a cura di Lucia Esposito e Alessandra Ruggiero

 

[È da poco uscito per Mimesis Downton Abbey. Il fascino sfacciato dell’aristocrazia, a cura di Lucia Esposito e Alessandra Ruggiero: all’introduzione delle curatrici seguono i contributi di Flora de Giovanni, Alessandra Marzola, Lucia Esposito, Claudia Cao, Clotilde Bertoni, Raffaella Antinucci, Aureliana Natale, Maria Fiorella Suozzo. Pubblichiamo quello di Clotilde Bertoni, ringraziando l’editore per l’autorizzazione.]

 

I CONTI NON TORNANO: UNA SERIE DI CONTRADDIZIONI

 

di Clotilde Bertoni

 

1. Ricetta per una serie in costume: un’intertestualità tendenziosa

 

Un patrimonio vincolato alla successione maschile e uno stuolo di figlie da sistemare, come in Orgoglio e pregiudizio. Un avito possedimento di campagna, vanto di un capofamiglia tradizionalista, come in Mansfield Park, in innumerevoli altri romanzi inglesi e nei cosiddetti heritage film della Merchant Ivory Productions (alcuni ricavati dalle opere di Forster). L’intreccio tra la futilità dei rituali mondani e l’ombra dei ricatti e degli scandali, come nella produzione di Trollope o nei society dramas di Wilde. L’alternanza tra le vite dei proprietari e quelle dei domestici, come in una profusione di lavori eterogenei, dalla Trilogia della villeggiatura di Goldoni alla serie televisiva del 1971-75 Upstairs Downstairs al Gosford Park di Altman. La figura del maggiordomo impeccabile, come nel ciclo di Wodehouse su Jeeves, in certi film di Lubitsch o in Quel che resta del giorno di Ishiguro portato sullo schermo da Ivory. E si potrebbe continuare[1].

 

Nel 1713 Alexander Pope pubblica A Receipt to Make an Epic Poem, brillante rassegna della cristallizzazione del genere in topoi obbligati; tre secoli dopo Julian Fellowes (già sceneggiatore del Gosford Park sopra citato) basa davvero Downton Abbey su una sorta di ricetta, composta di ingredienti adatti a stuzzicare tanto i palati freschi del pubblico ignaro della loro origine, quanto quelli allenati degli spettatori in grado di riconoscerla[2]: le sei stagioni della serie, andata in onda dal 2010 al 2015 e ambientata tra il 1912 e il 1925, imbastiscono un pastiche di modelli collaudati, non sfrontato e ludico come quelli postmoderni, ma quasi altrettanto fitto[3].

 

Un pastiche tendenzioso: riprende i tratti più accattivanti delle opere menzionate, ma ne smussa le punte, ne azzera le ambiguità, ne addomestica la carica eversiva; se da un lato le adegua ai mutamenti di costume intercorsi, dall’altro recupera valori da esse (apertamente o implicitamente) sgretolati, quali la grandeur aristocratica, le barriere di classe, l’inamovibilità dei privilegi; affermando così il suo complessivo senso regressivo e nostalgico, aderente alla linea del partito Tory di cui Fellowes è esponente e del governo Cameron insediatosi poco prima della messa in onda[4].

 

Ad esempio, se riecheggia e saccheggia le ideazioni di Jane Austen[5], la serie ne neutralizza l’ironia sorniona e ne appiana gli aspetti più scomodi (la critica dello snobismo aristocratico, gli antagonismi generazionali irrisolti, le lacerazioni irricucibili tra passione e raziocinio); offre una nuova levatura morale ai signori oziosi e ai domestici sussiegosi smaccatamente ridicoli nelle opere di Wodehouse o Lubitsch; attutisce i conflitti fra trasgressioni e preconcetti, rivolte e conservatorismo, di cui Il Ventaglio di Lady Windermere di Wilde sottolinea l’irredimibile asprezza (“Si paga per la propria colpa, e poi si paga ancora, e per tutta la vita si paga”)[6], e che, a livelli differenti, risultano sempre lancinanti nei romanzi di Forster, Lawrence, Waugh, nei film da essi tratti[7], ancora in Upstairs Downstairs (tra gli ipotesti principali, non di rado oggetto, più che di gioco citazionistico, di calco quasi parassitario)[8], e pure in Gosford Park[9].

 

Ma se dunque Downton Abbey illeggiadrisce, leviga, snatura i suoi modelli, come fa tanta altra fiction popolare (basti pensare alla smisurata costellazione di riscritture, sequel e spin-off che circonda la produzione di Austen)[10], ha uno spessore diverso: se ha generato a sua volta una messe copiosa di narrazioni ulteriori, variazioni parodiche, incroci con altri generi e via dicendo[11], è perché possiede innegabilmente una cifra originale.

Cifra che si può individuare in certe contraddizioni di fondo: se segue costantemente una prospettiva nostalgica, la serie la mette altrettanto costantemente in questione; se asserisce il fascino di un’epoca tramontata, ne presenta incarnazioni non troppo convincenti; se rilancia il piacere delle grandi trame ottocentesche, ne allenta o disattiva le molle classiche, l’iniziativa individuale, le ambizioni intense, le passioni irrevocabili[12].

