di Luca Barbieri
Un paio di mesi fa, appena fuori dall’aula insegnanti dell’istituto superiore dove insegno, c’erano due studentesse sedute sui gradini del giroscale, una accanto all’altra. Stavano parlando del più e del meno, nella pacatezza più totale, come due amiche alla pensilina in attesa del tram. Peccato che fosse orario di corsi: allora io mi sono avvicinato e ho chiesto loro cosa ci facessero lì e se non avessero lezione. Con un risolino mi hanno risposto di no, salvo correggersi subito dicendo che avevano un’ora di sostituzione ma che l’insegnante non era mai arrivato. Le ho invitate a tornare in classe, hanno sbuffato e l’hanno fatto.
Qualche giorno dopo questo episodio ho dato una nota sul registro a un mio studente che, durante la lezione, usava il computer portatile (non ho niente contro l’uso dei pc a lezione, ma voglio che me lo si dica prima, e il motivo deve essere fondato). A un certo punto l’ho chiamato per correggere un esercizio di grammatica e lui, al mio invito, ha tirato fuori con nonchalance il libro dallo zaino, l’ha aperto e ha cominciato a leggere come se niente fosse… quindi il pc serviva a fare altro. Ieri lo stesso studente mi ha chiesto se poteva rispondere al telefono a suo fratello, nel bel mezzo dell’ora di lezione (io ritiro i cellulari e li faccio mettere tutti su un banco; lui aveva visto illuminarsi lo schermo del suo smartphone e si era alzato per vedere chi lo cercasse).
Poco prima delle vacanze di Natale, durante il mio turno di sorveglianza all’intervallo (facciamo uscire dalle classi gli alunni per aerare le aule, mandandoli all’esterno, finché il tempo regge), uno studente, scocciato, a qualche metro da me, urla ai compagni dell’aula di fianco alla sua “a voi lui non vi rompe il cazzo, però”. In effetti dovevo ancora passare per lo sgombero. Avrei voluto avere la prontezza di rispondergli qualcosa come “adesso andiamo a rompere assieme il cazzo alla dirigente”, ma questo tipo di risposte mi esce sempre con quei quindici-venti secondi di ritardo, purtroppo.
Qualche anno fa avevo un paio di studenti di quinta (simpatici peraltro, come buona parte dei ragazzi che ho incontrato in dieci anni di insegnamento) che in aula si mettevano in ciabatte, un po’ per provocazione, ma secondo me un po’ anche perché davvero ci stavano comodi e non capivano in fondo cosa ci fosse di male.
L’altro giorno ho mandato in bagno una studentessa di prima: dopo qualche minuto è rientrata in aula con il bicchiere del caffè in mano, si è seduta al suo posto e, mentre io spiegavo i micenei, lei mi guardava girando placida la palettina e sorseggiando la bevanda. Allora ho messo da parte wanax e lawagetas e ho fatto notare innanzitutto l’inopportunità del gesto, e poi il fatto che il permesso è accordato per andare in bagno, non per andare a bersi un caffè… ma ho anche detto (ricordandomi di comportamenti da studente che furono anche i miei) che, se proprio uno vuole bersi un caffè, quanto meno è da scafati farlo fuori dall’aula, non certo dentro. Mi sono detto: “menomale che non ci sono i popcorn, alle macchinette, altrimenti cosa farebbero, gli studenti: piedi sul banco e lancio di popcorn in bocca mentre l’insegnante spiega?” Mi ha comunque lasciato stupito, però, il fatto che la studentessa non capiva cosa avesse fatto di sbagliato, in fondo caffè o acqua dalla bottiglietta sono la stessa cosa, mi ha detto. E allora che male c’è? E perché me ne ero risentito?
