di Andrea Cortellessa

 

[Una versione più breve di questo articolo è apparsa su «Tuttolibri»].

 

«La poesia non s’impone più, si espone»: nessuna frase come questa di Paul Celan sintetizza le antinomie del suo secolo. Rileggere Cosimo Ortesta, il maggior poeta della sua generazione (nato a Taranto nel ’39, poi vissuto tra Roma e Milano), nell’edizione esemplare – per nitore grafico non meno che per accuratezza filologica – fornita da Vito Bonito e dai giovani Jacopo Galavotti e Giacomo Morbiato (già autori l’anno scorso di un eccellente studio preparatorio per Padova University Press, Una sola digressione ininterrotta), ci fa interrogare una volta di più sul senso di questo esporsi. Oggi che siamo tuffati nel suo antipode perfetto, Pasolini: il quale s’imponeva, eccome, eppure mai ha cessato di esporsi a sua volta. Ma in senso opposto al suo.

 

Tanto PPP ha esibito sulla scena pubblica il proprio corpo non meno delle sue strong opinions corsare e luterane, sino al più raccapricciante dei sacrifici consumato sotto tutti i riflettori, quanto Ortesta ha serbato nella più gelosa reclusiveness una vita minuziosamente privata (in tutti i sensi); e s’è spento, due anni e mezzo fa, all’insaputa di tutti. Tanto l’altro si espandeva in esperimenti, combattimenti e abiure clamorose, quanto Ortesta (all’esordio giusto l’anno della morte di Pasolini, 1975, presentato su «Carte Segrete» da Jacqueline Risset) ha centellinato i suoi versi in un silenzio rituale, alternandoli a non meno cesellate versioni (dai phares per antonomasia Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé), per decenni scalpellando le proprie stesse parole con la medesima acribia con la quale cavava da maestri anche più prossimi (come Rosselli, Giudici e Bertolucci) i frammenti cui s’è puntellato per una vita: asserragliato in sé stesso come nella conchiglia di Rembrandt splendidamente effigiata in copertina (una menzione la merita il progetto grafico di Susanna Doccioli). Una trapunta di citazioni, un’interiorizzazione quasi medianica che con la mediazione della parola altrui – ha spiegato a suo tempo Bonito – attinge a piani dell’io segreti allo stesso autore.

 

È quanto accade per esempio nella mirabile suite Il margine dei fossili (nella Nera costanza, 1985), nella quale la memoria è ridotta ad «anteriorità geologica»: «un alfabeto sfigurato, cavo, menomato» (è sempre Bonito a parlare) certo memore del precedente di Zanzotto (omaggiato in due inediti che si leggono nella preziosa appendice del volume: il secondo presentato qui – come pure un secondo omaggio ad Amelia Rosselli, dopo quello edito nella Nera costanza – in una peritosa trascrizione che lascia diversi margini al dubbio), ma invertendone di segno l’esplosivo proliferare metonimico in un’elisione implosa, centripeta sin quasi all’afonia. Galavotti e Morbiato ricordano, di Zanzotto, l’antinomia a chiasmo fra l’iper-fisicità del «polo Artaud» e l’iper-astrazione del «polo Mallarmé»: perché se è questo il maestro sul quale Ortesta più è tornato come traduttore (a suo dire, «il più grande interprete della modernità»), dall’altro ha tratto i suoi più saldi convincimenti di poetica (come l’immagine di chi «avanza su una corda tesa / a rischio della vita / in un tripudio di ninfee», derivata – ha ben visto Morbiato – da una considerazione su di lui dello psichiatra Eduard Toulouse). È come se il tessuto pregiatissimo dell’uno, filato con lo stoicismo del «verme setajuolo» di barocca memoria, avvolgesse senza fine il corpo piagato dell’altro: dizione infallibile di una tortura che l’artefice infligge a sé stesso scrivendosi, appunto, come nella Colonia penale di Kafka («lasciarsi attraversare dalla scrittura che nasce dalle proprie viscere e dal proprio cervello»): una “macchina”, non solo verbale, che corrisponde al «progetto» architettonico, in senso lato, del titolo più noto di Ortesta che resta anche il suo capolavoro: Nel progetto di un freddo perenne (unico libro uscito da una major, la “bianca” Einaudi, nell’89).