 

2. La terra dei fuchi (e una sola ape regina)

 

A risultare platealmente in crisi è innanzitutto l’iniziativa dei personaggi maschili, che del mondo evocato dovrebbero essere i dominatori indiscussi.

Robert Crawley, il conte di Grantham, il più rappresentativo del modello patriarcale, è irreprensibile, indulgente, generoso, ma conformista all’eccesso[13], refrattario ai mutamenti, malaccorto (rischia di perdere la proprietà con investimenti avventati), facilmente contestato o scavalcato dalle donne che lo circondano (informato sempre in ritardo delle trasgressioni delle figlie, le accetta con una liberalità che, se sembra comunque implausibile per l’epoca, appare, più che atteggiamento davvero illuminato, rassegnazione di chi è messo davanti a fatti ormai abbondantemente compiuti)[14]. I personaggi giovani, per quanto ben più aperti e pragmatici, non sono però più realizzati, non concretizzano mai i propri progetti e neanche la propria indole: il Matthew erede di Downton malgré lui e primo marito di Mary, in principio avvocato baldanzosamente polemico verso lo stile di vita aristocratico, finisce via via per adeguarvisi, perde ogni indipendenza, incanala le sue energie nella gestione della proprietà[15]; il Tom chauffeur impegnato nella causa irlandese e in quella socialista, si ritrova dopo il matrimonio con  Sybil a sua volta risucchiato dalla famiglia e dalla tenuta, tenta a più riprese di allontanarsene ma torna sempre indietro, abdica sia alle proprie aspirazioni di giornalista e scrittore sia alla lotta per le proprie idee. I comprimari sono indeboliti dall’età, come lo sfiorito Sir Anthony Strallan inseguito da Edith, o deboli e basta come il Lord Gillingham gestito da Mary a suo piacimento, o schiacciati ai margini, come il Charles Blake personalità più marcata ma non caratterizzata a fondo, o l’Henry Talbot secondo marito di Mary, di cui la sceneggiatura (che ormai corre precipitosamente verso l’obbligato happy end) esalta la forza e l’intelligenza senza concedergli però occasioni di dimostrarle; il più grintoso, il Richard Carlisle magnate della stampa, è pure il più spregiudicato, tanto da apparire quasi un’esemplificazione delle derive pericolose che un’autentica volontà può comportare, dell’urto dei tempi nuovi e insieme della necessità di tenerli alla larga il più possibile.

 

Nella schiera dei dipendenti le cose non sono granché diverse. Come Robert, il maggiordomo Carson è un patriarca alla cui autorità patriarcale sfugge tutto, che non controlla e spesso ignora le scelte e le traversie dei personaggi su cui crede di vigilare; il valletto Bates non sa fronteggiare né l’ingiusta imputazione di uxoricidio che subisce né la violenza sessuale di cui è vittima la sua seconda moglie Anna; risultano inconsistenti i domestici più giovani, dal responsabilissimo William ucciso in guerra (che appare patriota troppo esaltato anche per la mentalità patriottica egemonica)[16], all’irresponsabile Jimmy in balia dell’aristocratica sua amante; il personaggio più ambizioso e sfaccettato, Thomas (su cui torneremo), fallisce ogni tentativo di scalare la società, e non riesce infine che a scalare la gerarchia di Downton, diventandone maggiordomo. Alla condizione iniziale si strappano un po’ solo il valletto Molesley, che passa a quella comunque abbastanza ingrata di maestro di campagna, il domestico Alfred, che ottiene un posto di chef al Ritz, e Spratt, il maggiordomo di Violet, che pur continuando ad adempiere le sue funzioni, tiene una rubrica di costume con un nom de plume femminile: gli unici affrancamenti dalla servitù avvengono attraverso un’altra servitù o sotto il segno dell’eccentricità.

 

Autoritari e autorevoli solo in superficie, troppo vulnerabili o troppo vacui, inermi davanti alle circostanze o incapaci di comprenderle, i personaggi maschili sono sempre sottomessi o inferiori a quelli femminili; indispensabili alla salvaguardia dell’istituto familiare, cardine del racconto e del suo senso, non sanno però governarlo, assolvono il proprio ruolo con impaccio. E a volte escono persino di scena subito dopo averlo assolto: Matthew il giorno stesso in cui ha assicurato il futuro della proprietà con la nascita di un erede maschio; l’editore Michael Gregson ancor prima che Edith metta al mondo la loro bambina. Downton Abbey è la terra dei fuchi.

Però le api non trionfano. Le donne sono matriarche, più forti, più lucide, più moderne degli uomini, ma tese a proteggerne la supremazia, come delle matriarche è tipico: la serie – combinando anche qui un adeguamento di facciata alla contemporaneità con un robusto passatismo di base – ne esalta le doti, ma per funzionalizzarle alla difesa dell’assetto canonico.