Mi fermo qui con l’aneddotica, convinto però che, se aspettassi giugno per scrivere questo articoletto, certamente si allungherebbe. Nel frattempo, però, in un mood a metà tra lo sconforto, l’indignazione e quel sano “ma che si attacchino tutti” che sopraggiunge con gli anni, ho sentito qualche collega fidato, scoprendo l’acqua calda: ognuno ha storielle simili alle mie, più o meno tragicomiche, che hanno tutte come minimo comune denominatore la disobbedienza generalizzata, leggi “sfacciataggine”.
E allora mi sono ritagliato un momento per cercare di capire cosa stia succedendo nelle loro menti, cercando però di evitare i piagnistei derivanti da paragoni con un supposto passato tutto rose e fiori che in realtà non è mai esistito. Ricordo bene, infatti, certe storielle che provenivano dall’istituto professionale accanto al liceo dove ho studiato io; storielle che, ripensandoci ora, mi auguro siano state ingigantite di bocca in bocca, come nel gioco del telefono senza fili (insegnanti chiusi nell’armadio, gente che si masturbava in classe e così via). Erano i primi anni Duemila, ma se si retrocedesse nel tempo in quel supposto passato dove tutto era chimericamente perfetto e abbondavano le buone maniere, si troverebbero certamente episodi analoghi.
E allora? A me pare che sia cambiato questo: quegli episodi di rilassatezza anche estrema ora sono un po’ appannaggio di tutti… non più, cioè, solo di alunni particolarmente maleducati o con alle spalle un contesto familiare e/o sociale disagiato (peraltro sempre esistiti): ormai sono comportamenti dello studente medio, mi verrebbe da dire. Infatti tutti gli alunni protagonisti degli aneddoti citati erano e sono ragazzi e ragazze simpatici, e per nulla stupidi. Non teppistelli o cafoni cronici. Sono persone, insomma, che da studente sarei stato contento di avere nella mia classe e che sono sicuro, per quello che ho intuito, essere buoni amici e amiche.
Ho cercato allora di entrare nelle loro menti per capire come si inneschi il cortocircuito che li porta ad agire così. E sono arrivato a questa conclusione: nella testa degli alunni di oggi, la scuola non è più concepita come un ambiente prima di tutto formale e solo in secondo luogo come informale, bensì viceversa: è percepita come un luogo innanzitutto informale e solo in seconda battuta come formale. Forse il processo non è ancora del tutto completato (non riguarda ancora, insomma la totalità dei ragazzi), ma mi pare che la strada imboccata sia questa.
Detto diversamente, la scuola è sempre meno percepita come il luogo dell’autorevolezza dove ci si può anche divertire costruendosi una sacrosanta zona-comfort di genuina e comprensibile informalità (peraltro sempre esistita). Mi pare invece stia diventando sempre più velocemente luogo dell’informalità in cui ciò che viene perimetrato e sentito come fuori posto è proprio la formalità, che si manifesta principalmente nelle lezioni e si incarna in chi le gestisce, gli insegnanti. Ma non solo. Sono infatti spie di formalità le buone maniere, il modo di porsi nei confronti di docenti e personale; il rispetto dovuto all’istituzione anche solo in quanto tale, tutte cose che mi pare stiano venendo meno a livello generale nel sistema d’istruzione italiano, e in una certa misura anche nella società (direi che il tasso di bestemmie che si possono sentire in luoghi pubblici sia una buona cartina di tornasole).
Sul perché “a monte”, è presto detto: a livello sociale la scuola non è più percepita come un’istituzione seria, fatta per accompagnare gli studenti nella loro crescita umana e culturale; non è più percepita insomma come un servizio, un servizio capitale, che lo Stato offre ai suoi cittadini più piccoli per diventare uomini e donne consapevoli. Oggi mi pare invece che, più che alla scuola come servizio, si pensi alla scuola come un ente a servizio, innanzitutto dei genitori che ci possono parcheggiare i loro figli, e poi dei ragazzi, a cui tutto dev’essere sempre e comunque dovuto.
