di Sergio Benvenuto
1.
Nel 2008, proprio mentre stavo lavorando a un saggio su una scrittrice medievale, sono stato attratto dalla pubblicità televisiva dell’amaro Fernet-Branca. Se non altro perché da sempre ho un debole per il più amaro degli amari, il fernet. E poi spesso guardo le pubblicità, in TV e a cinema, con maggiore attenzione che il resto – spesso vi trovo ben più inconscio. Talvolta, quando in un cinema la pubblicità finisce e comincia il film, me ne rammarico.
Da questo spot, si capisce che il bevitore tipico di fernet è maschio e non giovanissimo. L’ambientazione del video è medievale. Il protagonista è un cavaliere serio con un nobile pizzetto, è dedito alla falconeria e riceve l’investitura da un anziano sovrano. Getta in alto, verso il cielo, una spada che si trasforma in un’aquila (simbolo del marchio) che vola libera e sola sullo sfondo di un paesaggio roccioso, nordico, aquila che egli poi prende gentilmente sul suo braccio. D’un tratto il cavaliere si ritrova uomo moderno, mentre il fondo è tagliato rapidamente da una donna dai tratti raffinati.
Non posso dire che questa pubblicità mi fosse piaciuta particolarmente, ma comunque mi turbava. Perché indubbiamente descriveva qualcosa di me: in quanto aficionado del Fernet Branca, mi “identificava”.
Penso a quanto sia inadeguata la teoria che va per la maggiore nel “popolo di sinistra” e tra l’intellighenzia: che la pubblicità è una macchina scientificamente cognitiva che ci condiziona come i cani di Pavlov, che ci istilla falsi bisogni e ci fa consumare i prodotti che l’Impero (di Negri e Hardt) vuole venderci. Questa teoria dominante è un corollario spicciolo della cosiddetta visione cospiratoria della Storia: che le masse sono manipolate astutamente da una manciata di potenti aziende multinazionali.
Ora, è da escludere che quella pubblicità del fernet mi abbia condizionato: consumo quell’amaro da ben prima che quell’azienda di Milano lo reclamizzasse. Che cosa anzi ha convinto questa ditta a investire tanto danaro in una campagna pubblicitaria di quella portata? Una flessione delle vendite? Il sorgere di un pericoloso amaro concorrente? Ovvero, quel filmino pare non rivolgersi specificamente a me, ma ad altri Sergio Benvenuto che non sanno ancora quanto quel digestivo dal sapore medicinale – stavo per scrivere: medievale – sia di loro gusto, e quanto esprima il gusto che hanno di se stessi.
Ma quel che mi scuote è che quella pubblicità mi ha mostrato qualcosa di me che solo oscuramente sapevo: “se a te piace il fernet, allora sei così”. Ovviamente i pubblicitari arruolati (magari anche psicoanalisti?) dall’azienda produttrice avranno fatto varie ricerche sul tipo di consumatore dell’amaro, e in conclusione… hanno trovato me!
In effetti, ho avuto sempre una forte attrazione per il Medio Evo. Preferisco i paesaggi nordici e molto meno quelli solari e mediterranei. L’ideale del cavaliere – compreso il suo risvolto parodico, Don Chisciotte – ha radici antiche nel mio cuore. Non pratico l’equitazione e nemmeno la falconeria, ma pratico la filosofia: tutte attività alquanto aristocratiche, per pochi che non temono di restare isolati andando contro-corrente. La pubblicità dice “se ti piace quest’amaro, anche se non sei ricco certo appartieni a una nobiltà spirituale”. L’aquila è un’immagine perspicua di questa personalità: vola alto in zone impervie, sembra godere della propria scorbutica solitudine. Come non riconoscervi l’infatuazione che ho di me? Le insegne con cui consolo il mio narcisismo? Anche quando sono stato tentato di impegnarmi in un gruppo – partito, scuola, istituzione o movimento di massa – ho finito con il tagliare la corda. Più di una volta mi sono battuto con i mulini a vento – Don Chisciotte è stato tra i libri preferiti della mia infanzia – ma alla fine sono rimasto quasi sempre solo con Sancho Panza. C’è dell’arcaismo in me, parte inscindibile di un mio basic assumption di anti-gregarietà. (Ma arcaismo non significa rifiuto altezzoso della modernità – mi sento a mio agio tra internet e cellulari.) Avere un’anima medievalizzante significa avere gusto per cose non consolatorie ma scabre, non grossolane ma estreme, non dolciastre ma ruvide. Significa essere spigolosi, non guardare dove si mettono i piedi, e non lasciarsi intimidire dai Grandi. Perciò si ama quest’amarissimo: in esso si trova veramente una dolcezza. Si può trovare il dolce sublime solo in un’amarezza eccessiva.