 

Per la contessa di Grantham, l’americana Cora, sempre un po’ a disagio nella patria d’adozione e inoltre amareggiata dalla mancanza di un dialogo autentico con il pur amato marito Robert, l’unica soddisfazione è quella di subentrare finalmente all’ingombrante suocera nella presidenza dell’ospedale locale; la più anticonformista Isobel, madre di Matthew, resta comunque definita dallo stato coniugale, si interessa di medicina in quanto vedova di un medico, trova una vera realizzazione solo in un nuovo matrimonio; la primogenita dei Grantham, Mary, pur denunciando immediatamente i limiti della sua condizione (“Le donne come me non hanno una vita: scelgono vestiti, fanno visite, praticano la beneficenza e frequentano salotti. Ma in realtà sono chiuse in una sala d’attesa finché non si sposano” – 1.4), tende, più che a sfidarli, a potenziare il proprio ruolo al loro interno, non matura alcuna vocazione autonoma, resta concentrata sul matrimonio e sulla proprietà, che arriva infine a dirigere, peraltro al fianco del cognato Tom; la secondogenita Edith, sempre frustrata dal confronto con lei, e sempre in bilico tra la fascinazione del destino canonico e la tentazione di un destino diverso[17], dopo varie disavventure amorose si cimenta nel giornalismo con successo, ma torna infine alle prime aspirazioni sposandosi e raggiungendo uno status prestigioso (Bertie, lo scialbissimo sposo, si ritrova investito a sorpresa di un titolo nobiliare), per apparire poi nel film propaggine (scipita) della serie già annoiata dalla condizione raggiunta e nostalgica della professione abbandonata. Infine, la terzogenita Sybil, contestatrice, suffragetta, durante la guerra infermiera, vede radicalmente mortificati i suoi propositi di ribellione: accetta di sposare Tom dicendogli “La mia decisione è partire per sempre e il mio biglietto sei tu, per andare via da questa casa, via da questa vita” (2.7), ma il biglietto le sfugge di mano, invertendo destinazione e destinatario; non solo Tom non la fa uscire dai ranghi, ma al contrario, benché quasi contro la sua volontà, lei fa rientrare nei ranghi lui, riportandolo a Downton, e iniziando una vita ordinaria di moglie, per morire poi di parto poco dopo; morte che può essere vista come un assassinio dell’ambiente, l’acme di un soffocamento sfuggito invano[18], e un po’ anche (come quella di Matthew che le tiene dietro) come la soluzione migliore per togliere di mezzo una figura che, fallita la sua contrapposizione al contesto, ha perso ogni vitalità narrativa (la serie la rimpiazza con un’altra giovane ribelle, la cugina Rose, la cui trasgressività è però assai più superficiale e comunque presto arginata da un altro felicissimo matrimonio).

 

Anche nell’ambito downstairs i personaggi femminili appaiono più energici e talentuosi di quelli maschili ma vincolati al loro dominio: la governante Hughes sa fronteggiare Carson ma senza scalfirne l’autorità; la domestica Anna, priva di ambizioni proprie, sembra esistere solo in funzione dei problemi di Mary o di quelli del marito Bates (persino dopo la violenza sessuale si preoccupa esclusivamente delle sue reazioni); la domestica Gwen, divenuta segretaria, compie un’ascesa sociale ulteriore solo sposando un affermato uomo d’affari; la sguattera Daisy prende un titolo di studi e viene promossa aiuto-cuoca ma fallisce ogni tentativo di elevarsi e impegnarsi oltre (perde presto interesse per la politica, riesce a sostenere i diritti del suocero fittavolo unicamente grazie al soccorso dei padroni); infine, la figura intermedia tra i due mondi, la maestra socialista Sarah, indipendente e acuta ma aggressiva e risentita, appare quasi (un po’ come il già citato, pur tanto diverso, Richard Carlisle) esemplificazione degli squilibri negativi implicati dal distacco troppo netto dai principi tradizionali.

 

Solo Lady Violet, la contessa madre, coincide trionfalmente con la propria condizione e sovrasta altrettanto trionfalmente tutti gli altri personaggi (pure Cora e Isobel, sue uniche antagoniste, le professano ammirazione); ma la sua, ci torneremo, è una sovranità anomala. C’è un’unica vera ape regina nell’intreccio: Downton Abbey, la proprietà fin dal titolo perno della serie. Peraltro un’ape regina sempre a rischio, che la gestione maldestra di Robert mette a repentaglio, che Mary e Tom amministrano in modo più moderno e avveduto, ma tra continui dubbi e fatiche: insieme fastosa e fatiscente, sembra costituire non una vera permanenza del passato ma un vacillante ancoraggio a esso, non un modello da perpetuare ma un precario rifugio dall’assedio di un presente disorientante, una cittadella fragile, la cui seduzione trae sapore da un retrogusto di inquietudine e angoscia[19].

 

3. La morte del giusto (e quella dell’eros)

 

Retrogusto che la serie accentua sabotando non solo le grandi ambizioni ma anche l’altra molla degli intrecci avvincenti, le passioni amorose. Certo, disegna vicende sentimentali a bizzeffe; ma che dei sentimenti mostrano più le disfunzioni che la perennità, più la labilità che la forza.

