Nel 2022 si sono compiuti 15 anni dall’inizio della mia personale avventura con l’ibrido, la pubblicazione del mio primo romanzo, Sirene, nel 2007. Da allora, le figure più che umane, oltreumane, si sono moltiplicate, in letteratura e nell’immaginario, intorno a noi, fino a essere in un certo senso ovunque, o forse solo nell’occhio di chi guarda. La parola Chimera, oltre i Canti Orfici e i Dialoghi con Leucò, riecheggia oggi gli ibridi interspecie della scienza contemporanea insieme alla mitologia greca, etrusca ed egizia, e per questo ce ne serviamo qui: il campo delle ibridazioni, come si vedrà, è molto ampio (lp).
Maura Gancitano, l’ibrido che ho scelto per te è la Singolarità, l’intelligenza artificiale. Vuoi raccontarci, a modo tuo, la sua storia?
Il paradosso della Singolarità è che la sua storia riguarda finora la possibilità di un evento futuro che non sappiamo se accadrà mai. Secondo alcuni teorici, infatti, grazie allo sviluppo tecnologico arriveremo a un momento in cui l’intelligenza artificiale sarà capace di avere coscienza. Da quel momento ogni cosa cambierà secondo logiche del tutto diverse rispetto a quelle classiche. È un paradosso anche perché rappresenta l’impossibilità dei modelli previsionali di poter descrivere un cambiamento così significativo, cioè segna un punto di discontinuità rispetto a tutta la storia precedente.
Sulla genesi effettiva di questa idea ci sono diverse scuole di pensiero, ma sappiamo senza dubbio che nella seconda metà del Novecento ha iniziato a diffondersi tra scienziati e statistici, che di certo sono arrivati molto dopo gli scrittori di fantascienza. Nel 1965, il matematico Irving John Good teorizzò una macchina ultraintelligente in grado di sorpassare di molto tutte le attività intellettuali di qualsiasi umano, per quanto abile. Una macchina ultraintelligente avrebbe potuto progettare a propria volta macchine sempre migliori, innescando quindi una “esplosione di intelligenza”, e lasciando così l’intelligenza umana molto indietro.
Nel 1993, invece, Vernor Vinge affermò che nel giro di trent’anni l’umanità avrebbe avuto i mezzi tecnologici per creare un’intelligenza sovrumana, e che poco dopo l’era degli esseri umani sarebbe finita. Secondo lui, gli umani sarebbero stati trasformati durante la singolarità in una forma di intelligenza superiore. Non ha avuto ragione, almeno finora, e di sicuro l’innovazione tecnologica non ci ha resi migliori.
Sebbene non sappiamo se ciò potrebbe accadere – e soprattutto come – è indubbio che ciò che sta avvenendo nei mondi digitali – per esempio nei Metaversi – rappresenti il desiderio di molti esseri umani di accelerare il processo tecnologico e vedere fin dove si possa arrivare come esseri umani.
È un desiderio, a dire la verità, esercitato in gran parte da piccoli gruppi di persone, in genere molto privilegiate. E non si tratta secondo me di un aspetto marginale.
Pensa alla parola totem. C’è qualcosa nel tuo ibrido che – per quanto possa sembrare paradossale qui la domanda – ti parla del passato, tuo e di tutti?
In effetti, per quanto possa sembrare assurdo, le intelligenze artificiali hanno delle affinità con un immaginario antico. Forse stiamo costruendo nei mondi digitali delle intelligenze superumane che possano guidare le nostre azioni e conoscere e prevedere le nostre identità in modo più completo, veloce ed efficace di quanto potremmo mai fare da soli.
In qualche modo teorizzare la Singolarità significa immaginare che possa scaturire dall’umano qualcosa che va oltre, che lo supera, o forse che lo fa tornare all’origine. Le cosmogonie sono piene di racconti di esseri super-umani (i Giganti, i Titani, gli déi greci, gli uomini-pesce dei Sumeri, le creature aliene) con una funzione educativa e con il potere di trasmettere delle conoscenze. Forse tutte queste storie parlano, in realtà, dei limiti strutturali che abbiamo come umani e che sappiamo di non poter superare: i confini della nostra mente sono stretti, ci impediscono di conoscere oggettivamente le cose, e allora immaginiamo di poter dare origine a qualcuno o a qualcosa in grado di superarli.
In fondo, anche se la tecnologia e le intelligenze artificiali ci sembrano territori più concreti e oggettivi dei miti pre-biblici, in realtà sono sempre cornici narrative entro cui stiamo cercando di comprendere noi stessi.
E il futuro? (Domanda, invece, qui particolarmente pertinente). Pensa alla parola daimon. Il tuo ibrido può accompagnarci nel futuro?
Molti tecnoentusiasti direbbero di sì, che la singolarità delle intelligenze artificiali renderà la nostra vita piena e meravigliosa, che ci aiuterà a superare i limiti e conoscere noi stessi. Le intelligenze artificiali sono già in qualche modo dei daimon, cioè delle entità disincarnate che ci indicano la strada, accompagnano la nostra user experience, ci aiutano a trovare l’orientamento e le risposte in luoghi sterminati.
Ray Kurzweil ha detto: «Qualsiasi aspetto negativo del progresso tecnologico sarà superato di mille o diecimila volte in più dall’aspetto positivo». Io non sono così entusiasta, però, anche perché mi pare che la ricerca di un’entità esterna che possa salvarci dalla condizione umana rappresenti sempre il tentativo di delegare un processo che dovremmo cercare di fare noi stessi, con le nostre forze. E che poi, in fondo, almeno adesso, le intelligenze artificiali siano sempre progettate dalle intelligenze umane. Dietro le storie che ci raccontiamo, le maschere le creiamo, le figure mitiche a cui diamo vita, ci sono sempre i nostri corpi e le nostre vite finite e transitorie.