A quando una prima vera seria filosofia del gusto? Intendo: del gusto alimentare. Si è fatta teoria e filosofia delle arti, della letteratura, della musica, del cinema, persino della moda vestimentaria… ma si è mai tentata una filosofia del gusto come uno dei cinque sensi?
Chi avrebbe mai immaginato che le mie papille gustative e dispepsie digestive avessero una stretta relazione con il mio specifico essere-nel-mondo, con la gamma dei miei tropismi spirituali? Ma, in fondo, sarebbe stato sorprendente il contrario: dopo tutto ognuno di noi esprime quello che è – o sta diventando – attraverso tutto quello che fa e preferisce, attraverso le scelte politiche e scientifiche, gastronomiche e letterarie, filosofiche ed erotiche, religiose e sportive. Esprimo il mio essere-nel-mondo, oggi, sia leggendo Peter Sloterdijk piuttosto che Tony Negri, sia bevendo fernet piuttosto che limoncello. Se lo spot televisivo della F-B facesse vedere un play boy abbronzato che prende il sole sulla spiaggia di Riccione ascoltando musica funk e guardando volteggiare una biondona patinata, mi direi “ma io non ho nulla a che fare con costui!” Insomma, le campagne pubblicitarie sono davvero scienza: ci gettano in faccia un’immagine oggettiva della nostra soggettività di cui altrimenti non saremmo consapevoli. La pubblicità mi fornisce una conoscenza obiettiva dei miei desideri e ideali – perciò serve a chi vende. Come dice Lauren Langman, viviamo in un’epoca di colonizzazione del desiderio. Ma appunto colonizzando il desiderio dei soggetti la pubblicità ci conosce – così come gli antropologi di un tempo conoscevano le società selvagge seguendo la scia delle truppe coloniali. E quindi l’advertizing ci identifica proponendoci non solo gli oggetti del nostro desiderio, ma anche quel che noi desideriamo essere o apparire, appar-essere.
I commercials, dicendomi che cosa desidero, insomma identificandomi, mi smascherano. Ma nella misura in cui propongono il mio modo di godere come modello per me stesso e per altri, mi banalizzano: io sono questo. E questa è proprio la forza della scienza: dicendomi non solo ciò che desidero ma anche ciò che desidero desiderare, mi categorizza, mi classifica. Per questa ragione trovo che quasi tutte le critiche di tipo filosofico o morale al mondo pubblicitario in quanto parte integrante della forma di vita mercantile, siano in fondo armi spuntate, lagne: di fatto, la pubblicità si mostra più forte delle critiche che psicoanalisti, francofortesi, baudrillardiani, anti-global, anti-neoliberali, post-moderni e così via, non le risparmiano. Così come la scienza si rivela sempre più forte delle critiche umaniste o fenomenologiche che pretendono sfatarla. Se un bravo pubblicitario vuole trovare che cosa un post-moderno o uno psicoanalista francofortese vuol bere o comprare, lo troverà; perché la scienza è un’attività concepita in modo tale che alla fine trova sempre qualcosa. È una macchina cognitiva che funziona per trovare. Non troverà mai l’essenza, la felicità, la Verità, l’Essere – ma qualcosa, si può star sicuri, troverà. La pubblicità – oggi tecnologia scientifica – prima o dopo mi scoverà. E dovrò ammettere, a denti stretti, che mi ha scovato.
