di Franco Arminio
[Oggi esce il mio libro di poesia Stato in luogo (Transeuropa). Propongo questa anticipazione ai lettori di Le parole e le cose]
il pittore di sassi
Settembre ci ritrova in un piattino
d’acque scure
con la prosa povera delle acacie
il grillo di carbone
le anime rafferme o addormentate.
in questi giorni di cui nessuno è lieto
l’aria è disadorna
e noi siamo estraniati da ogni ardore.
né docile, né servo all’agonia
il pittore di sassi ha un filo di fiato
per tenere a bada la morte,
nient’altro.
la tazza dei balcani è in frantumi
e lui stira uno ad uno i suoi respiri
la sua ultima biancheria.
la tavola del mondo è inospitale.
un dio barbaro getta i sassi
dal cavalcavia.
*
Mio nonno fermo nel letto,
sotto di lui
la busta gialla dell’urina.
mia nonna in piedi che piangeva.
noi di corsa a vedere
la partita avellino-fiorentina.
*
da emigranti
dal 1892 al 1954
12 milioni di italiani
partirono per l’america.
altri tempi.
avevano un cuore da cavallo.
Qui una volta c’era uno che viveva in campagna.
partì dal porto di napoli. c’era un bel cielo
in quel pomeriggio del quarantanove.
la città sembrava felice. ma lui davanti a tanta acqua
e tanto cielo cercava di intravedere i suoi monti,
la sua casa. mentre la nave si avviava lui ancora
guardava verso i monti, pensava alla mucca,
al porco e alle galline che aveva lasciato.
pensava a sua cugina michelina
che gli aveva fatto vedere un seno
proprio mentre lui preparava le valige.
Era lì da due anni. mentre da solo nella sua stanza
ballava il tango il suo braccio si trasformò
nell’ala di un angelo. era l’ottobre del quarantasette,
nella città argentina di matanza.
Fa il tassista a new york e s’informa
sulla nazionalità di chi sale.
rumeni, macedoni e albanesi
sono assai simili ai pastori del paese.
La china calda, la figlia del fruttivendolo
le patate coi peperoni, la briscola
i laghi di monticchio. questi sono gli ideali
di peppino montemarano, imbianchino
a bellinzona.
I grandi dolori di carletto, elettricista a Berna:
quando l’italia perse contro la polonia
nello stadio di stoccarda, quando morì suo nonno
punto da un calabrone, quando sua moglie
gli disse che si era fatta baciare
dal padrone della pizzeria.
Lavorava in una fabbrica di scarpe in veneto.
tornato al paese ebbe un grande momento
di felicità nella sua vita il giorno in cui l’elettricista
venne a montargli la nuova insegna:
gerardo tota, chirurgo della scarpa.
Si ritrovavano al paese ogni anno verso la fine di luglio.
nella loro vita erano cambiate tante cose,
ma non gli occhiali da sole,
che avevano comprato lo stesso giorno,
con lo stesso modello, in un negozio di salerno.
Renato capofitto mentre beveva un bitter
in un bar di nonantola si sentì scaricato
di ogni personalità, svuotato, esentato
dalla particolarità, dal pericolo di essere qualcuno.
*
la passeggiata bianca
la poesia è un mucchietto di neve
in un mondo col sale in mano.
mi sono svegliato presto, le sei del mattino. sentivo ancora nelle gambe i passi del giorno prima. sono uscito per vedere il paese adagiato nel suo cucchiaio di neve. con me due compagne: videocamera e macchina fotografica.
al paese vecchio a quest’ora non c’è nessuno. nevica. mi fermo a filmare il metro e mezzo di neve sul balcone di una casa abbandonata. sono abbandonate quasi tutte, ma questa ha un bel balcone lungo e la neve che c’è sopra sembra un treno su un binario morto.
cammino a fatica. ho lo stomaco in disordine e penso alla morte. forse questo pensiero non è una mia malattia, forse lo prendo da questo paese che il vento della morte lo prende dalle faglie aperte ai suoi fianchi.
passo davanti alla mia casa natale dove conto di tornare ad abitare. non la guardo, guardo il castello e vado avanti. la piazza è piena di cumuli bianchi, è un paesaggio provvisorio e prezioso. c’è una persona che sta spalando intorno a una macchina. inquadro la bellissima facciata della cattedrale, ma il motivo per cui sono sceso è più avanti, voglio filmare il loggiato del castello, con la neve che lì si è arrampicata per una decina di metri. non fa lo stesso effetto che faceva ieri sera.