 

È quella che Ortesta ha chiamato, nell’«inevitabile titolo» del suo primo testo (incluso nella raccolta d’esordio, la vulnerante Il bagno degli occhi del 1980) come dell’ultimo (la bellissima autoantologia pubblicata con Donzelli nel 2006, che con quanto detto è però un libro nuovo: bene hanno fatto i curatori, quindi, a riprodurlo a sua volta), La passione della biografia. Dove opera e vita coincidono in una «vitascrittura» condotta sempre «con il peso del corpo»: in una passione non meno sacrificale di quella cristomimetica di Pasolini, ma nel suo caso esposta solo nei brandelli di un corpus «senza organi», l’unico che venga mostrato al nostro sguardo. Il tema svolto con «nera costanza», dall’inizio alla fine, è uno e «inevitabile»: quello di una morte che non è solo la propria (è biografia, la sua, non autobiografia), bensì il segno che attende tutti noi. E che in un paio di interviste insolitamente esplicite Ortesta chiama la poesia a «dilazionare», nel «prefigurarlo […] come uno scongiuro».

 

L’apertura eidetica e sintattica, la «luce di crepuscolo» (Morbiato) dell’ultima raccolta, Serraglio primaverile, è allora tutt’altro che consolante: perché consapevole d’un esaurimento effettivo, al quale invero biologicamente a quell’altezza mancavano ancora vent’anni, ma che spiritualmente già si vedeva sovrapposto all’esorcismo degli esordi (una sovrimpressione non così diversa, allora, da quella sperimentata da Zanzotto, proprio, alla fine del suo percorso). Gli estremi avatar di Proust, e del «tardo» per eccellenza Rembrandt, sono testimoni di questa «vita silenziosa delle cose / che lo guardano morire». Proprio il Proust del poemetto ispirato alle memorie della governante Céleste Albaret, rinchiuso nella camera di sughero dei lancinanti ricordi materni e inalveato nella propria opera inevitabile, torna in clausola a significare chi «da molto tempo ormai ha cessato di vivere», ma che solo alla fine si rende conto che sta «dimenticando ogni giorno qualcosa della propria lingua / finché rimane muto» (e chissà non abbia ragione Morbiato, a divinare la chiave del nostro “caso” in un certo saggio di André Green che reca in esergo parole giusto di Proust: quando l’«io […] pensa d’improvviso a sé medesimo, esso trova solamente un apparato vuoto, qualcosa che non conosce, al quale, per conferire un po’ di realtà, aggiunge il ricordo di un volto scorto nello specchio»). Così recita una delle ultime «poesie ritrovate»: «La vista improvvisamente accecata / la fa ammutolire – piano e delicatamente / anche le parole si sottraggono lasciando lo spazio / oscillare nella mente e tutt’intorno ai fianchi».

 

Se non ci sentissimo in dovere di farne dono a chi ci legge, a lasciarci senza parole sarebbe riprendere in mano con un brivido, oggi, il poeta più puro e segreto, il più inevitabile del suo tempo.

 

Cosimo Ortesta, Tutte le poesie, a cura di Jacopo Galavotti, Giacomo Morbiato e Vito M. Bonito, Argolibri, 2022, 351 pp., € 18

 

 

Parola stessa

 

Cominciata nell’orizzonte dove crolli

mi dai di mano (sì, che me lo dici)

bella a me gridando se conosci

il lungo pelo e il bosco

che s’inarca

 

paziente trasudi qui son

io perché non scrivi e giri

intorno un quarto di parola

parola stessa d’ago e storia

entrata sveglia

nei colpi sul femore battuti

 

ti sbarri gli occhi e il respiro

nei tiepidi scongiuri

alla porta chiusi con fendenti

e sveli l’alluce posato sulla foglia

la forchetta a te imboccata

la carezza stoccata sulla nuca

 

da Il bagno degli occhi, 1980 (poi anche in Una piega meraviglia, 1999)

 

 

Protezione notturna

 

La neve in pudore superbo

sfiorando

              – anche nel sonno –

un corpo di resina e latte

nei solchi oltre il suo braccio

poi inquieta l’indocile figlio

respinge

 

In un volo basso precedendomi d’insonnia

va girando colei al terzo giorno perso

con un tocco sciupa le tovaglie disfa foglie

strappa bronchi scarmigliati e vecchi

o vermigli a stizzose ginocchia profumando

il suo piede nell’acqua ma il riflesso

varia con l’angolazione della luce.

Non sempre la notte le spaventa

le sue chiare dipinte pastorelle

in questo albergo non di uomini dove urla

un duro appello l’infinita agevolezza del morire.