A questa forza – della scienza e del mercato – posso opporre qualcosa? Anzi, devo opporre qualcosa? Davvero la missione dell’intellettuale è opporsi – o, come dicono sempre i francesi, résister – a ciò che è? Vale a dire, resistere a ciò che desidera essere? In realtà la forza della pubblicità – ovvero della scienza e del mercato – è solo l’altra faccia della mia debolezza. Quella che mi spinge spesso, la sera, a sorseggiare un bicchierino di fernet, a godere di quella dolcezza che spero di trovare, un giorno, in ciò che mi è più lontano – nel Medioevo, nei mari freddi del circolo polare artico, nelle isole Lofoten, nel cielo islandese come casa degli uccelli.
La psicoanalisi, invece, non è affatto una scienza: difatti non ci conosce, non ci identifica – ci permette di dis-conoscerci, ci dis-identifica. È il contrario della forte pubblicità. È debole. Proprio come me.
2.
Il giorno prima la mia compagna e io abbiamo scelto di vedere, dal menù Sky, un film di Jacques Audiard, Un sapore di ruggine e ossa. È la storia di una giovane donna che perde le gambe in uno show di orche marine, e che quindi fa ricorso a delle protesi metalliche per poter camminare.
Il giorno dopo ricevo su Facebook una pubblicità che raccomanda un gel speciale per le protesi artificiali delle gambe… Se ho ricevuto questa pubblicità (non ho mai perso le gambe né le ha perse nessuno nella mia famiglia) è solo perché il giorno prima ho visto quel film. Insomma, tutti i media sono interconnessi: quel che vedo su Sky viene mandato per informazione su Facebook o su non so quale dannato sistema, per cui ESSA (la macchina) sa cosa può interessarmi.
Se qualcuno fosse interessato a sapere chi sono io – gusti, cultura, status sociale, fisime individuali, debolezze, ecc. – e potesse avere accesso a ESSA, ne uscirebbe fuori il mio ritratto umano. ESSA non mi conosce, eppure sa tutto di me.
Qualche settimana fa, ho utilizzato la voice assistant SIRI della Apple, chiedendole – se posso usare un dativo femminile – di farmi sentire della musica. Richiesta del tutto vaga: non ho precisato quale tipo di musica. Ebbene, Siri mi ha fatto sentire due composizioni che ho trovato bellissime! Come ha fatto a capire che avrei gradito quel tipo di musica e non un’altra? Come fa questa macchina a conoscermi così bene?
Si vede che SIRI è connessa al mio computer, e siccome ogni tanto seleziono della musica attraverso Youtube, la Grande Sorella dolce e cortese ha registrato le mie scelte e quindi ha classificato i miei gusti. Del resto è quel che accade con il mio ebook quando consulto Amazon Libri: mi si offrono libri che di fatto, quasi sempre, hanno a che fare con i miei interessi. ESSA – Matrix della Mente – conosce il mio ventaglio d’interessi.
In questo, Matrix della Mente non si comporta così diversamente dal libraio della mia infanzia, Maone, che da decenni teneva una libreria colta nel quartiere di Napoli dove vivevo, il Vomero. Libreria piccola ma molto frequentata, un piccolo salotto povero. Maone era a sua volta un colto bibliofilo. Ero bambino, e la nostra domestica, donna simpatica e ignorante, voleva farmi un regalo e sapeva che uno dei regali preferiti era per me un libro; e che amavo la storia. La domestica andava da Maone e chiedeva per un bambino “un romanzo a sfondo storico”, Maone capiva che ero io, e le proponeva sempre il titolo giusto… Anche lui faceva ragionamenti simili a quelli di SIRI, dato che conosceva le mie preferenze. Oggi non c’è più Maone, c’è Matrix. Devo allora, come tanti filosofi catastrofisti, gridare alla fine della libertà, a un mondo alienato e dominato dalla tecnologia, inveire contro il regime neoliberale che mi seduce indovinando i miei desideri?… Non apprezzo questo tipo di reazioni.
