A cura di Laura Pugno

 

Nel 2022 si compiono 15 anni dall’inizio della mia personale avventura con l’ibrido, la pubblicazione del mio primo romanzo, Sirene, nel 2007. Da allora, le figure più che umane, oltreumane, si sono moltiplicate, in letteratura e nell’immaginario, intorno a noi, fino a essere in un certo senso ovunque, o forse solo nell’occhio di chi guarda. La parola Chimera, oltre i Canti Orfici e i Dialoghi con Leucò, riecheggia oggi gli ibridi interspecie della scienza contemporanea insieme alla mitologia greca, etrusca ed egizia, e per questo ce ne serviamo qui: il campo delle ibridazioni, come si vedrà, è molto ampio (lp).

 

Lorenzo Peka, l’ibrido che ho scelto per te è doppio, Homo sylvestris/Centauro. Vuoi raccontarci, a modo tuo, la sua storia?


Volentieri, e parto dal centauro: da lungo tempo il nome è associato alla celebre figura dell’uomo-cavallo, ma non è sempre stato così. Quando nell’Iliade e nell’Odissea si parla di centauri, l’autore non dice mai, né lascia intendere, che essi siano per metà cavalli né che abbiano un qualche tratto fisico equino. Semplicemente, Omero li etichetta come pheras, “selvaggi”. Da qui, autori successivi si sentirono legittimati a identificare i centauri con gli uomini-cavalli dei miti e delle raffigurazioni. Questi ultimi, probabilmente, hanno un’origine a sé stante, che è da ricercare nei racconti a proposito dell’addomesticamento dei cavalli in Tessaglia, o nell’arrivo in Grecia di popolazioni nomadi a cavallo.
Questa precisazione può sembrare un dettaglio pedante, ma credo sia fondamentale. Il centauro omerico è profondamente ambivalente: di solito è una creatura incolta e rozza, dedita al cibo e al vino e incapace di dominare i propri istinti; a volte, però, il centauro è descritto come un saggio, depositario di una sapienza antica: uno per tutti Chirone, che fu addirittura il maestro di Achille.


Quella di homo sylvestris, “uomo selvaggio”, è una categoria più ampia, che non è possibile generalizzare. Vi rientrano gli abitatori dei boschi e delle regioni remote, tendenzialmente antropomorfi ma a volte con tratti bestiali o ferini, quantomeno nel comportamento. Anche l’uomo selvaggio, come il centauro, è una figura ambigua, liminale: da un lato è un homo, un essere umano, e perciò ha – almeno in potenza – la capacità di raziocinio; dall’altro lato però è silvestre, abitatore della silva, che simboleggia invece i territori inesplorati, e quindi l’ignoto e la barbarie, in contrapposizione al mondo civilizzato.
Inoltre, in seguito alle esplorazioni geografiche delle Americhe e delle Indie, il termine homo sylvestris fu impiegato dagli eruditi per indicare le popolazioni locali, considerate selvagge dagli europei. Ne parlò estesamente Ulisse Aldrovandi nella sua Monstrorum historia, dove peraltro riprese anche satiri, centauri e uomini selvaggi dei miti classici. Si verificò in questo modo un’interferenza tra mito e storia, dove le scoperte più recenti sembravano in qualche modo avvalorare gli antichi racconti di popolazioni incredibili.



Pensa alla parola totem. C’è qualcosa nel tuo ibrido che ti parla del passato, tuo e di tutti?


Il totem nasce come raffigurazione animale o comunque zoomorfa, che assume un significato simbolico per una comunità. In connessione al passato, il totem è quindi anche un segno di appartenenza, genealogica e culturale. Penso alle tribù, alle gentes romane e ai casati medievali, agli stemmi di famiglia. È interessante notare come il selvaggio – nella raffigurazione stereotipica dell’uomo irsuto e seminudo che brandisce una clava – sia poi diventato una figura ricorrente nell’araldica europea. Molto alla lunga, ritroviamo quelle stesse clave nei bastoni delle carte da gioco italiane. C’è qualcosa di fortemente identitario, di ancestrale, nel tema dell’uomo selvaggio. Egli è sì l’emissario di un mondo aspro, incolto, profondamente altro rispetto al nostro; ma al tempo stesso rappresenta le forze primordiali della natura, a cui l’uomo civilizzato non può fare a meno di richiamarsi per attingere forze e idee.



E il futuro? Pensa alla parola daimon. Il tuo ibrido può accompagnarci nel futuro?


Il daimon socratico, magari? Mi viene in mente un passo divertente del Simposio platonico, dove Socrate viene paragonato a certe statuine di legno che si vendevano ad Atene: raffiguravano dei sileni, ma le si poteva aprire e all’interno c’era un’immaginetta sacra. L’ho sempre trovato un modo brillante di descrivere l’arte dialogica di Socrate, nascosta sotto un’apparente casualità e vena istrionica. E non è un caso che si trattasse di sileni, cioè vecchi satiri. Torna il tema dell’ambivalenza dell’essere selvatico – satiri, centauri e uomini ferini sono tutti parenti stretti – a volte bestiale e a volte saggio. Chissà, forse ci può essere un monito, per noi, a non compiacerci troppo della nostra cosiddetta civiltà moderna. I flauti silvestri dei sileni potrebbero avere ancora qualcosa di interessante da dirci.

 

[Immagine: Filippino Lippi, Centauro ferito].

2 thoughts on “Dialoghi con la Chimera /7: Lorenzo Peka, Homo sylvestris/Centauro

  1. A proposito di satiri, centauri e uomini ferini, segnalo il romanzo breve di Joseph d’Arbaud La Bestia del Vacarés (1926), prima traduzione dall’occitano a cura di Rosella Pellegrino per la Noce d’Oro (2022).
    Qui: https://www.bibliomanie.it/?p=10239 si può leggere una recensione di Monica Longobardi.

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