di Giordano Meacci

 

[E’ uscito nei giorni scorsi Cittadino Cane di Giordano Meacci, con cui la casa editrice Industria&Letteratura inaugura la collana di narrativa “L’invisibile”, diretta da Martino Baldi. Proponiamo l’incipit del libro].

 

«Un genio non è mai tale per i suoi contemporanei».
«Sì, se è un vero genio» disse Bacon.
«Orson Welles non ha dubbi in proposito».
Michael Chabon [trad. L. e M. Crepax]

 

Eccone una interessante:
Orson Welles ha ucciso la Dalia Nera.
James Ellroy [trad. A. Colitto]

 

«It’s alright to borrow from each other.
What We must never do is borrow from ourselves».
Jake Hannaford

 

È dovere, anzi è utile, che si dia credito agl’iracondi,
a’ potenti, e congiunti di sangue. Affetta l’umiltà,
il candor dell’animo, la liberalità, e la giovialità.
Loda, ringrazia, offerisciti pronto anche agl’immeritevoli.

Dall’Epilogo de’ Dogmi politici
Secondo i dettami rimastine dal Cardinal Mazzarino
Dal Latino nell’Italiano idioma
trasportati ultimamente

 

1. Come Carlo Cane si presentò alla prima ammissione della sua morte

 

C’è sempre un eccesso di pudore, nel mentire sulla propria vita; anche se lo facciamo tutti, quando ci raccontiamo. Io per primo. È difficile trovare il modo in cui pensarci, mentre viviamo, perché spesso ci fa fatica partire dall’inizio. Per esempio non mi sono mai chiesto che ora è stata quella della mia nascita: e chissà se faccio in tempo a rimediare.

 

Sono nato con in una mano uno scettro e nell’altra un castello costruito sulle rocce a cavaliere tra due monti. Solo. Lo scettro era un bastoncino di legno scheggiato e scortecciato da mio padre Lorenzo – o i’ Rrenzo, come gli dicevan tutti, si sa – con in cima (proprio in cima, il pizzo arrotondato e bianco a segnare il ricordo del frassino ch’era 10 stato) un gioiellino di plastica che mio padre aveva trovato, negli anni Cinquanta della sua giovinezza prodigiosa, nelle patatine PAI, le prime con la sorpresa in busta: “dal nord, dal nord”, diceva mio padre i’ Rrenzo, “fìdati solo del nord”, ripeteva – e io lo ascoltavo, si sa – e il gioiellino era un piccolo diamante che mio padre s’è tenuto per quindici anni, fino ai ventisette in cui sono nato io: e m’ha fatto lo scettro, un po’ frassino un po’ plastica; e questo senza contare il castello dentro la bolla con la neve finta che m’ha lasciato mia madre. Il nord avrebbe dovuto avere qualcosa a che spartire con la neve, probabilmente: non la neve delle parti nostre, dico, a chiazze di bosco e guazza di lago: intendo la neve neve, quella che dal nord che gridava mio padre è finita a cotonarsi dentro la bolla di vetro di mia madre, più o meno: il làscito con cui sono nato: la bolla di vetro nella mano sinistra; che poi, a dar retta ai segni, è quella del diavolo: pure se io non sono mancino. Certo, forse ambidestro, da bambino, ma poi ci ha pensato suor Maria Elena – che in realtà si chiamava Tiziana: lo stesso nome del babbo di mio padre: solo al femminile, è 11 chiaro – a legarmi la sinistra per farmi imparare bene. Ché all’inizio degli anni Settanta si faceva così, nelle famiglie che mandavano i figli all’asilo dalle suore: e io ci andavo, si sa. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, dico.

 

Ma queste son tutte cose che ti s’affollano nella testa quando ti hanno detto da due ore che morirai entro sei mesi, mi sa. La boccia di vetro di tua madre che ti scoppia tra le mani senza ferirti; o più semplicemente cade sul pavimento e si sparpaglia, ogni brillìo sul vetro un giorno della tua vita che non esisterà più. E poi solo la polvere e la terra, e i frammenti opachi che giorni lo sono stati, magari, ma che ora sono solo quello che resta di una manciata di neve finta e vetro.

 

Sei mesi un anno, ha detto il dottore. E io gli ho detto facciamo anche due: e ho riso. Ma il dottore non rideva. Ci può essere stato uno sbaglio, ho chiesto io. E lui: è la seconda volta che rifacciamo, nessuno sbaglio, mi dispiace. E mi ha guardato come se si aspettasse qualcosa di diverso da me. Ma io gli ho 12 detto che sono ottimista, si sa. E alla fine gli ho dato la mano e ho sorriso: è stato più forte di me. «Se vuoi che gli altri ti ascoltino», diceva mio padre, «sorridi sempre. Parecchi non si ricorderanno quello che gli dicevi. Ma che sorridevi, sì».
«E che ciài, una paresi?!» e’ mi gridò Giuseppe; Pippo: vìa, gli dicevamo tutti, a Giuseppe, il mi’ compagno di banco alle medie; e al ginnasio. Lui rise tanto: ma tanto. E anche gli altri. Tutti. Eravamo a scuola dai preti, tutti; tutti maschi, a Rignago Barabba, dov’è nato mio padre Lorenzo: io no: non ci sono proprio proprio nato; ma ci ho vissuto.
Io risi con loro, perché non volevo dare soddisfazione a nessuno. A nessuno, mai, come mia madre; che si chiamava Laura, come mia moglie, anche se non l’ho ancora detto: che si chiamava Laura; e che è morta che avevo dieci anni. (Mia madre, non mia moglie). Insomma eravamo a scuola al Classico «Umberto Sora», che poi era il prete di Rignago che l’aveva fondato, nel 1853, dice. Putacaso l’anno che hanno inventato le patatine in busta. Chissà se mio padre mi ci aveva iscritto anche per questo. Comunque: io risi 13 con loro, per quello che aveva detto Giuseppe Pippo Celoni, il mio compagno di banco, perché secondo lui sorridevo troppo. «Si capisce ch’è falso. Lo dico per te». Manco avesse lui una verità rivelata da tirarsi fuori come un coniglio dal buco del culo.
Ma io me ne sono ricordato, poi. Quando lo licenziarono dall’azienda del suocero – ché poi non è che mi sono esposto io, lo chiesi e basta – mi sa che non ha riso. Per parecchio non ha proprio riso più, lo so per certo.

 

[Immagine: Herbert Matter, Eli Lotar III, 1965].

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