Queste reazioni “critiche” partono dall’assunto che le pubblicità – come quella di Fernet Branca – vogliano imporre al consumatore una certa “ideologia” (nel senso marxiano di cattiva coscienza). La verità invece – e posso dirla perché in gioventù io stesso ho lavorato nel campo pubblicitario, a Parigi e a Milano, so quindi come si fa marketing – è che un’azienda vuole vendere un prodotto, non un’ideologia. Dopo tutto, per chi deve vendere va bene qualsiasi ideologia: l’importante è capirla per vendere in modo efficace. Se credo in Padre Pio, mi venderà immagini di padre Pio. Se ammiro Che Guevara, mi venderà immagini di Che Guevara. Se la mia ideologia è anti-pubblicitaria, mi venderà una pubblicità anti-pubblicitaria (ne ho viste!).
Si dirà che c’è un’ideologia implicita nel vendere qualcosa, anche se l’ideologia esplicita può essere anti-capitalista e anti-mercantile. La pubblicità, proprio perché mira a vendere un prodotto, trasforma automaticamente un prodotto rivoluzionario in prodotto “ideologico” mercantile. Un’osservazione solo superficialmente profonda. Perché vendere una merce è solo una variante del “vendere” in generale, ovvero del persuadere ad accettare qualche cosa. In questo senso vendiamo sempre, tutti. I missionari vendevano cristianesimo ai selvaggi, i marxisti hanno venduto marxismo agli operai, i pessimisti hanno venduto pessimismo alla gente, ecc. ecc. Non a caso in America si dice “I don’t buy this philosophy” volendo dire che non ci si lascia convincere da essa. Si vende anche filosofia, di cui la vendita commerciale dei libri di filosofia è solo una parte. Al liceo ho avuto due bravissimi professori di filosofia: oggi so che mi vendevano la loro concezione del mondo.
Gli esperti di marketing studiano le ideologie prevalenti nella massa proprio per rendere il prodotto che vogliono vendere consonante con l’ideologia della massa. Si parla di consonanza cognitiva (Leon Festinger), io parlerei di consonanza narrativa. Ciascuno di noi ha la propria narrativa, facile da riconoscere. Non c’è bisogna di essere ESSA. Dopo aver parlato qualche minuto con qualcuno, di solito so – come SIRI – quali sono le sue preferenze politiche, estetiche, persino erotiche… Di solito, tutti noi siamo terribilmente trasparenti. In un certo senso, tutti siamo SIRI uno per l’altro, se io o l’altro ha abbastanza perspicacia.
Devo confessarlo: è relativamente raro che un amico o un’amica mi dica cose sorprendenti, che non mi sarei mai aspettato uscissero dalla sua bocca! Quando questo accade, è perché una certa mutazione si sta operando in quella persona. Dicono cose inaspettate solo persone profondamente in crisi.
In fondo, nei nostri rapporti sociali tutti siamo pubblicitari. È vero che di solito non vogliamo vendere un prodotto preciso agli altri, ma, dopo tutto, ci comportiamo da persone accettabili perché vogliamo “vendere” agli altri una certa immagine di noi stessi. Anche quelli che si comportano con gli altri in modo provocatorio, scontroso, aggressivo, iper-critico, vogliono vendere a loro volta un’immagine di se stessi: l’immagine di quelli che non vogliono vendere agli altri alcuna immagine. Non ce ne rendiamo conto, ma a ogni istante sfruttiamo “l’ideologia” – ovvero, il sistema narrativo – degli altri per renderci accettabili; o inaccettabili, se è quello a cui miriamo. Se poi vogliamo “vendere” anche qualcosa – un nostro libro, le nostre idee in un certo campo, le nostre infatuazioni politiche… – ragione in più per aggiustarci all’altrui narrazione.
