di Andrea Sartori

 

Il 2 settembre 1920 si tenne a Catania una cerimonia in onore degli ottant’anni di Giovanni Verga, che era già stato festeggiato al Teatro Valle di Roma, con tanto di laticlavio, il 19 luglio di quell’anno (morirà a Catania il 27 gennaio di due anni dopo, un secolo fa).

All’evento catanese prese la parola Luigi Pirandello, infrangendo quella che oggi – a prima vista e a un livello superficiale d’analisi – parrebbe una regola di buon senso. Pirandello, infatti, aveva annunciato già nel 1919 la commedia da fare, ovvero i Sei personaggi in cerca d’autore, il cui debutto tra i fischi (“Manicomio! Manicomio!”) sarebbe avvenuto proprio al Teatro Valle, il 9 maggio 1921.

 

Se il susseguirsi delle date ha un significato, ci si potrebbe infatti chiedere quale omaggio al verismo avrebbe potuto rendere un autore che, sulla linea di quanto aveva già fatto per il romanzo con Il fu Mattia Pascal (1904), stava pensando di rivoluzionare il teatro. A torto o a ragione, la messa in scena dei Sei personaggi è ritenuta un gesto di rottura che ha spazzato via non solo il criterio della verosimiglianza, ma la nozione stessa di rappresentazione del vero (“Questa è vita, signore!”, esclama il Padre nei Sei personaggi all’indirizzo del Capocomico, il quale ribatte: “sarà! Ma irrappresentabile”).

Occorre quindi interrogarsi sul senso dell’omaggio di Pirandello a Verga, quando in Europa il simbolismo, le avanguardie e il modernismo avevano preso o stavano prendendo congedo dall’idea ottocentesca e positivistica che si potesse scrivere del reale con la stessa fedeltà ai fatti che la fotografia pareva intrattenere con il proprio oggetto (per citare solo un caso tra i più illustri, James Joyce scrisse l’Ulysses tra il 1914 e l’ottobre 1921, per poi pubblicarlo all’inizio del ’22).

Al Teatro Bellini di Catania, e in un modo che oggi può apparire incoerente, Pirandello puntò dunque il dito contro la circostanza che venissero tributati onori a Verga solo allora, quarant’anni dopo I Malavoglia (1881).

 

Qual era, tuttavia, il Verga che Pirandello aveva in mente, e contro chi, in realtà, egli intendeva puntare il dito? Qual era, di nuovo, il senso della sua difesa dello scrittore più anziano, con la quale egli, tra l’altro, si rimangiava quanto aveva sostenuto in gioventù circa una lingua verghiana simile a un belare di pecore (si veda un caustico appunto del 2 agosto 1886 riguardante Pane nero, una delle Novelle rusticane pubblicate nel 1882)?

L’impressione è che Pirandello nel 1920 ormai non avesse in mente Verga in sé, ma la funzione che questi e il verismo avevano finito per assumere innanzitutto nella sua stessa poetica, per non parlare del campo di tensioni e rivalità che Pirandello abitava in compagnia d’altri intellettuali dell’epoca, primo tra tutti l’odiato Gabriele D’Annunzio. Verga, in sostanza, a un certo punto ebbe importanza per Pirandello in quanto generatore d’effetti a lungo termine, più che come feticcio da idolatrare (o disprezzare) e porre sotto la teca d’un museo.

 

Si potrebbe quindi dire che Pirandello, al Teatro Bellini, aveva riconosciuto, o stava per riconoscere, l’esistenza d’un effetto Verga, ovvero d’un modo d’intendere il rapporto con il collega di Catania, che evitasse d’essenzializzare il canone verista e che ne permettesse, al contrario, diversi usi, persino in una temperie culturale modernista. Solo in tale prospettiva, forse, ricordare oggi i cent’anni della morte di Verga può essere qualcosa di più d’una mera formalità o d’uno stanco rituale.