Questo è certamente il frutto più splendido dell’ideologia della scuola-azienda, che ha trasformato gli studenti in dei clienti da accontentare e gli insegnanti in meri impiegati, o meglio: in dei rappresentanti che girano per i corridoi a vendere il loro prodotto-materia, ma senza possedere quella spigliatezza che è propria dei venditori, anzi: questa mi pare sia sostituita da una malinconica consapevolezza che il loro “prodotto” viene venduto obbligatoriamente a dei clienti che sono perlopiù disinteressati all’acquisto.
Ne consegue una demotivazione sempre più palpabile tra gli insegnanti, che certamente da una parte sono una classe lavorativa restia all’innovazione (ma in ogni caso non è nemmeno scritto da nessuna parte che occorra innovarsi sempre e a tutti i costi), ma dall’altra vorrebbero non vedere lesa di anno in anno la dignità della propria disciplina, oltre che del ruolo che rivestono. Io insegno letteratura, e non penso esistano mille modi di insegnarla (seriamente) diversi dal mio: si inquadra l’autore in un’epoca, si parla delle sue opere, si leggono e si commentano testi interessanti cercando di capire cos’hanno ancora da dirci dopo tanti anni. Per come la vedo io, letteratura vuol dire prima di tutto mettere il naso nei testi, perché essa è fatta di testi, semplicemente. Il risultato, di solito, è che si scopre che sentimenti e idee che credevamo essere appannaggio nostro e della nostra epoca, in realtà circolavano (o non circolavano) già in passato. Non penso invece che fare dei cortometraggi a partire dalle novelle di Boccaccio o mettere in scena I promessi sposi (nelle ore curricolari, si intende; nei pomeriggi si faccia quello che si vuole) si possa dire insegnare letteratura. È fare altro, fare intrattenimento o, per dirla nel gergo scolastichese, sviluppare competenze altre, ma appunto: competenze che non fanno parte dell’insegnamento della letteratura.
Ma torniamo sul punto. A distanza di qualche decennio dalla scuola delle tre “i” di berlusconiana memoria, direi che la trasformazione dell’istituzione scuola in azienda è pressoché compiuta, come del resto è perfettamente testimoniato anche dal lessico: il vecchio preside oggi è il dirigente, proprio come colui che è a capo di un’impresa (il boss, si potrebbe dire, e chissà che fra qualche anno non si dica così). Inoltre ogni scuola persegue una mission, esattamente come un’azienda, che deve farsi conoscere e vendersi ai futuri clienti, combattendo la concorrenza: esattamente come un’impresa. Si lavora per target e per progetti, ricevendo dai piani alti dei soldi che equivalgono in pratica ai premi produzione: esattamente come un’impresa. Forse ciò che è veramente cambiato è che, adesso, gli studenti mostrano di avere intuito la cosa, e forse l’hanno già anche metabolizzata, inconsciamente.
Ho parlato prima delle lezioni come isole di formalità percepite sempre più dai ragazzi come fuori contesto. Sì, e aggiungo ora che a me questo contesto ricorda sempre più la familia… ma attenzione: non sto usando un latinismo bensì un ispanismo. Mi riferisco a quella familia che così spesso ricorre a livello di lessico o di immagini nelle canzoni trap che ascoltano gli adolescenti di oggi, si ascolti J Balvin su tutti: non è la famiglia di sangue, bensì quella degli amici con cui si condividono avventure che in verità, a guardare i telegiornali, sconfinano sovente nei territori dell’illegalità (e dunque la familia di cui parlo non è esattamente un termine connotato solo in senso positivo – il gruppo di amici tenuto insieme dal collante dell’amicizia sincera, quasi fratellanza acquisita – piuttosto qualcosa che scolora nel concetto di gang). È la famiglia dei miei “fra’” e dei miei “bro’”, che sostituisce la famiglia di sangue, la familia latina, proprio perché quest’ultima non ha ormai più niente di quel luogo di formazione e di educazione primaria che è stato fino a qualche decennio fa. E infatti conta pressoché zero nell’educazione dei giovani, formata com’è sempre più spesso da genitori che in realtà sono semplicemente degli adolescenti mai cresciuti, che condividono bene o male la medesima età cerebrale dei loro figli.