Insomma, i pubblicitari si servono delle narrazioni della gente – della visione del mondo e della vita – per vendere loro un prodotto. “L’ideologia” o narrazione è uno strumento, non un fine.
Quando negli anni attorno al 1968 andavano alla grande le narrazioni radicali, terzomondiste, marxiste, Hollywood sfornò una lunga serie di film che cantavano questa narrazione. Alcuni sono rimasti nella storia del cinema, come Easy rider, Little Big Man, In the Heat of the Night, Blue Soldier. Si aveva l’impressione che i produttori di Hollywood fossero degli agit prop del Polibüro sovietico. Poi la moda passò, e Hollywood smise di farli.
3.
Perché allora tanti intellettuali di sinistra si dicono disgustati, turbati dai commercials quando guardano la televisione, ad esempio? Perché evidentemente la visione della pubblicità è una delle rare occasioni che essi hanno di entrare in contatto col mondo mentale di gran parte dei loro concittadini. Si dicono allora: “che orribile pubblicità!” per non dire “che orribili gusti hanno i miei concittadini!” Ma, se lo dicessero, sarebbero “non democratici”. Optano allora per una teoria cospiratoria: sarebbero i pubblicitari ad ammannire alla gente una certa visione del mondo. In realtà i pubblicitari sfruttano solo la visione del mondo della gente per vendere loro qualcosa. Anche se, sfruttando le narrazioni del loro target, le confermano e le consolidano – questo è il circolo. Ma chiunque di noi condivida la narrazione di un altro, la rafforza e la consolida. Le narrazioni si rafforzano facendo fascio.
Oggi tutti siamo “liberi” di scegliere i programmi TV che vogliamo, dato che l’offerta di programmi è enorme. Una persona colta in Italia guarderà Rai Storia, o La7, qualcosa di Rai 3 o Rai 5. Questa persona, soprattutto se di sinistra, non guarderà mai le reti Mediaset o altri canali di televendita di tappeti o di banale informazione locale. Così come leggerà certi quotidiani (La Repubblica, il Corriere della Sera, Il foglio) e non altri, certi libri e non altri, andrà a vedere certi film e non altri (eviterà i cinepanettoni, per esempio). Insomma, ciascuno di noi vive in un compartimento stagno culturale. Allora la pubblicità, per molti più o meno snob, è una sorta di feritoia attraverso cui essi percepiscono il cosmo estetico, etico-politico, valoriale in cui vive la maggioranza dei loro concittadini, e di cui raramente si accorgono.
Non ho bisogno di andare in Papuasia o nel Niger per incontrare donne e uomini esotici, del tutto altri rispetto a me: basta che scambio qualche parola con certi vicini di casa. È vero che parliamo la stessa lingua e abitiamo nello stesso quartiere, ma di fatto viviamo in mondi abissalmente separati. Per me lui o lei è l’Alieno, e io lo sono per lei o lui. Il quartiere dove vivo, Trastevere, è strapieno di bar e ristoranti: ebbene, verificherò che quando andiamo a cena fuori, non andiamo mai negli stessi ristoranti! Le persone celebri per lei o lui sono persone ignote a me, e all’inverso lui o lei ignora del tutto persone e nomi che stanno in cima ai miei interessi. Non vediamo gli stessi film, non gli stessi programmi televisivi, non abbiamo affatto la stessa percezione di come stia andando oggi il mondo, non ascoltiamo la stessa musica… Magari il mio vicino è terrapiattista, non sa nemmeno che cosa sia la meccanica quantistica. Nulla in comune.
Abbiamo però qualcosa in comune: entrambi, in quanto viventi, siamo dei consumatori. I viventi devono consumare anche solo per sopravvivere. Ma se un’azienda ha da venderci qualcosa, sa bene che non può venderci le stesse cose e soprattutto, se vuol venderci le stesse cose, non può farlo usando la stessa retorica.