A prima vista sembra senz’altro ripristinare le mitologie romantiche, e in una versione, oltre che lineare e zuccherosa, quanto mai politically correct. Non concepisce le crepe e fratture dei rapporti materia delle narrazioni problematiche, non ipotizza incompatibilità profonde, non prevede neanche la scossa dell’adulterio: i coniugi di lungo corso Robert e Cora beneficiano solo di una scappatella a testa, entrambe brevissime e neppure consumate: una volta abbattuta la barriera di classe, nessun ostacolo si frappone tra Sybil e Tom; i drammi di Anna e Bates non turbano il loro legame; dopo delusioni a catena Edith è ricompensata da un’unione felice; Mary e Matthew, secondo il più inflazionato dei topoi, si innamorano praticamente al primo sguardo, e se poi impiegano due stagioni per capirsi, la priorità del loro sentimento resta evidente, non offuscata dalle incomprensioni e dai rivali. È invece condannato alla solitudine Thomas, il personaggio omosessuale: la serie (ancora una volta, tanto attenta a secondare – fino all’anacronismo – la mentalità odierna, quanto rigidamente conservatrice in sottofondo) ne giustifica il temperamento invidioso e intrigante rammentando l’emarginazione che ha subito, lo rende via via più umano e generoso, fa pure risultare il suo orientamento assai più tollerato di quanto sarebbe stato all’epoca probabile; però non gli accorda alcuna relazione (magari nella clandestinità) appagante e durevole, riaffermando così il primato assoluto dell’eros normativo[20].

 

Ma d’altra parte la celebrazione riservata a tale eros è tutt’altro che gloriosa. Downton configura amori impacciati o raffigura l’amore con impaccio: forse per sottolineare, mediante il filtro del passato, l’attuale crisi delle passioni, forse per manifestare la difficoltà di raccontarle ancora senza piombare nella ripetizione e nel cliché. Indubbiamente preferisce la menzogna romantica alla verità romanzesca[21]; ma se da un lato la brandisce ostentatamente, dall’altro ne indica la provvisorietà, la falsità persino: a seconda dei casi, facendola naufragare presto, svuotandola della sua abituale enfasi, presentandola in maniera poco convinta e poco convincente.

 

In primo luogo, lutti a profusione. Niente di strano, si dirà: il binomio amore e morte trasmigra subito dalle grandi tragedie ai melodrammi e alle soap-opera, è per gli spettatori meno traumatico e per gli sceneggiatori più agevole degli abbandoni e delle rotture, risparmia gli affondi nelle tortuosità della psiche, nelle sfasature dei coinvolgimenti. Però, la serie calca la mano davvero: alcune scomparse sono prevedibili, come quella della Lavinia fidanzata soave e insipida di Matthew, che (un po’ come la Dora di David Copperfield) si lascia andare perché si rende conto di non essere la compagna adatta a lui; ma altre sono vertiginose e spiazzanti al punto da rasentare la comicità involontaria[22]; nella prima nidiata dei discendenti non uno ha il piacere di conoscere entrambi i genitori, visto che Sybil muore mettendo al mondo la figlia, quello di Mary nasce poche ore prima della morte del padre, quella di Edith quando il padre è già morto; derivi da cupa ironia o da semplice trasandatezza, la spinta sul pedale della calamità incrina comunque lo splendore inscenato.

 

Sovente effimero, il trionfo dell’eros è per giunta penalizzato da rappresentazioni assai poco focose, non perché castigatissime ma perché (diversamente da tante rappresentazioni castigate precedenti, quelle hollywoodiane su tutte) completamente sprovviste di tensione erotica. Se i personaggi maschili, oltre a difettare spesso del physique du rôle (decisamente non aitanti alcuni interpreti, un po’ spaesati altri, il Dan Stevens che incarna Matthew in particolare), sono sempre guardinghi o goffi (la scena in cui Robert e il pretenzioso storico dell’arte corteggiatore di Cora si azzuffano sotto lo sguardo costernato di lei è una clamorosa derisione della virilità tradizionale), i personaggi femminili, privi dell’effervescenza di certe eroine dominatrici (come la Merteuil delle Relazioni pericolose o la Sanseverina della Certosa di Parma, o, per citare un caso più contiguo al nostro, la Louisa Trotter di una serie della BBC del 1976-77, La Duchessa di Duke Street), tendono a un’intraprendenza così fredda da disinnescare ogni emozione, a un’invocazione del copione di prammatica così razionale da inibirgli ogni mordente. L’agognato fidanzamento di Mary e Matthew (2.9) è tanto situato in una cornice romanticissima (una tempesta di neve notturna), quanto povero di fervore romantico (alla proposta di matrimonio lei replica “Dovresti chiedermelo come si deve, non posso rispondere se non ti inginocchi secondo le regole” e lui esegue puntualmente)[23], e la loro mancanza di alchimia dopo le nozze è così vistosa da deludere i fan[24]; la conclusiva felicità del rapporto di Mary e Henry è (al pari, come si diceva, delle qualità di lui) vigorosamente asserita ma quasi per nulla mostrata; la già citata dichiarazione con cui Sybil accetta di corrispondere Tom sfocia in un “Sì, puoi darmi un bacio, ma finché non è tutto a posto non avrai altro” (2.7), che sembra fatto apposta, se non per scoraggiare la granitica devozione di lui, per far cadere le braccia a tutti gli spettatori; Edith, presa più dalla competizione con Mary e dall’ossessione del matrimonio in sé che dai possibili sposi, quando viene lasciata sull’altare dal mogio Sir Anthony (resosi conto in ritardo di essere un eroe amoroso troppo improbabile) esprime un’indignazione più simile a quella di un cliente truffato che a quella di un’innamorata respinta; il legame di Anna e Bates è assimilabile a una solidarietà di oppressi; la relazione che si annoda lentamente tra Carson e Hughes risulta in fin dei conti la più tenera di tutta la serie, ma, così clamorosamente incompatibile (dati l’età e l’aspetto dei due) con ogni ipotesi di eros, che la sceneggiatura si premura di garantire al pubblico, peraltro nel più comico dei modi, che l’eros non mancherà (Hughes chiede a Carson, attraverso la mediazione della comprensibilmente imbarazzatissima cuoca, se si attende da lei un’unione completa e per lo stesso canale lui le assicura di sì), risparmiandosi poi l’azzardo impossibile di metterlo in scena.

