di Massimo Gezzi

 

[Esce oggi per Marcos y Marcos, nella collana degli Alianti, Sempre mondo, il nuovo libro di poesia di Massimo Gezzi. Pubblichiamo in anteprima sei testi tratti dalle quattro sezioni].

 

da I. Un’educazione sentimentale

 

Accordo al vostro il mio respiro,

mentre fuori ricominciano

i canti degli uccelli che si chiamano

a vicenda, domandandosi

se ancora un altro giorno sia concesso.

Anch’io vi sussurro con il fiato

della notte, intreccio la mia ansia

alla vostra presenza e sono certo,

un’altra volta, di esistere ancora.

 

 

La paura

 

“Vinciamo un’altra volta la paura?”,

mi chiede Caterina

dopo essersi sfilata la ciambella.

“Vinciamola!”, prometto, e insieme la lanciamo

verso rocce e fichi d’india

in modo che si punga, si faccia male,

non si azzardi a riprovarci.

“E adesso vinciamo anche la tua?

Qual è la tua paura?”

Rimango sospeso con il braccio

a mezz’aria, vorrei poterle dire

che è quella della resa,

di non essere abbastanza,

di aver dimenticato le istruzioni

per vivere una vita non ignobile,

per insegnarla a lei.

Attende con gli occhi sgranati e allora dico:

“La paura di perdermi, di non trovare più

la strada di casa, dove tu mi aspetti”

(è lo stesso o è l’opposto

di ciò che non ho detto?).

“Ma va’, la troverai tutte le sere!”,

risponde sorridendo,

e allora con slanci da discobolo

scaraventiamo in aria questo spettro

che frana sulle rocce e sulle spine.

Lei ride, ride forte, e a sua insaputa

l’altra continua a pungermi, a scavare.

 

 

Scuola a distanza

 

I.

 

Certo, parliamo di Boccaccio:

qualcuno se la ride, i non-oscuri,

quando sente Ciappelletto spergiurare

sulla sua verginità – però non è la lontananza

il vuoto più penoso di questa scuola,

di questi giorni: il male immedicabile

è che parlandoci così, da lucina

a lucina, da schermo a videocamera,

è impossibile guardarsi negli occhi.

 

[…]

 

da II. Cronaca nera

 

Lame, fiamme ossidriche, accenti

di operai che lavorano su un tetto:

il lavoro si ripete, immutabile,

da decenni. Da secoli, vorrai dire,

perché da sempre le loro voci

hanno parlato, là fuori, mentre il sole

il ghiaccio l’aria fredda li sferzavano.

Caricano il camion, adesso,

lo riempiono degli scarti della nostra

– si fa per dire – civiltà. Uno canta,

due parlano di un altro che sta male

e se non passa questo schifo forse

non ce la farà.

 

da III. Quattro lettere di Paul Signac a Émil Verhaeren

 

E poi ci sono i giorni di lutto,

caro Emile. Quelli in cui il colore

tremolante dell’acqua stinge in nero.

I cannoni delle navi,

le nuvole di fumo che lasciano

sul mare… L’orrore

quotidiano, tutto qui, che smaschera

ogni giorno il nostro sogno

di armonia e di vita vera,

come quando tu fumavi nel salotto

raccontandomi del libro o dicendo

“Assaggia questo vino, amico mio:

sa di eterno”. Perché ci siamo illusi,

Verhaeren? Quale storia credevamo

di vivere se adesso la storia

è questa marcia infernale di macchine

e delirio? Se basta qualche anno per mutare

i ponti di Saint-Cloud in macerie

di carbone, le grida d’amore

in lamenti di morte?

 

da IV. Basta il tempo

 

Ondina in quattro foto

 

I

Qui macerie, ferri torti: lo chalet vicino al mare,

le erbacce che tormentano la sabbia.

Tu immagini la ruspa, il bulldozer che spacca

le colonne incrostate. E dopo pulizie, nuove travi

che si agganciano a un pilastro,

e dal silenzio di cosa i primi vetri, la corrente,

il fusto della birra e poi la voce

di lui (si chiama Fausto, il gestore? Ferruccio?)

che esclama “A Ondina e a tutti noi!”,

mentre il mare ingrigisce e improvvisa

una cadenza. Quello è proprio lui,

prima di ridere e stappare.

 

II.

Sempre lui, alla batteria: baffi neri e folti,

i capelli che gli scendono

lunghi sulla schiena, mentre suona

un pezzo rock (Deep Purple,

Rolling Stones?). Tutto è stato avviato

e dice gloria: la cameriera serve i piatti

agli avventori, lui piazza gli ombrelloni,

dà il moscone, organizza qualche evento

di nessuna importanza. Si gode l’unico tempo

che gli è dato, sprizza gioia.

 

III.

Qui un lato del bancone,

secondo vertice di una figura

che non si vede ma spalanca

un silenzio di decenni, tra i colpi di rullante

e questi gesti: una figlia, altre persone

che non c’entrano, con Fausto?

Era lui, quello che ha eretto questi muri?

Era Fausto il suo nome?

 

Il mare sbiadisce nella luce del mattino

e dice ancora una parola che nessuno

sa comprendere. Colpi di piatti, di bicchieri.

 

 

 

 

[Immagine: Clarissa Bonet, City Space].

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