La scuola è dunque la tana del mattino, in attesa di quella pomeridiana o serale. Ma in essa gli adulti-prof sono giocoforza degli intrusi, dei fuori posto, e non solo per normali dinamiche evolutive, ma perché ormai sono quasi del tutto privi di quell’autorevolezza che una volta erano la scuola e la società stessa a fornire, in modo naturale. Loro, gli adulti, possono solo fare parte della familia (latina), non certo della familia alla J Balvin.
Gli insegnanti sono dunque degli esigenti che disturbano, come sempre quando un “grande” si inserisce in un contesto di adolescenti… solo che la scuola non può essere percepita così, non dev’essere percepita così. E dunque davvero non si può stare zitti, trincerandosi magari dietro la necessità assoluta di modernizzare la scuola con nuove vision o invocando il solito “poverini poveretti”, “hanno sofferto per la d.a.d.” (e sulla supposta “sofferenza” in d.a.d dello studente-medio delle superiori, ho già scritto qui l’anno scorso: https://www.leparoleelecose.it/?p=39996). Stiamo tirando su, coccolandole con le promozioni facili e tutte le agevolazioni possibili, delle generazioni che si troveranno sprovviste di qualsiasi mezzo per reagire agli imprevisti dell’esistenza.
E se c’è qualcosa da rimproverare alla d.a.d, non è certo di aver privato i ragazzi di settimane di “sacrosante nozioni”, tantomeno di occasioni di socializzazione (che avviene peraltro sempre più in modalità digitale): il grande danno della d.a.d è semmai di avere dato il colpo di grazia alla credibilità della scuola. Gli studenti si sono evidentemente accorti che, se quel sistema di lezioni e verifiche che li faceva alzare ogni giorno all’alba era in fondo replicabile a distanza davanti allo schermo di camera propria, dove stare in pigiama e intanto giocare su Internet con gli amici, beh allora quel sistema lì non doveva essere poi così tanto serio come era stato loro raccontato.
In definitiva, a me pare che questa “inversione dei poli magnetici della scuola” (formalità/informalità), chiamiamola così, non sia un cambiamento da poco, anzi, e credo sia abbastanza preoccupante, tanto più che si sta generalizzando sempre più. Non l’ho detto, ma gli esempi che ho citato in apertura di questo articolo hanno per protagonisti tutti dei liceali: forse l’informazione, che certamente qualcuno leggerà come classista e pregiudiziale (a ragione), non è poi così irrilevante per l’inquadramento del fenomeno che ho tentato di mettere a fuoco.
E non si tratta di un cambiamento in positivo perché, se si perde la distinzione gerarchica tra formale e informale, invertendola, a cascata si perde anche quella tra ciò che è opportuno o inopportuno fare, con danno di tutti. E allora si sta in pantofole a lezione, si beve il caffè sfacciatamente in faccia al proprio insegnante, si usa il computer per farsi gli affari propri, si viene a scuola in tuta, ogni giorno, non solo quando c’è ginnastica. Si hanno insomma atteggiamenti informali diffusi, “da casa”, non certo da scuola per come l’abbiamo conosciuta fino a qualche decennio fa, e per come credo debba essere, ancora. A costo di apparire retrò.
Mi pare che, nella priorità delle urgenze che riguardano il sistema di istruzione italiano, invertire la rotta dovrebbe occupare il posto apicale. A chi spetta? A tutti gli interessati all’esistenza di una scuola pubblica veramente formativa, se ancora se ne sente l’esigenza. Altrimenti aspettiamoci l’ascesa dei grandi magnati dell’imprenditoria che, un giorno, cogliendo il malcontento di quei genitori altolocati che vorrebbero un’istruzione di qualità per i propri figli, si metteranno a fondare scuole d’elite e costose e, con la loro disponibilità economica, potranno pagare molto bene gli insegnanti, causando il fuggi fuggi di quelli bravi dalle scuole pubbliche, che resteranno appannaggio solo degli inadeguati. E allora potremo veramente celebrare il funerale dell’istruzione di stato.
bisogna leggere bene ” il danno scolastico” e ” togliamo il disturbo”( ricolfi e mastrocola).
fatelo.
e poi rifatelo.