 

Questo raffreddamento delle emozioni è annunciato subito: da un dramma che si verifica nel terzo episodio della prima stagione e si rivela in effetti l’evento capitale dell’intera serie. Un giovane diplomatico turco, Kemal Pamuk, di passaggio in Inghilterra, casualmente invitato dai Crawley, fa a casa loro e in quelle degli spettatori un’irruzione folgorante: attraente e spavaldissimo, corteggia vorticosamente Mary, la raggiunge nottetempo in camera sua (grazie all’aiuto di Thomas, che prima illude poi ricatta, dimostrando perfetta disinvoltura anche nell’interazione con il suo sesso), la seduce nel più incalzante dei modi (ma senza nessuna coercizione, diversamente da quanto hanno affermato alcuni critici); la topica dissolvenza che cala sui loro baci promette una fiammeggiante evoluzione mélo, fatta di passione clandestina (visto che, come lui rileva, la differenza di nazionalità e cultura preclude sicuramente il matrimonio), separazioni, ricongiungimenti, complicazioni a volontà. Invece macché: nella scena successiva una sbigottita Mary sbigottisce Anna, Cora e ovviamente il pubblico, rivelando loro che nel momento per così dire culminante Pamuk è stato ucciso da un attacco di cuore; poi, con uno sforzo che screzia di ridicolo la tragicità della situazione, le tre donne riportano il cadavere in camera sua, perché l’accaduto non trapeli e la reputazione di Mary non ne sia compromessa. Se il giovane fa quella che una superstizione popolare definisce la morte del giusto, insieme a lui muore subito la passione incandescente, peraltro incessantemente rammentata: il suo fantasma ingombra la serie a dismisura, la vicenda occultata seguita a incombere sugli episodi seguenti, via via sospettata, sussurrata, rivelata, materia di pettegolezzi, ricatti, ritorsioni, malintesi, conflitti, scene madri; e per gli spettatori pure un po’ di rimpianto, visto quanto sono esitanti o slavate le trame amorose successive.

 

La repentina scomparsa di Pamuk, la rimozione del suo corpo, l’ossessività del suo ricordo sono interpretabili in più modi: ad esempio, come l’estromissione di una mascolinità troppo spiccata; o come la disfatta della sessualità libera, soffocata da una società ipocrita e repressiva  (da notare che l’evento è considerato sempre e solo per le sue implicazioni scandalose, mai per quelle traumatiche, contro la più elementare verosimiglianza: va bene che Mary è una ragazza forte, ma ha la prima esperienza con un uomo che ci lascia la vita, come minimo dovrebbe correre a Vienna da chi sappiamo; invece non sembra risentirne affatto e gli altri personaggi non si interrogano mai al riguardo). Però, in questa scelta si può anche vedere qualcos’altro: il senso della crisi dell’eros più pieno, gioioso, dirompente; e pure la dichiarazione della fatica di raffigurarlo in modi ancora potenti e originali, al di fuori di stereotipi logori o kitsch.

 

4. Non ci resta che la fiction: le tante forme dell’evasione

 

Downton Abbey ha un’altra peculiarità. Oltre a sottrarre energia al mondo inscenato, gioca a non prenderlo troppo sul serio: mette un po’ in ridicolo la sua volontà di permanenza, proprio attraverso i personaggi che più tengono a salvaguardarla.

Il maggiordomo Carson è come quelli di Wodehouse e Lubitsch più conservatore e formalista dei padroni stessi, e d’altra parte, diversamente da loro, serio, dignitoso, pure commovente; però, come rivela già il secondo episodio della prima stagione, non è del tutto genuino: proviene dal teatro leggero, ha fatto parte di un duo comico. Una graffiante avvisaglia: Downton indica subito che la dimensione evocata ha perso autenticità da un pezzo, che è di stampo posticcio e illusionistico, che per reggersi esige il supporto di quella macchina dello spettacolo destinata a diventare sempre di più suo territorio privilegiato, suo principale spazio di dominio[25].

