di Luca Lenzini

 

Il clima di pulizia e rigore intellettuale che sin dagli esordi contraddistingue la scrittura di Alessandro Broggi approda con Noi a esiti tanto coerenti con le precedenti prove, da Nuovo paesaggio italiano (Arcipelago, 2009) a Coffee-table book (Transeuropa, 2011), quanto originali e ricchi di sollecitazioni che travalicano con elegante sprezzatura antiche categorie e generi consueti (poesia, prosa, narrativa, lirica…). Va però tenuto ben presente, in prima battuta, che non è la messa in stallo di questi ultimi a colpire il lettore di Noi (non sono certo mancate, in materia, devianze sovversive e contestazioni programmatiche di ogni sorta, fin dagli albori del Moderno): qui a imporsi è piuttosto l’offrirsi del testo, sul piano fattuale e non dimostrativo, come luogo esplicito di un’operazione insieme postuma e ulteriore rispetto alle strategie novecentesche (anche postmoderne) che costituiscono e declinano, esasperandolo, il paradigma della soggettività. Una esplorazione condotta, si direbbe, con la pazienza e la lucidità di un giocatore di scacchi che muove ordinatamente le proprie pedine in rapporto alle mosse di un avversario nascosto e che forse non è che un altro versante della sua stessa strategia in progress ma lungimirante, attenta a indagare i meccanismi di formazione del senso. Non è insomma in questione la critica di una tradizione quanto una ricerca cognitiva a suo modo radicale, e per questo il susseguirsi dei frammenti rammenta da vicino, per stare a un caso massimo e inimitabile, le movenze del pensiero di un Wittgenstein .
Ma di cosa “parla” Noi? L’impianto dell’insieme si basa su un consolidato modello diegetico, quello del viaggio; ed in effetti uno degli elementi portanti del testo è dato dalle descrizioni di ambienti naturali, anzi la natura si prende in Noi una parte di primissimo piano, non sfondo inerte ma agente attivo e quasi dilagante: da una parte la pagina è fittamente popolata di animali – orsi, procioni, struzzi, poiane, ghiandaie, tucani, oranghi, corvi, pipistrelli, falene, linci -, dall’altra è il mondo vegetale e materiale – torbiere, marcite, fiumi, alberete, soprattutto boschi e foreste – a stabilire forme e sbarramenti del paesaggio arcaico in cui avanzano «come sonnambuli» (p. 41), tra inondazioni e incendi, apparizioni e sparizioni, i personaggi nel loro «viaggio ai bordi della civiltà» (p. 88). La dimensione del tempo sembra così dilatarsi in cadenze da antropocene, evocando una potenza ctonia nella cui aura hanno luogo sacrifici cruenti (uno dei viaggiatori è ucciso da un orso) e catastrofi, eventi impercettibili o inquietanti; in gioco è la sopravvivenza, e come nel Tarkovskij di Stalker il viaggio assume uno spessore semantico debordante, che si carica sia di significazioni sia di rimozioni, di cui la natura è portatrice ed emblema.
La “zona” di Noi non è perciò un puro simulacro simbolico, statico e privo di quinte, oppure di esclusiva pertinenza della Specie. Va visto, invece, quel territorio in cui pavoni attraversano la foschia (p. 58) in silenzio e l’io si smarrisce senza il comfort di identità preconfezionate, in relazione a ciò che nel testo non c’è, la Società, ed a quel che nel paesaggio si sottrae alla rappresentazione, che potremmo anche chiamare, in generale e per intendersi, il fantasma della Storia. Innominati e come soggetti a interdetto, questi elementi inflessibilmente esterni al discorso hanno in Noi un peso specifico che, paradossalmente, si riverbera sul linguaggio, l’altro polo in evidenza del tessuto testuale, con un moto dialettico di astratto e concreto che appartiene ai fondamenti del libro. Qui la riflessione del testo sul testo, sul suo stesso farsi, si fa struttura