Assolutamente d’accordo con quanto scritto. Insegno da soli tre anni, ma gli episodi sono gli stessi, anche più gravi nel tecnico professionale in cui sono quest’anno.
Il rappresentante di una seconda spesso e volentieri dice di annoiarsi, di non voler eseguire un compito dato, di voler uscire…la scuola non é e non sarà mai “perfetta”, ma 15/20 anni fa queste uscite le facevano solo i lavativi, i bulletti, i ripetenti, ora sta diventando la norma e ciò é pericoloso per il futuro di tutto il paese.
Premesso che i ragazzi in una scuola e anche al di fuori della scuola fanno tutto quello che gli adulti consentono loro di fare ( di che ci lamentiamo?) se continuiamo a pensare alla scuola di stato come alla sola alternativa e alla sola difesa nei confronti della scuola-azienda non potrà che finire così, perché è già finita così. Del resto non vedo vie di fuga realistiche, perché contrattualmente a nessuno dell’esercito dei docenti conviene perdere la pur modesta guarentigia dell’impiego statale, con nessun controllo o quasi su quello che si fa , il pomeriggio libero ( chi vuole può anche preparare le lezioni), i famosi tre mesi all’anno ecc. In Utopia dovrebbero nascere ( partendo dalle superiori) tante imprese culturali pubbliche promosse da insegnanti su base cooperativistica, che si scelgono a vicenda per sintonia pedagogica e didattica e umana (politica in senso proprio) e poi da lì gareggiare tra loro come i cento fiori di maoista memoria, prima che anche la Cina diventasse una sola grande azienda. Tutto gratis per gli studenti, pagano le tasse dei contribuenti, nessuna retta che distingua scuole per ricchi da scuole per poveri. Chi ha più filo per tessere tesse, magari smettendo di citare ogni due per tre don Milani, mentre di fatto è lo Stato, non meno dell’Azienda, che lo tiene ancora confinato a Barbiana.
Complimenti all’estensore del pezzo per la sobrietà appassionata del suo stile.
Uno degli articoli più belli che ho letto su questo blog negli ultimi mesi. Fotografa con precisione la condizione di molti ragazzi nella scuola italiana (per chi da insegnante la osserva quotidianamente) e finalmente critica dall’interno e in modo chiaro le politiche e le retoriche scolastiche degli ultimi decenni (indistintamente di destra e di sinistra) che stanno contribuendo a pervertire in Italia il senso della scuola e il suo ruolo formativo nella società.
Grazie per la condivisione. Molto interessante. Il ragionamento aziendalista e imprenditoriale è ormai diventato morale. E certo non ne soffre solo la scuola. Tutte le istituzioni sono ormai organizzate in quella maniera…
L’inizio ricco di aneddoti solletica i ricordi e chiama ad affastellarne altre, di prove della decadenza della formalità della scuola, della sua autorità, del timore reverenziale nei confronti dei docenti. Le scritte su muri e banchi, il linguaggio sboccato, gli autoscatti in classe, il lancio di oggetti. Per non parlare del tasto dolente del modo di vestire. E non parlo di ombelichi o di scollature, ma di confusione tra un esame di maturità ed un aperitivo in spiaggia. Forse potremmo accogliere perfino esempi più clamorosi dei suoi. Il tempio viene violato più volte ed in modi differenti, da decenni. Quando si tocca questo tasto, in quello sfogatoio irriflesso che è talora l’aula docenti, l’enumerazione degli scandali sembra un diluvio senza dighe. Ma detto questo, mi chiedo se ci sia un’alternativa alla lagnanza reazionaria.