 

 

Narciso

 

Sta sempre a ridosso fra tutti

i richiami le ossa le finte,

in riposo sul fianco, nel fiato

 

l’annega una palpebra chiara

o cima puntuta

o arcuata del lago credendo

 

il battere lieve e le mani

nell’andirivieni lontano

da tutte le piste ingoiato.

 

Qui sbiàncati pantano! la culla

inumidisci appiattita a fior d’acqua

con tanti suoi tremori, o tanti alti infanti

 

e mòzzali tu con rossi pudori

e poi in mezzo a loro li seduci

 

 

a Amelia Rosselli

 

L’intenso paragone senza peso e senza fiamma

fu lui a farmi d’ogni vece un’unica calma

da fragile sorella dura e grande

dalle allungate gambe agli occhi di panna

nel franco viso dove i lumi caddero insinuando

: non mi toccare! Ma caddero al buio caldo

e un nido si rifocillò da lunga fame

e dopo della fame un bisbiglio acre

fu per le sue braccia

e dopo della noia attorno attorno devastando

i suoi versi scrisse l’amante

 

da La nera costanza, 1985 (l’ultimo testo poi anche in Una piega meraviglia, 1999, e in La passione della biografia, 2006)

 

 

Le devo dare cibo e riposo

di anno in anno sprofondando

qui dove dormo ancora e imputridisco

cotto da un’aria che mai si è fatta quieta

 

di stanza in stanza mi rincorre

di anno in anno sempre più addosso

in me scambia un poco del suo corpo

eppure da lei mi salvo ancora quando dormo.

 

 

Ma se lei perdesse la testa e scoppiando

in un oceano di piume a due a due

un altro io un altro tu a dirsi addio

ancora forti ma sempre più inesperti

ritornando all’addio ci sarebbe la voce

nel centro della paura

 

 

Ne ha pieno il sangue e il cervello s’inventa

parole, accarezza o respinge continenti –

tutto il percorso lento

una sola digressione ininterrotta

finalmente inspiegata non da spiegarsi

di nomi e rumori pungente

fatta di anni finalmente, di figli che si persero.

Adesso tutto le va bene

anche prendere sonno come in quelle notti

quando aveva già l’occhio tutto in ombra

che morso dal gelo a casa la trascina viva.

 

 

Restare in posa è più forte di lei

fa fatica a pensare che non sarà

così per sempre

– il fondo del suo letto o come

nel fondo del suo letto quelle membra

e la testa più non vede più non ha bisogno

di vedersi –. Un luogo l’attira oscuramente

a poco a poco tra due muri e gli altri

tutt’intorno o come per incanto fuori

alzando gli occhi verso lei

che a testa bassa un altro ne vede

ma come appiattito un inizio di volo

che tiene compagnia prima di spezzarsi

giusto il tempo che si afferri in un’altra direzione

 

e come lentamente più non si protegge

assai diversamente di nuovo ha bisogno.

Non si muove se vede la sua luce

sempre accesa sotto i colpi della pioggia

lei attenta a come pulsa la sua gola

con il ventre internata e tutto il resto

per non vedersi prima che faccia notte

e tutt’intorno gli altri non visti che vedono

– ma come, come aver bisogno? –

con la speranza di non rivederla più.

 

 

Trasfòrmati in parole:

senza più compagnia di fiati e di viole

facendo posto alla tua vita

la mia più niente ha a che fare

con gli anni

se correndo intorno a un solo nome

è sempre di te e di me che si tratta

e sempre le stesse le armi

potenti di lutto e afflizione

che pure nei sogni a rovina

inseguono la mia levigatezza.

Ti vedo suoi tuoi passi tornare ancora

più sottili le braccia già esitanti le gambe

nel tempo lentissimo della paura.

 

da Nel progetto di un freddo perenne, 1989 (il quarto testo anche in Una piega meraviglia, 1999; il primo, il secondo, il quarto e il quinto anche in La passione della biografia, 2006)

 

 

Il sudiciume i precisi colpi di pettine

sulla frangia dei capelli bianchi.

Dov’è la bellezza?

A meno che non sia la bellezza

in ogni luogo e qui nelle gemme dell’orto

in questo viso di vecchia asmatica.

Puoi vederla

la pesante frangia dei capelli riflessa

nello specchio tra le foglie degli alberi pazienti

 

e non sa che il declino, la bianca terra

abitata da orde sconosciute

si apre a tutto il biancore perduto.