scendo verso l’ultima piazza del paese. la neve che è caduta è intatta, non è passato nessuno e forse non sto passando neppure io. mi sento un fantasma, cammino con la morte in mano. ogni tanto metto una busta a terra e appoggio sopra la videocamera e mi metto a filmare. lo faccio più che altro per riposarmi. salgo verso l’antica piazza dove ci sono le case a cui è rimasta solo la facciata. gli alberi sono quasi tutti spezzati. e qui mi viene una pena acutissima. la stessa che mi era venuta ieri sera pensando alle tante volpi che ho incontrato prima della neve: dove saranno adesso, come se la passano? gli alberi e le volpi mi hanno dato una pena che le persone non riescono più a darmi. le persone si fermano prima, restano in una sorta di limbo dove si svolgono i nostri stanchi commerci col mondo. le emozioni vengono dalla morte, dal dio annidato nelle piante e negli animali.
mentre faccio questi pensieri mi trovo di fronte a due cani che abbaiano. non me la sento di affrontarli. torno indietro. faccio sempre più fatica a camminare, come se avessi il cuore di una mosca.
sono di nuovo nell’ultima piazza. tre passi e metto la videocamera a terra. accendo e parlo, faccio piccoli comizi solitari e mesti. sto cercando qualcuno a cui dare la colpa di tutto questo sgomento e mi viene in mente il politico più potente di questa provincia. forse questa neve non c’entra niente con lui, con le sue fatiche per stare sempre in un punto in cui dare alle persone la sensazione di poter fare qualcosa per loro.
sento nel mio corpo tutto il peso di una storia storta, guidata da uomini che forse non hanno mai guardato i rami di un albero, i tetti di una casa, uomini che hanno pensato alla vita come un imbroglio da fronteggiare con mille astuzie. il potere annerisce le anime di chi lo esercita, ma si sceglie quelle già grigie e fumose per fare prima.
forse stamattina questi pensieri indignati verso chi ha guidato questa terra sono un pretesto per distrarmi dalla morte che sento sistemata sulle clavicole. da lì mi becca lo sterno come un uccello cattivo. sono di nuovo in ginocchio in piazza carmine, davanti ai manifesti funebri quasi sepolti dalla neve. non si sente niente e nessuno. parlo davanti al muro, mi sento un condannato a morte che detta le sue ultime volontà.
basta un rumore di passi e l’umore si scuote. sono i passi del giovane parroco. pure lui cammina a fatica, ma immagino per il peso. mi affianca, facciamo assieme l’ultima salita che porta alla piazza sotto il castello. qui stanno liberando la strada. nel quadrivio ci sono alcune persone. mi fermo aspettando che passi una macchina per portarmi a casa.
arrivato al paese nuovo c’è un po’ di animazione. qui l’edicola è aperta, vado a prendere i giornali, ma ancora non mi sento salvo. arrivato a casa vado a distendermi sul letto. non penso più alla morte né al politico potente. sento che il mio corpo piano piano riprende fiducia nella giornata. scrivo, sento in lontananza il lato buono della vita.
[Immagine: Lead Pencil Studio (Annie Han, Daniel Mihalyo), Non Sign II (gm)].
proprio vero che si pubblica di tutto.(ma no,in sottofondo, la poetica del pistacchio ha una sua china epica.già)
Mi scuso, non posso articolare in questo momento un commento migliore. Non rimando perché so che poi rinuncerei.
Questi testi e questi altri sono medicine universali uniche e preziose (non nel loro genere), un antidoto agli antidoti alla vita (e alla morte) che somministra ogni giorno la nostra cosiddetta società. Società di nome e non di fatto, che non unisce come vorrebbe l’etimo perché nasconde quel che più unisce gli uomini. Ed è proprio l’accogliere naturalmente, senza narcisismi, il sentimento della fine che fa dell’atteggiamento di fondo dietro i testi qualche cosa di universale, di assolutamente umano.
Sono tutti bei testi. Forse il mio preferito è la passeggiata bianca. Anche le poesie hanno parti molto belle (“un dio barbaro getta i sassi/ dal cavalcavia”).
le due poesie credo siano molto interessanti, hanno un bel passo.
le prose poetiche sono in un periodo che non le tollero, purtroppo ho un’anima prosastica. a ognuno i suoi demoni. buonaserata
Grazie. Belle. “Stato in luogo” è un titolo che muove e muove tanto. A.
in effetti è il mio primo libro di poesie, dopo sette libri di prosa nel giro di sei anni.
la poesia ha tempi lunghi……
e io ho lavorato in quell’ottica
C’è chi ha tanto tempo da perdere, che invece di scrivere potrebbe, che ne so, lavorare all’uncinetto, lavorare in fabbrica o raccogliere pomodori.
le poesie si scrivono per tutti, perfino per gli stupidi
Caro Franco, lieto che “Stato in luogo” sia uscito.
Per il resto non ti curar di lor ma guarda e passa.
Per me, per molti, la tua scrittura, il tuo sguardo sono preziosi.
Un grande abbraccio. FF
Io sono uno stupido e non voglio che un poeta sommo di Le parole e le cose si prodighi a difendermi!!!