L’atteggiamento di rilassata e ciabattante sfiducia nelle Istituzioni, non solo nella scuola, caro collega, ma direi quasi ovunque in Italia, è un dramma che sembra raccontare un popolo sempre adolescente e familista amorale, sempre tarallucci e vino, sempre immaturo, chissà da quanti eoni. Per questo l’aziendalizzazione non è la causa del problema, semmai un’aggravante. Inoltre la moltiplicazione dei mezzi e delle occasioni di stimolazione emotiva ed intellettuale rendono la scuola uno delle tante fonti di senso, in mezzo ad una gigantesca marea che docenti e studenti non sanno né possono governare. Io non so se quello a cui lei allude sia proprio il miglior modello per insegnare letteratura, ma se venisse proposto a certe mie conoscenze, che faticano con le maiuscole e gli accenti e non hanno mai letto un libro interamente, sarebbe un cantare a sordi. In realtà non sono nemmeno sordi, ma assordati da un chiasso semiotico che non credo sia facile da elaborare; se io avessi la loro età adesso, non ce la farei, benché forse mi apparirebbe la differenza tra un verso come “e chiaro nella valle il fiume appare” e “mi fai come la weed”. Insomma, la inviterei, se è lecito, a mettere in discussione la postura aristocratica, un po’ da difesa dell’Ancien Regime, con cui registra questo cambiamento, che non è la Decadenza dell’Occidente o la cessione delle Chiese del Sapere agli zoo della Maleducazione plebea. Possiamo anche riprendere a bocciare, possiamo anche invitare ad un dress code più decente, ma un caffè non chiude le sinapsi, il rap non è la vittoria dei barbari ed uno zerbinotto conforme al galateo non risolve il problema delle poche gocce di senso e formazione ed entusiasmo che zampillano dalla scuola. Oppure crede davvero che si possa reintrodurre la Formalità negli istituti d’apprendimento in una società che procede tutta compatta verso l’anomia, la deresponsabilizzazione, il narcisismo di massa?
“Oh, come per tutto quel docere e chiacchierare, i corpi – il suo, degli altri, delle altre – si stancavano, si logoravano! Eppure docevano. O facevano finta di docere e chiacchierare. Anche se stanchi, anche se logorati. E malgrado la condizione di organizzatissima follia. Sì, lì dentro il Pacco Nord. Sì, lì nella società circostante.
E vuoi che non si accorgessero alla fine – magari della carriera di docenti, quando il cuore cominciava a tremare di più – che il loro sconclusionato e clandestino tentativo di pensare – lì, dentro lo spazio scolastico – era stato un fallimento?
E vuoi che – tanto o poco – la mente di prof Samizdat e dei suoi colleghi e delle sue colleghe non mentisse? Specie quando si poneva – ogni tanto, eh! – di fronte al dilemma che lo angustiava continuamente, da quando metteva piede al Pacco Nord a quando ne usciva e si rimetteva in auto per tornare a casa. Quando, cioè, si chiedeva: può il nostro corpo docente – perché c’era dentro stanco, appesantito, in via d’invecchiamento – tenere il passo, inseguire, il guizzante, strafottente, corpo di studenti e studentesse?
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Voleva insegnare a se stesso ragazzo e al pezzo di sé che scovava in certi studenti…
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Lo potrebbe, si rispondeva a quei tempi (era appena entrato “di ruolo”). Se la mente – sua e dei colleghi e delle colleghe – non mentisse. Se non si distruggesse nell’apatia. Se avesse il coraggio di indagare i danni della sporca educazione scolastica. Sì, proprio i danni. Fatti dal corpo studente: la sua distruttività espressa in musica, in vagabondaggi per i corridoi, strusciamenti e blasfem-turpiloquio. Ma pure quelli fatti dal corpo e soprattutto dalla mente docente, così affascinata dal modello sadico della normalità autoritaria. Con quante (irrilevanti) eccezioni? Pochissime.