 

 

Avanza su una corda tesa

a rischio della vita

in un tripudio di ninfee

come lenta è la luna

sopra il fetore

sopra il foglio imbrattato

finalmente nel gioco. E lui sapeva

che si spezza ogni trama, come più non c’è pace

come un topo una rosa una stella

si sfregia e scompare.

 

 

Stella

 

Giusta e desiderata invecchiando

altra speranza non c’è

se non proprio questa che muore

e viene sepolta

nel battito minaccioso del cuore

nel flusso mutevole del sangue

nel riverbero nell’improvvisa inclinazione

dello spazio che annega tranquillamente

senza badare alla terra e alle sue forme.

 

Stella su stella fino alla stella del mattino

illumina questa nudità che parla

libera e fredda incrostata d’oro

e di sapori densi nel buio pungente

tutt’intorno ombra su ombra

immagine e non persona. Immagine

di persona umanamente desiderata ma non amata.

 

da Serraglio primaverile, 1999 (l’ultimo testo anche in Una piega meraviglia, 1999; il primo, con varianti, e l’ultimo anche in La passione della biografia, 2006)

 

 

Dimenticava ogni giorno qualcosa della propria lingua

finché rimase muto.

 

da La passione della biografia, 2006

 

 

Pasqua 1975

 

ad Andrea Zanzotto

 

Smossa sulle braccia

spingi polline aria

fera pasqua

 

        A salti deessa

porti pane alla bocca

sonno nei capelli di tiepolo

 

tutta notte tocco sedie

arrivando a questa testa

                                       fatta

 

Guscio tenero rotto con le nocche

giorno mentre intorno tesse sonno

con le braccia che comincia

 

Porto pane alla bocca

asciugando corpo chiuso

 

da La passione della biografia, in «Quaderni della Fenice», 1977

 

Per una ferita che non sanguina più

sopravvive il frutto velenoso.

 

da «Galleria», 2000

 

La vista improvvisamente accecata

la fa ammutolire – piano e delicatamente anche

le parole si sottraggono lasciando lo spazio oscillare

nella mente e tutt’intorno ai fianchi, alle braccia

per ricomporsi sempre in un solo punto

nella stessa luce del giorno in cui lei se n’era andata

la calma ardente di quando la tenebra discese

e l’aria non era ancora primaverile

 

da «Poeti e poesia», 2008

 

 

Ad A. Rosselli

 

gelose querimonie

severe radiali

occhi del tuo viso

e voce da un altro canto

festosa non tua (e tue) involgente

filtrata monodia

filtrose monodie e malattie

atterrita congiura

piani silenzi e suon di man con elle

e fai posto al resto che fai

Il resto che fai, punto e corona

sbocchi e placate impudiche emottisi

intra diabolos

in musica

 

 

Ad A. Zanzotto

 

Nel corpolento vichiano non mi do pace

perfettissimo quieto in progress

(a) petto della mente pura

perfettissima neve (tutelare)

La nostra biodicea (procede) se procede

(e tu ne parli)

per cunicoli scatti arresti:

(il) nodo del linguaggio

perfettissimo corpolento ma neve –

e l’abbaglio

: Scrivere senza tremore

Eraclito….

e l’altro a trentadue anni

nelle campagne di

Bordeaux.

 

trascrizioni da manoscritti riprodotti fotograficamente «da un quaderno databile al 1976» (Jacopo Galavotti)

 

 

 

1 thought on “Sulla corda tesa (per Cosimo Ortesta ritrovato)

  1. La poesia di Ortesta potrebbe certamente interessare le nuovissime generazioni, visto che tecnicamente “espone” un dettato amorfo, rielaborabile a piacere in versi da gestire come mattoncini autonomi; potrebbe interessare anche i giovani specialisti alla postura autoriale privata e focalizzata sui versi, dunque tendenzialmente originale, invece che pubblica nel discorso culturale fra millemila altri discorsi tutto sommato indistinguibili. Quanto poi le dieci migliori poesie di Ortesta reggano un confronto diretto con le dieci migliori poesie di altri della sua generazione, per un pubblico fondalmente eterogeneo quale dovrebbe essere quello di ancora si accosta a questi modi e per i piu’ imprevedibili motivi, riusciremo magari a prevederlo quando anche la pubblicistica alta ma divulgativa si dedichera’ all’analisi dei testi invece che ai discorsi o ai cappelli, con alcuni testi rilasciati in fondo come una coda aliena, una appendice auto-evidente o peggio un orpello vitalista da evitare perche’ agonista e non mediabile.

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