Ad esempio, sia l’Alieno che io potremmo aver bisogno, mettiamo, di un materasso. Ma i pubblicitari sanno che, se vogliono vendere lo stesso materasso a un Sergio-Benvenuto-tipo o a un Alieno-tipo, non dovranno far leva sulle stesse ragioni. È probabile che facciano due pubblicità diverse dello stesso materasso, uno per il Sergio-Benvenuto-tipo in certi media, l’altro per l’Alieno-tipo in altri media. Sanno che convinceranno me a comprarlo se faranno leva sulle qualità funzionali od ortopediche del materasso, mentre convinceranno l’Alieno presentandolo come status-symbol, magari come adiuvante di prodezze erotiche.
Le persone colte e di sinistra pensano di essere immuni dalla persuasione pubblicitaria, ma si sbagliano. Anch’esse vengono persuase da una certa pubblicità, soprattutto se questa si presenta come non persuasiva. L’intellettuale aborrisce ammettere di essere persuaso, ma ciò non gli impedisce di essere (inconsapevolmente) persuaso. Alcune pubblicità si rivolgono esplicitamente a un pubblico che è o si crede sofisticato, invulnerabile all’advertizing. Per esempio, per anni le pubblicità del Campari mettevano in scena situazioni perverse, peccaminose, sanguinolente, che evocavano romanzi di Georges Bataille o Histoire d’O. Si trattava ovviamente di spot suggeriti da lunghe e complesse indagini di mercato sul bevitore-tipo di Campari. Queste avranno concluso a un certo bovarismo di chi gusta il Campari.
Quindi, l’intellettuale-tipo di sinistra crede che il Kitsch di massa sia qualcosa che va dall’alto (i persuasori occulti) verso il basso (la massa manipolata e condizionata), ma è un’immagine semplicistica. La pubblicità ti offre sempre quel che tu desideri, e “tu” va dalla contadina della Calabria fino a Giorgio Agamben. Sono quindi i famigerati persuasori a essere persuasi dal pubblico a cui devono vendere qualcosa, come del resto sono i persuasi a essere ancor più persuasi dai persuasori di quel che sono e vogliono … È una spirale in cui una certa cultura si consolida: il loop tra persuasori e persuasi crea un mondo omogeneo, nel quale è impossibile distinguere, alla fin fine, chi persuada chi.
Ma allora, c’è solo il Kitsch di massa? Accade qualcosa di nuovo nelle forme etiche ed estetiche di una società, quando a un certo punto il mondo dei consumatori si spezza, quando nuove creazioni separano in modo violento dei consumatori di prodotti estetici (quali sono i prodotti pubblicitari) in in e out. Allora avvengono le rivoluzioni. Ma gli storici dicono che anche nella pubblicità ci sono state delle rivoluzioni…
4.
Di solito la pubblicità fa appello a sentimenti e tropismi che non sono universali (nulla di umano è mai universale) ma largamente partecipati. Certi desideri e piaceri fondamentali sono comuni all’élite intellettuale come alla massa, anche se l’élite intellettuale tende pudicamente a non esplicitarli. E la pubblicità spesso fa appello a questi: il gusto di mangiare e bere bene, la felicità della coppia nel sesso e nel trantran quotidiano, la tenerezza che ci ispirano i bambini e gli animali domestici, l’emozione dataci da certi paesaggi naturali … E sono comuni a élite e massa anche desideri inconfessabili, eticamente discutibili, come la volontà di potenza, il voler sedurre tanti uomini o tante donne, il prestigio sociale, la voglia di correre in auto, la paura di invecchiare e il bisogno di far ricorso a trucchetti di ringiovanimento, la paura di ingrassare, ecc.
Come accade allora che, pur facendo appello a questi universalia, la pubblicità di solito è rigettata dall’élite colta? La differenza non è nei piaceri in sé che la pubblicità propone, ma nel modo di proporli e rappresentarli. Ovvero, nelle strategie estetiche. I contenuti sono gli stessi per tutti, cambiano le forme.