 

Sembra averlo intuito anche Lady Violet, la figura più emblematica del prestigio del casato (e, in virtù del sublime talento della Maggie Smith sua interprete, pure del fascino della serie), che è inflessibilmente tradizionalista e snob, ma in modo provocatoriamente spiritoso, difende le gerarchie e le convenzioni, ma senza investirle di vera importanza, si attiene puntigliosamente all’etichetta, ma dissacrando al tempo stesso ogni aspetto dell’esperienza[26]: ascoltando Matthew parlare della sua disponibilità di tempo nel weekend, domanda “Che cos’è il weekend?” (1.2); apprendendo che Mary intende confessare a Matthew l’avventura con Pamuk, sbuffa “Legge troppi romanzi” (1.6); sentendosi definire romantica, risponde “Mi hanno definita in molti modi ma mai così” (1.7); davanti all’installazione del telefono sospira “Prima l’elettricità, adesso questo telefono: a volte mi sento come se stessi vivendo in un romanzo di Wells” (1.7); non riuscendo a capire come Mary possa essere andata a letto con Gillingham senza essere determinata a sposarlo, puntualizza “Ai miei tempi una giovane donna era incapace di provare quel tipo di attrazione fisica finché non veniva ben istruita al riguardo dalla sua mamma” (5.3). Una figura irresistibile perché plasmata sul più irresistibile dei modelli: discende non, come è stato asserito, dall’altezzosa quanto ottusa Lady Catherine di Orgoglio e pregiudizio[27], ma dalle sfavillanti nobildonne del teatro di Wilde, specie dalla Lady Bracknell dell’Importanza di essere Ernest (ruolo sostenuto già splendidamente da Smith in una messinscena del 1993 all’Aldwych Theatre); che dichiara di avere la stessa lista di partiti adatti alla figlia che ha la “cara duchessa di Bolton”, spiegando “lavoriamo insieme, infatti”;  si compiace che il futuro genero fumi, perché “un uomo dovrebbe sempre avere un qualche tipo di occupazione”, e resta perplessa nel sapere che è orfano perché perdere un genitore “può essere considerato una sventura” ma perderli entrambi le sembra “da sbadati”; considera i trentacinque una bellissima età visto che varie signore altolocate “per loro scelta, sono rimaste trentacinquenni per anni”; non riesce a ricordare il nome del cognato, che designa come “il Generale”, ma precisa “Tuttavia non ho alcun dubbio che ne avesse uno”, e rammenta poi che  era “un uomo di pace, tranne che in famiglia”[28].

 

Certo, si tratta di un’affinità parziale. Evidentemente, Downton Abbey non segue la linea radicalmente satirica del teatro di Wilde, non sovverte ogni convinzione fino al paradosso e al nonsense, lascia l’ironia in sottofondo, snoda comunque un intreccio centripeto e avvincente. E le esigenze di questo intreccio via via comprimono la verve del personaggio e dell’interprete. Se al principio della seconda stagione dichiara “Detesto i melodrammi, tranne se si tratta di una prima al Covent Garden” (2.1), Lady Violet poi scivola a tratti anche lei nel melodramma: partecipa con la debita serietà ai lutti che costellano la vicenda, le fornisce una componente sentimentale ulteriore ritrovando un principe russo con cui ha avuto a suo tempo una relazione extraconiugale, e infine, incoraggiando Mary a preferire Henry a partiti più blasonati, si lascia andare a una professione di fede romantica che avrebbe decisamente stonato sulle labbra di Lady Bracknell (“Penso che occorra rispettare le regole, le tradizioni, e interpretare il proprio ruolo. Ma c’è anche dell’altro. […] credo nell’amore”)[29].

 

Il già menzionato Lubitsch aveva capito tutto. Nel suo Cluny Brown (1946, tratto da un romanzo di Margery Sharp), ambientato alle soglie della Seconda guerra mondiale, un altro tradizionalissimo nobile di campagna, il serafico Lord Carmel, acconsente alla richiesta del figlio idealista e ribelle di ospitare il professor Belinski, intellettuale cecoslovacco perseguitato dal nazismo; ma nel sentirgli dire che questi “lotta per un mondo nuovo e migliore”, replica con schietto stupore “Perché?”. Beninteso, il film presenta lui e la sua domanda nella più buffa delle luci; ma neanche dà ragione al fervore di suo figlio: se Lord Carmel finisce per comprendere che la guerra sta per travolgere la sua tranquillità, il professor Belinski, stanco dell’impegno, si trasferisce negli Stati Uniti e abbandona i saggi politici per darsi con successo alla narrativa poliziesca. Mentre mostra il definitivo tramonto del mondo antico, il regista non concede a quello nuovo e migliore grandi speranze: con malizia venata di malinconia, dà per certa solo la rigogliosa vitalità della fiction d’evasione.