A dispetto delle apparenze, infatti, la chiave, o funzione, anti-dannunziana del discorso pirandelliano del 1920 non doveva dare accesso a un mondo manicheo governato dalla dicotomia tra letteratura di parole (D’Annunzio) e letteratura di cose (Verga), ovvero, per usare i termini di Pirandello, tra vita che “si vive” e vita che “si scrive”. Quel discorso, infatti, andrebbe proficuamente letto alla luce della successiva Avvertenza sugli scrupoli della fantasia che Pirandello incluse in una nuova edizione de Il fu Mattia Pascal, e che fu pubblicata per la prima volta su L’Idea nazionale (22 giugno 1921), un mese dopo il disastroso debutto dei Sei Personaggi al Valle.

 

Procediamo tuttavia con ordine. La ragione per cui Verga era stato negletto fino a quel momento, sosteneva Pirandello nel discorso pubblico di Catania, “è in una grande, o piuttosto, in una prestigiosa avventura letteraria, che prese tutt’a un tratto e tenne per tanto tempo gli animi in un abbaglio fascinoso, quella d’un uomo adatto e magnifico, nato per l’avventura, così nell’arte come nella vita, e in una tal confusione d’arte e di vita da non potersi dire quanta della sua vita sia nella sua arte, quanta della sua arte nella sua vita; una tal confusione salvando nel solo modo con cui era possibile salvarla, cioè in apparenza, da fuori, sotto il lussuoso paludamento d’una continua letteratura. Ho detto Gabriele D’Annunzio”.

Da qui, per Pirandello, la necessità d’un antidoto alla poetica del rivale tutta incentrata sull’apparenza, ovvero la necessità della “cosa” e non delle “parole che la dicono”; vale a dire: “il ritorno al Verga, inevitabile”.

 

Nondimeno, se Pirandello in un contesto così polemico avesse davvero identificato il Verga con la vita che “si vive”, in quanto opposta alla vita che “si scrive”, non si comprenderebbe il nesso tra quel Verga e il suo possibile uso in funzione d’un nuovo progetto artistico: Il fu Mattia Pascal, già pubblicato, e i Sei Personaggi (il “ritorno al Verga”, come s’è detto, era “inevitabile”, e Pirandello aggiungeva: “ne godo io – radicalmente diverso”).  In entrambi i lavori, infatti, la vita entra in una zona d’indistinzione con la fiction, modellando la giovanile inclinazione dell’Agrigentino per quelle che Annamaria Andreoli ha definito “autobiografie creative” (Diventare Pirandello. L’uomo e la maschera, Mondadori, Milano, 2020, p. 18). Altro che opposizione tra la “cosa” e le “parole che la dicono”!

Siamo poi davvero sicuri che il Verga, non presente alla cerimonia del 2 settembre 1920 a Catania, si sarebbe di buon grado identificato con il contraltare di D’Annunzio? Siamo certi che per lui la dicotomia tra vita che “si vive” e vita che “si scrive” avesse senso?

 

Come ricorda Andreoli, D’Annunzio quel giorno di settembre era di stanza a Fiume, stava per emanare una costituzione (La Carta del Carnaro), e uomini di “cose” e non solo di “parole” come Vladimir I. Lenin e Bertolt Brecht manifestavano interesse se non invidioso stupore per la sua impresa (Diventare Pirandello, p. 396). Con prevedibile dispiacere di Pirandello, lo stesso Verga aveva scritto: “vivaddio… ci sono degli uomini che hanno del ginger come D’Annunzio” e “Viva D’Annunzio, e chi sta con lui” (a Dina di Sordevolo, 4 ottobre 1919 e 15 maggio 1920).

Insomma, il dualismo di “parole” e “cose” pare non tenere, in realtà, per nessuno degli attori in gioco, senza contare il fatto che D’Annunzio, all’inizio degli anni ’80 del secolo precedente, muoveva solo i suoi primi passi d’artista, sicché contrapporlo a Verga nel 1920 aveva in partenza qualcosa di fittizio.

 

D’altra parte, oggi si tende a convenire che Pirandello aggiunse l’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia come appendice alla storia bizzarra di Mattia Pascal, non per difendere la verosimiglianza della vicenda narrata nel romanzo, ma all’opposto per dire una volta per tutte che l’assurdo s’annida nella vita ordinaria: la finzionalità, in un certo senso, è nella vita stessa, e questa a differenza dell’arte non deve preoccuparsi d’apparire verosimile (“Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili”).