Per esempio, i critici della pubblicità denunciano l’atmosfera sempre ottimistica, rosea, felice dei commercials. Mai si mostra il dolore, la miseria, il brutto, lo scacco… E ne traggono la conclusione che la pubblicità ci rifila una visione del mondo edulcorata, provvidenziale, “maniacale” dicono gli psichiatri.
La verità è che, da che mondo è mondo, si sa che, anche in un mercatino del Medio Evo, se vuoi vendere qualcosa non devi mai mostrarti triste, accigliato. Anzi, il più possibile sorridente, lieto. È un dato elementare di psicologia commerciale.
Le arti della persuasione mercantile non sono un’invenzione del neoliberalismo, sono vecchie come il cucco.
Per esempio, spesso nelle commedie televisive si registrano risate (laugh track) che vengono trasmesse come sottofondo per punteggiare gag che il regista considera particolarmente riuscite. Tutti sanno che queste risate non sono “vere”, e la maggior parte delle persone, intervistate su questo punto, si dicono disgustate da questo artificio. Eppure, quando sperimentalmente si fa vedere una commedia senza risate registrate a un pubblico, e la stessa commedia con risate registrate a un pubblico molto simile al primo, sempre il pubblico, interrogato dopo la visione, troverà la versione con risate molto più divertente, pimpante, arguta, di quella senza[1]. Spesso le stesse persone che avevano espresso il loro disappunto di principio per le risate registrate, poi de facto trovavano più briosa la commedia con le risate. Insomma, la persuasione agisce inconsciamente, ovvero aggira le nostre preclusioni consce.
Ma questo sapere sull’inconscio non è di oggi. Nei vecchi teatri, da secoli, c’era la claque, ovvero una parte degli spettatori veniva pagata per applaudire, ridere, e in genere reagire favorevolmente, a uno spettacolo. Chi faceva teatro (oggi cinema o televisione) sapeva e sa bene che le reazioni emotive sono contagiose: applauso crea applauso, lacrime producono lacrime, sbadigli generano sbadigli… In fondo, il pubblico è stato sempre “neoliberale”.
Note
[1] Cfr. Robert C. Cialdini e Gabriele Noferi, Per-suasione, Giunti, 2017. Brian McTavish, “Laugh track is Serious Business, But Not Everyone Gives the Invention a Standing Ovation”. The Baltimore Sun, July 3, 2003.. Retrieved January 6, 2012.
[Immagine: Manifesto storico della pubblicità del Fernet Branca].
Grazie a Sergio Benvenuto per l’acuta analisi sociologica. Aggiungo qualche breve considerazione a margine. Del fernèt preferisco la versione branca-menta da bere ghiacciato (possibilmente), infatti lo spot che ricordo nei miei anni infantili, oltre all’aquila (forse più alpina che medievale) simbolo della ditta fondata nel 1845, è il bicchiere ricavato, scolpendolo, da un blocchetto di ghiaccio… quella sì un’immagine da lapicida medievale.
Sulla psicologia consumistica pervasiva siamo d’accordo. Pensiamo al marchio Emergency e al target ideologico e pacifista cui si rivolge.
A volte l’eccesso di pubblicità può produrre indifferenza, uno stato catatonico dove tutto può scivolarti addosso… ma dei meccanismi subliminali, appunto, non si può dire più di tanto.
La retorica dell’antiretorica può produrre mostri come il male (sc. sonno della ragione) che vuole contrastare (vedi il fenomeno Orsini, definito addirittura vittima di un nuovo “maccartismo”).
Sulla profilazione di noi tutti consumatori potenziali, posso aggiungere il caso ancora più inquietante — se non è stata autosuggestione — di una conversazione familiare su dove smaltire l’olio da cucina usato, e poco dopo vedermi proporre tra i commercials dello smartphone una inserzione mirata su quella esigenza, con tanto di immagini.
Siamo davvero osservati e ascoltati da un nuovo HAL, l’elaboratore di 2001: Odissea nello spazio, film profetico e uscito nel 1968.