o meglio morfologia, macchina di sé: in una specie di ermeneutica ininterrotta si accumulano lungo tutta l’estensione di Noi domande, previsioni, ipotesi, scenari mentali, «panoplie di schemi d’azione» (De Certeau ) di cui la “persona plurale” che prende la parola sembra il deposito o magazzino di stoccaggio. Momento collettivo e immaginativo, parola e gesto tendono a coincidere nella proiezione della prassi: «Ogni azione può essere articolata a piacere e nuovi modi di azione sono sempre disponibili.», «Raccogliamo informazioni sulla qualità dell’ambiente per ottimizzare i nostri processi decisionali, riconoscendo l’impatto che conquiste e fallimenti hanno sui nostri interessi e riorganizzando di rimando la nostra prospettiva» (p. 65), «Percepiremmo ogni mattina la giornata che si avvierebbe come un infinito campo di possibilità e agiremmo in modo da aumentarne il numero, non confermeremmo semplicemente il nostro mondo» (p. 89). Si noterà da una parte l’influsso dei gerghi aziendal-epocali (ottimizzare, decisionale) sul lessico del diario fenomenologico che, come in un esercizio “di scuola”, apparecchia il set dell’azione; dall’altra, il tratto dominante della sceneggiatura per cui il futuro composto e il condizionale, sparigliando la grammatica della narrazione al presente o al passato, revocano continuamente la consecutio temporum codificata.
Il «romanzo» evocato all’inizio (p. 11) non si dà quindi se non allo stato predittivo, in potenza, posto e negato sur place, ma proprio per questo il lettore si muove su una soglia disseminata di possibili ed è lui stesso in situazione, chiamato in causa nell’atto performativo della locuzione, nel costante lavoro sul tempo della partitura. Ed in questo senso l’ars combinatoria che presiede all’immaginario esorbita felicemente, a mio avviso, come accade con le opere riuscite, le premesse dichiarate dall’autore nella Nota in chiusa al libro, in cui si afferma: «Il dettato di Noi è quasi interamente costruito come una sottile e fitta trama di microprelievi, effettuati da testi esistenti di diversa provenienza […] Chi scrive è convinto, con Borges, che “la lingua è un sistema di citazioni”, che non esista un linguaggio privato e che l’ego, in definitiva, non sia che un epifenomeno, se non un’illusione» (p. 109). Tutto vero e al tempo stesso insufficiente, e non solo per via del rigoglioso proliferare dell’invenzione verbale (l’affilata precisione lessicale, l’investimento nel dettaglio), in cui si scorge un residuo utopico che si oppone alla colonizzazione mediatica e tecnologica. Perché se la «cieca materia che siamo sempre stati» (p. 77) è in rischioso viaggio nei foschi territori del presente, oggi e per una volta ancora ragione e immaginazione sanno parlare, qui, di noi, «appollaiati nelle nostre nicchie come allegorie» (p. 14), epifenomeni in cammino e in ascolto dei nostri futuri antenati.

 

1 thought on “Noi

  1. E questi noi, “«appollaiati nelle nostre nicchie come allegorie»[…], epifenomeni in cammino e in ascolto dei nostri futuri antenati”, così attenti al « rigoglioso proliferare dell’invenzione verbale (l’affilata precisione lessicale, l’investimento nel dettaglio), in cui si scorge un residuo utopico che si oppone alla colonizzazione mediatica e tecnologica», cosa hanno a che fare col Noi Politico che manca in questi tempi tornati bui e che veleggiano verso nuove “nazionalizzazioni delle masse” (Mosse) e spettri di guerre atomiche?
    A me paiono tanto somiglianti agli io ermetizzanti d’epoca fascista indifferenti alla «Società» e alla «Storia» (ridotta a «fantasma»). Ma – si sa – io sono vecchio e, per di più, rimasto inchiodato al vecchio Fortini.

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