(da Prof Samizdat (prova 5): http://www.poliscritture.it/2022/04/11/prof-samizdat-prova-5-2/)
Osservazione da incorniciare ma conclusioni assenti e persino ricorsive. Mi spiego. A fronte della situazione che ogni docente italiano farebbe propria, lei scrive che la soluzione risiede in una “stretta” dei costumi interni alla scuola. Ma questo non sarebbe altro che la riproposizione di quegli stessi modelli che nei decenni del dopoguerra hanno isolato i “cattivi” stigmatizzandoli dietro etichette nominalistiche o peggio sociali. Perché, non dimentichiamolo, se vediamo che Salvini va al Papeete e non consideriamo che è un parlamentare, la colpa non è della scuola. Se la scuola è un parcheggio per molte famiglie già slabbrate in partenza, la colpa non è della scuola. Potrei continuare.
Ma sostengo invece che quella che lei chiama “inversione dei poli magnetici della scuola” debba far riflettere anche in un altro senso. Forse in più sensi, ma tant’è. Presento un caso: l’ondata recente di occupazioni ha mostrato che a dispetto di tutti i formalismi sfacciati di cui sopra, i ragazzi hanno voglia di confronto, di partecipazione, di politica, proprio nel senso che lei nell’articolo accusa essere assente. E invece assente non è. A mancare sono i modi per parlarne. Giocoforza, quando avevo 17 anni parlare di politica a scuola era ovvio, fare politica, in qualche modo, anche solo andando a un concerto invece che in discoteca, era già un atto significativo, connotativo. (Ho 46 anni). Adesso le forme vuote in cui depositare i propri pensieri non esistono, semplicemente perché la società di stampo aziendalistico le ha cancellate negli ultimi 30 anni. Ora dico, devono pagare gli studenti?
Certo, non sono i docenti a doverlo fare, (pagare, intendo), ma se oggi diventare docenti significa anche abbassarsi (adeguarsi) a un certo livello, bene, si fa. Si cerca un terreno di confronto, si ragiona del caffé e delle ciabatte come di Boccaccio o di Ricolfi e Mastrocola, che guarda il caso qualcuno ha citato nei commenti forse senza comprendere quello che è la scuola italiana oggi. Se il problema è la mancanza di pazienza (io ne ho molta, di mancanza, ma perlopiù la tengo per i colleghi o le istituzioni, non verso i ragazzi che se hanno colpe non sono quelle che lei indica), si cambi approccio o mestiere.
Non voglio essere tranchant, nel suo pezzo ci sono diverse osservazioni interessanti, ma come, spero, avrà capito, non concordo in toto con il disfattismo del tono conclusivo. QUello che la preoccupa già sta avvenendo, ma non si diventa medici con l’idea che “tanto i pazienti non li salviamo mai”. Semmai si trova il tempo di leggere Boccaccio e di fargli fare il prodotto multimediale, due per uno. Cordiali saluti.
Questa proposta di inquadrare le modalità diffuse di stare a Scuola con la coppia formalità/informalità è interessante, e può essere uno strumento di analisi. Rimane però l’impressione che chi scrive non si sia reso conto del mestiere che ha scelto, e che il primo dovere del Docente è denunciare gli elementi -lato docenza- della deriva: il ritorno al nozionismo, lo spezzetamento delle cattedre disciplinari, il crocettismo imperante, la cacofonia di sovrabbondanti contenuti, i danni dei registri elettronici e del ritorno al far studiare a memoria da pag. a pag., il buonismo insopportabile, iper paternalistico, dei progetti extracurriculari e pre confezionati. La Scuola degli ultimi 20/30 è noiosissima, tacitamente anti-intellettuale, una naia continua. Certo non meglio le familias/gang, ma la lezione delle loro (presunta) popolarità è che quel che si cerca è la realtà di rapporti veri, e questo manca alla Scuola d’oggi. La formalità si guadagna meritandosi la stima, non lamentandosi delle famiglie lassiste.