 

E in questa fiction il mondo tramontato seguiterà a rivivere incessantemente. Ma in tante forme, a tanti livelli: perché, come si sa (ma si dimentica facilmente) in effetti la produzione di intrattenimento si sfrangia in infinite diramazioni, dozzinali a volte, dense di senso in altri casi; ne è un esempio tra i più originali il cinema di Lubitsch appunto, in cui l’apparente leggerezza inoffensiva delle battute sottende (con sottigliezza tale da essere spessissimo misconosciuta) una visione della realtà tra le più caustiche. Downton Abbey non raggiunge un’originalità paragonabile, e prende fino alla fine sul serio la seduzione del mondo che evoca e se stessa; ma, mediante le strategie ripercorse, mostra l’illusorietà di quel mondo e dichiara la propria impossibilità di resuscitare in pieno le narrazioni appassionanti di una volta: in modi contenuti, attenti a non disattendere le aspettative medie, ma di sicuro sufficienti a elevarla al di sopra dei prodotti medi standard.

 

Note

 

[1] Un altro nesso intertestuale è esaminato qui dal saggio di Claudia Cao contenuto in questo volume.

[2] Come è tipico delle opere di secondo grado (cfr. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997 [1982], e L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, Armando, Roma 2011 [2006]), la serie presuppone fruitori di tipo diverso, da quelli più naïf a quelli capaci di cogliere i riferimenti.

[3] Sul successo postmoderno del pastiche, cfr. F. Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007 [1991] (con nuova prefazione dell’autore), che però non considera la sua vasta tradizione precedente; per un quadro equilibrato sia della sua vitalità odierna sia delle sue stagioni anteriori, cfr. M. Fusillo, Estetica del pastiche e intermedialità: “Povera piccina”, in E. Abignente, F. Cattani, F. de Cristofaro, G. Maffei, U. M. Olivieri (a cura di), Chi ride ultimo. Parodia satira umorismi, “Between”, 6.12, 2016, pp. 1-18.

[4] Sull’ispirazione sostanzialmente reazionaria della serie, cfr. J de Groot, Downton Abbey: Nostalgia for an Idealised Past?, in “History Today”, 19 September 2011, https://www.historytoday.com/downton-abbey-nostalgia-idealised-past (ultimo accesso 20/01/2021); T. Stanley, False Memory Syndrome, in “History Today”, 63.1, 2013, https://www.historytoday.com/archive/contrarian/false-memory-syndrome (ultimo accesso 20/01/2021); J. Bowyer, Down on Downton: Why the Left Is Torching Downton Abbey, in “Forbes”, 14 February 2013, https://www.forbes.com/sites/jerrybowyer/2013/02/14/down-on-downton-why-the-left-is-torching-downton-abbey/?sh=1df596ce5177 (ultimo accesso 20/01/2021) (il più simpatizzante); K. Byrne, Adapting Heritage: Class and Conservatism in Downton Abbey, in “Rethinking History”, 18.3, 2014, pp. 311-327, e Edwardians on Screen. From Downton Abbey to Parade’s End, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2015; R. Baena, C. Byker, Dialects of Nostalgia: Downton Abbey and English Identity,  in “National Identities”, 17, 2015, pp. 259-269; N. Strehlau, “Why Is It Different from Before the War?”: The Portrayal of the Great War and Its Aftermath in Downton Abbey, in A. Branach-Kallas, N. Strehlau (eds), Re-Imagining the First World War: New Perspectives in Anglophone Literature and Culture, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne 2015, pp. 163-178; P. Polidoro, Serial Sacrifices: A Semiotic Analysis of Downton Abbey Ideology, in A. Bernardelli, E. Federici, G. Rossini (a cura di), Forme, strategie e mutazioni del racconto seriale, “Between”, 6.11, 2016, pp. 1-27; L. Kevers, Re-establishing Class Privilege: the Ideological Uses of Middle and Working-Class Female Characters in Downton Abbey, 26, 2017, pp. 221-234; H. Ridderstrøm, Class Concerns in a Heritage Setting: Viewers’ Responses to Downton Abbey on IMBD, in “Series. International Journal of TV Serial Narratives”, IV.2, 2018, pp. 91-102.

[5] Come è stato notato più volte: cfr. in particolare S.B. Palmer, An Heir Presumptive: Austen’s Legacy in Downton Abbey, in “Persuasions: The Jane Austen Journal”, 35, 2013, pp. 244-254 (che però enfatizza troppo le analogie, ad esempio accostando la simpatica Isobel Crawley alla detestabile Mrs. Norris di Mansfield Park).

[6] Cfr. O. Wilde, Il ventaglio di Lady Windermere, a cura di P. Amalfitano, Marsilio, Padova 2015 [1892], p. 183.

[7] Sulle tensioni tra società e individui inscenate negli heritage film, cfr. C. Monk, Heritage Film Audiences: Period Films and Contemporary Audiences in UK, Edinburgh University Press, Edinburgh 2011.

[8] La serie ne riprende una quantità di situazioni (la scomparsa di un personaggio nel naufragio del Titanic, la relazione clandestina tra un aristocratico e un domestico, la ribellione di una figlia politicizzata, le rivalità fra dipendenti) sempre ingentilendole e stemperandone il senso polemico; le due opere sono già paragonate da K. Byrne, Edwardians on Screen, cit. e R. Baena, C. Byker, op. cit..

[9] Le affinità e le differenze tra la serie e Gosford Park sono analizzate da J. Chapman, Downton Abbey: Reinventing the British Costume Drama, in J. Bignell, S. Lacey (eds), British Television Drama, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2014, pp. 131-142.

