.
Non mi sbilancio in teorie e non divento improvvisamente esperta in dinamiche belliche e procedure negoziali. Non entro nel dibattito su come si possa aiutare un paese che sta venendo fatto a pezzi dagli eserciti di Putin, perché davvero credo di non avere le competenze per parlare del pregresso prima dell’attuale, per collocare in prospettiva quel che sta accadendo. Mi resta anche la convinzione recitata da un adagio ricorrente in tempi bellici diversi: “Bombing for peace is like fucking for virginity”. Comunque sia, di mestiere, faccio la scrittrice e d’istinto non guardo i condottieri, ma i soldati semplici che a volte non sanno neanche a chi stanno sparando. Nell’osservare il quadro del macello, mi riesce davvero difficile distinguere il bianco e il nero: vedo poltiglia e calcinacci. E nel pensare qualcosa di sensato da dire, smarrisco le parole: perché come scriveva una volta Vonnegut, non c’è mai niente di intelligente da dire su un massacro.
Questo è l’orizzonte nel quale mi arriva la voce narrativa di Tlotlo Tsamaase, autrice motswana traghettata in Italia dalla musica traduttiva di Giulia Lenti. In poetici sussurri, questa voce si infila in un momento della nostra Storia europea (o quella che vorremmo sentire tale), sparigliando i miei ragionamenti e aiutandomi a capire: che cosa mai stiamo facendo di questa battaglia dell’Europa bianca, riconoscibile come nostra e declamata come democratica? E perché è così facile simpatizzare, intervenire, ospitare (tutte cose giuste, intendiamoci, e condivisibili) quando il colore di chi aiutiamo è simile il nostro? Come si può condannare o salvare senza render conto delle ragioni che condannano alcuni e salvano (o tentano di farlo) altri? Che cosa manca a questo quadro di portatori di pace armati fino ai denti?
Silenziosa sfiorisce la pelle, pubblicato in italiano da Zona 42, mi ha portata dove non volevo: a unire i punti di un quadro che vediamo solo parziale, specie in questi tempi barbari, mentre corteggiamo l’orlo di una guerra che sentiamo più “nostra” di quelle che riguardano le persone con un altro colore della pelle. I colpi di mortaio che arrivano dall’Ucraina riguardano un paese abitato da gente bianca. L’Africa, invece, è lontana e di quelle battaglie non percepiamo l’eco. Non ci somigliano i rifugiati che arrivano attraverso il Mediterraneo, tenendosi a galla sul desiderio di sopravvivere e lasciandosi alle spalle il luogo cui appartengono. Non vogliamo neanche considerare il fatto che, come scrive Warsan Shire in quella meraviglia poetica e politica che è “Home”, “No one leaves home unless/home is the mouth of a shark”: nessuno se ne va di casa, a meno che casa non sia la bocca di uno squalo..
Noi, l’occidente liberato, non siamo nella bocca dello squalo, dunque non possiamo capire.
Forse noi siamo lo squalo, o lo siamo stati nelle stagioni imperialiste che costellano la nostra storia. Tsamaase le racconta con sguardo obliquo e poetico, dando corpo, pelle e linguaggio alla rimozione di intere culture dell’Africa colonizzata e immaginando un popolo in cui la subalternità è scandita dalla progressiva perdita di colore della pelle, che si sbianca in una muta etnica inarrestabile e conduce alla fine all’invisibilità.
Storicamente, conosciamo il processo. Nell’oggi, però, non colleghiamo i punti e parcellizziamo gli eventi del passato in una teoria di necessità economiche che ci appaiono irrinunciabili. Tsamaase dice l’altra versione dei fatti: la colonizzazione dal punto di vista dei colonizzati. Silenziosa sfiorisce la pelle racconta l’esproprio culturale e politico come sbiancamento, cancellazione, rimozione. Lo fa descrivendo un corpo nero che muta, schiarendosi, e che recupera il suo colore solo da morto, quando ridiventa come “l’inchiostro semprenero del cielo” (p. 33). La perdita del colore si configura come punizione per trasgressioni alle regole stabilite dai potenti che vivono nella parte ovest della città. Nel caso specifico della protagonista, la colpa è la violazione delle regole “corrette” dell’amore, che è eterossessuale, o altrimenti non è. La punizione concerne il corpo – come vuole Foucault – e si manifesta come una cancellazione che muove dallo sfarinamento della pelle, per agganciarsi poi alla perdita della vista (“Se nessuno mi vede, non sono vera”, p. 34) e infine alla negazione della parola (“L’aria crepita nel battito morente della lingua”, p. 79). Quest’ultima rimozione deliberata evoca tante riflessioni critiche sulle conseguenze del colonialismo, e quella di Spivak in particolare (“Can a subaltern Speak?”, 1988). Come i colonizzati, i personaggi di Tsamaase non hanno diritto di parlare, sono derubati della voce, di una lingua che è pratica di significazione e poesia quotidiana. Quando essa non è ancora stata sottratta, nella prima parte del romanzo, la protagonista ne assapora i suoni come fossero un dono: “Almeno abbiamo ancora la nostra lingua, la perla che desidero ogni secondo della giornata, il modo in cui si incurva e si mescola all’aria sciogliendo dolcezza nelle mie orecchie” (p. 28). Più avanti, nel procedere della punizione, la capacità di parlare si deteriora, e ogni parola esce sbocconcellata, monca, inappropriata. La pratica di significazione diventa scrittura del paradosso: i contenuti non prendono forma, la comunicazione non passa, chi ascolta (se ascolta) non capisce.
Così si torna noi, qui e ora, in questa contingenza non facile. Noi bianchi, maschi (e in parte femmine), occidentali, persone normali che traggono conclusioni da dati insufficienti (e o senza dati del tutto) contentandosi di una miopia selettiva, che fa vedere solo alcuni colori e alcuni lineamenti: quelli che ci somigliano contro quelli che non riconosciamo. “Contro”, appunto: non con, o insieme, o in confronto, o in relazione. Perciò arriviamo a questo: il colore.
Il colore di questa migrazione e di questi rifugiati ci conforta. Loro, che oggi migrano da una terra bianca, ci somigliano, la loro guerra è più reale perché chi viene ucciso ha una pelle che ricorda la nostra. Il sangue dei neri, il loro annegare senza nome, ha meno senso. Non ci appassiona. Non abbiamo ancora smesso di considerare questo “altro” di un colore diverso come una cosa, per renderlo meno umano e legittimare la non-accoglienza.
Perché bisogna vivere nel mondo reale, dicono alcuni, e proteggersi dalle invasioni e armarsi, possibilmente fino ai denti. Ai realisti che affollano i media in questo momento, direi però che “la realtà è solo un’invenzione di qualche dittatore” (p. 40). Non conosciamo la verità perché avvicinarsi a essa richiede lo sforzo di uscire dalla nostra pelle, e non è consentito. È un atto che si configura come un tradimento. Noi non vogliamo tradire perché essere espulsi dalla comunità dei giusti (bianchi, maschi e occidentali, ancora) ci terrorizza. Perciò facciamo quello che dobbiamo fare: cancelliamo disegno e colori. Costruiamo teoremi senza dati. Approviamo leggi che rimuovono l’altro.
Speriamo solo che a forza di cancellare, noi non si cancelli anche ogni traccia di civiltà. Quella vera.