Aderire ai fatti, come d’altra parte aveva auspicato Verga, era già garanzia d’inventiva, dal punto di vista di Pirandello. In conclusione dell’Avvertenza, infatti, l’Agrigentino menzionò due volte il “dato di fatto” in cui consisteva un singolare episodio di cronaca di cui aveva scritto il Corriere della sera un anno prima, il 27 marzo 1920. Quel “dato di fatto” riportato dal quotidiano sembrava tradurre in realtà la vicenda del finto suicidio e della strana ‘resurrezione’ di Mattia Pascal, come se l’inverosimiglianza, alla fine dei conti, fosse nella vita più che nel romanzo.

 

Che cos’è, però, un “dato di fatto”? Siamo sicuro di poter dire che cosa esso sia, siamo sicuri di poterne individuare, a tutti gli effetti, l’identità?

A questa domanda, Verga aveva dato una risposta per certi versi sorprendente già nella Prefazione – stesa sottoforma di lettera all’amico Salvatore Farina – alla novella verista L’amante di Gramigna, contenuta nella raccolta Vita dei campi (1880). Il “documento umano”, il “fatto nudo e schietto”, il “semplice fatto umano” erano nella Prefazione l’oggetto della moderna analisi scientifica a cui si doveva attenere la novella verista. Tuttavia, e con un inaspettato scarto rispetto a questa immediata identità del fatto con sé stesso, Verga prefigurava lo sviluppo e il perfezionamento dello studio delle passioni umane fino al punto in cui l’immaginazione e i fatti non sarebbero più stati distinguibili gli uni dagli altri. Per Verga, questo non significava che il dato di fatto dovesse prendere il posto del dato immaginario, ma che il fatto stesso si facesse, per così dire, diverso da sé: “La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi”. È solo a questo punto “che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile”, e che “l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé”.

 

Sembra proprio che la condizione del precetto verista secondo il quale l’opera deve farsi da sé, è che i fatti siano internamenti altri, diversi, disallineati rispetto a una propria, presunta, inequivocabile identità. Con le parole di Pirandello successive di quarant’anni: “le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere”. Faits divers, d’altra parte, era nel giornalismo francese ottocentesco il titolo delle rubriche che riportavano il verificarsi d’un evento eccezionale, per certi versi romanzesco: un incidente, un omicidio fuori dall’ordinario eppure reale, proprio come il fatto dell’articolo del Corriere ricordato da Pirandello in chiusura dell’Avvertenza.

I fatti, come scriveva Verga nella Prefazione ai Malavoglia a proposito della nozione di “progresso”, sono soggetti a un’ottica mutevole, hanno a che fare con la doxa, con l’opinione, più che con l’ousia. Visto da lontano (ovvero con distacco) il progresso fornisce infatti l’immagine d’una “fiumana” che progredisce inesorabilmente. Visto invece da vicino, il progresso restituisce per immedesimazione i volti di chi da quella marea è travolto e sconfitto: i “deboli”, i “fiacchi”, i “vinti”, ma anche i vincitori di oggi “che saranno sorpassati domani”.

 

Ecco, forse l’effetto Verga maggiormente duraturo è da ricercare proprio qui, in questo tipo di considerazioni, ovvero in un pensiero che sappia andare oltre i dualismi più sclerotizzati, cogliendone il lato contingente, di effetti e non di essenze.

Pensiamo, ad esempio, all’apparente dualismo tra vincitori e vinti in una società caratterizzata da un rinnovato darwinismo sociale, come quella in cui viviamo oggi. Soffermiamoci anche, però, sul piano letterario, al dualismo di coppie d’autori spesso contrapposti in maniera semplicistica gli uni agli altri: Verga e Pirandello, come abbiamo visto, e perché non Ariosto e Tasso, Manzoni e Monti, Montale e Ungaretti, Pasolini e Calvino?

L’elenco, come sappiamo, potrebbe continuare, sia nel passato sia nel presente, con danno per alcuni manuali, ma non per l’analisi dei faits divers, soprattutto quando si tratta di fatti letterari suscettibili d’inaspettati e sorprendenti accostamenti.

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