[10] Sul successo contemporaneo e sulle tante filiazioni dei romanzi della scrittrice, cfr. C. Harman, Jane’s Fame. How Jane Austen Conquered the World, Canongate, Edinburgh 2009, e D. Meneghelli, Jane Austen tra brand e desiderio, in L. Esposito, E. Piga, A. Ruggiero (a cura di), Tecnologie, immaginazione e forme del narrare, “Between”, 4.8, 2014, pp. 1-28.

[11] Sulle sue gemmazioni, cfr. il saggio di Raffaella Antinucci contenuto in questo volume; e inoltre J. Mattison, Downton Abbey: a Cultural Phenomenon, History for the Many, in “Literary Refractions”, 5.1, 2014, pp. 1-26, A. Schmidt, The Imaginative Power of Downton Abbey Fan Fiction, in J. Leggott, J.A. Taddeo, Upstairs and Downstairs. British Costume Drama Television from The Forsyte Saga to Downton Abbey, Rowman and Littlefield, Lanham, Boulder, New York and London 2015, pp. 223-234, e N.M. West, The Worlds of Downton Abbey, in “South Atlantic Review”, 80.3-4, 2015, pp. 215-233.

[12] Cfr. P. Brooks, Trame: intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino 1995 [1984].

[13] Si dichiara “esterrefatto” dal battesimo cattolico della nipotina, attirandosi la replica della moglie “Tu sei sempre esterrefatto da ciò che non è convenzionale” (3.6).

[14] Secondo K. Byrne (New Development in Heritage: The Recent Dark Side of Downton “Downer” Abbey, in J. Leggott, J.A. Taddeo (eds), op. cit., pp. 177-190), l’autorità del personaggio inizia a vacillare dalla terza serie; ma già dal principio non sembra granché efficace.

[15] Sul progressivo trascinamento di Matthew nell’orbita di Downton, si veda in particolare P. Polidoro, op. cit..

[16] Cfr. il saggio di Alessandra Marzola contenuto in questo volume.  

[17] Sulla caratterizzazione del personaggio e sulla sua sospensione tra aspirazioni convenzionali e anticonformiste, cfr. J.P. Nesbitt, The Absent Presence of Virginia Woolf: Queering Downton Abbey, in “The Journal of Popular Culture”, 49.2, 2016, pp. 250-270.

[18] Sulla sua logica implicita cfr. P. Polidoro, op. cit., e il saggio di Flora de Giovanni contenuto in questo volume.

[19] Sul ruolo dell’abitazione, cfr. anche il saggio di Aureliana Natale contenuto in questo volume.

[20] Sull’evoluzione del personaggio, cfr. K. Byrne, Edwardians on Screen, cit.; L. Brown, Homosexual Lives: Representation and Reinterpretation in Upstairs, Downstairs and Downton Abbey, in J. Leggott, J.A. Taddeo (eds), op. cit., pp. 263-273, che paragona la sua storia a quella molto più fosca di un valletto omosessuale di Upstairs, Downstairs (che restituisce in modo assai più verosimile l’atteggiamento sull’omosessualità dalla società dell’epoca, tradendo d’altra parte persistenti pregiudizi in merito); e J.P. Nesbitt, op. cit., che giudica la sua caratterizzazione volta sempre alla glorificazione della sessualità canonica.

[21] Cfr. naturalmente R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 2002 [1961].

[22] Già N.M. West (op. cit.), osserva giustamente che se la serie è esposta alle parodie, tende già a parodiare se stessa, in particolare attraverso la moltiplicazione dei decessi a sorpresa.

[23] La versione del doppiaggio attenua l’originale “You must say it properly, I won’t answer if you not kneel down and everything”, vera e propria secca sintesi del prontuario classico.

[24] Cfr. A. Schmidt, op. cit., pp. 228-229.

[25] Già K. Byrne (Adapting Heritage, cit.) segnala questo aspetto e l’ironia di stampo postmoderno che lo ispira.

[26] Sulla sua caratterizzazione e sul suo peso, cfr. anche il contributo di Lucia Esposito contenuto in questo volume.

[27] Cfr. S.B. Palmer, op. cit..

[28] Cfr. O. Wilde, L’importanza di far l’onesto, a cura di A. Bibbò, Feltrinelli, Milano 2019 [1895], pp. 57, 63, 199, 217, 219. Con un’impennata di funambolismo citazionistico, la serie tira direttamente in ballo il modello, giocando però a farlo disprezzare dal personaggio: quando, sentendola giudicare poco brillante la conversazione di Tom, Robert osserva “Non tutti possono essere Oscar Wilde”, Lady Violet ribatte “Che sollievo!” (4.3).

[29] Più asciutto e netto l’originale: “I believe in rules, traditions and playing our part, but there’s something else […] I believe in love”. Ricorrendo alle distinzioni di G. Genette, op. cit., p. 408, si può ritenere il passaggio da Lady Bracknell a Lady Violet un esempio di valorizzazione primaria, cioè di accentuazione dello spessore umano del modello scelto; ma la valorizzazione qui si traduce in banalizzazione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *