di Andrea Sartori
[Anticipiamo un estratto dell’articolo “Poesia della crisi. Lord Chandos e Amelia Rosselli”, di prossima pubblicazione per la rivista “Italian Poetry Review. Plurilingual Journal of Creativity and Criticism”, diretta da Paolo Valesio]
Se Lord Chandos non può che tacere perché si colloca a una distanza zero delle cose, al punto da non capire bene che cosa è reale, Amelia Rosselli (1930-1996), che avverte in sé un vuoto simile a quello esperito dalla persona inventata da Hofmannsthal, deve invece scrivere, adottando una poetica inevitabilmente dell’obliquità, perlomeno fino a quando le è concesso di farlo (il poemetto Impromptu, nato una mattina del dicembre 1979, è seguito da un doloroso silenzio che dura sino alla fine).
La peculiarità della poesia di Rosselli, nata l’anno dopo la morte di Hofmannsthal, deriva probabilmente dalla violenza dell’esposizione della poetessa al contenuto percettivo del mondo e al vuoto della perdita scavato nel suo sentire. È noto come per lei questo accada anche in conseguenza delle persecuzioni, dei lutti e delle catastrofi del secondo conflitto mondiale, ovvero d’un conflitto che scaturisce da quello che lo precede e da ciò che esso aveva lasciato irrisolto.
Tali aspetti conferiscono al linguaggio di Rosselli un vero e proprio tratto bellico (evidente in Variazioni belliche, 1964) nel quale sembrano confluire la lotta ‘titanica’ (pressoché disumana) per dire io e quella per dire realtà, ovvero le due ‘vittime’ principali, come abbiamo visto, della Krisis d’inizio Novecento – ‘vittime’ che Lord Chandos col suo silenzio aveva rinunciato del tutto a salvare. Il materiale relativo alla terapia psicanalitica intrapresa da Rosselli all’inizio degli anni Cinquanta sotto la guida junghiana di Ernst Bernhard, ad esempio, mostra come la poetessa dovesse preliminarmente affrontare «la mancanza di un vero contatto con la realtà», il cui correlato era la «scissione quasi totale», se non la «disintegrazione», del suo stato d’animo[1]. Entrambe, scissione e disintegrazione, imponevano una terapia volta a «riconquistare un’integrità nella percezione del reale»[2], ovvero quel tipo di percezione funzionale e non persecutoria che anche Lord Chandos, ipnotizzato dalla pelle del suo mignolo, aveva perduto. Le due ‘fantasie’ e il mandala della fine del 1952, curati per un numero del 2007 di «Allegoria» da Chiara Carpita insieme all’altro materiale relativo alla terapia con Bernhard, sono già un tentativo di rielaborazione artistica sotto il segno della psicanalisi junghiana e d’una spiritualità non confessionale. D’altra parte, Bernhard raccomandava a Rosselli proprio lo studio degli archetipi junghiani e degli oracoli dell’I-Ching, tracce dei quali sono presenti nei testi coevi o di poco successivi di Rosselli, ad esempio in quelli raccolti nei Primi scritti, per arrivare sino alle Variazioni belliche (si vedano i vv. 2-3 del nono componimento, Ma se la morte vinceva…, che recitano: «La scienza dei / numeri era la mia fortitudine»)[3].
Da questo punto di vista, scrivere sembra essere necessario alla sopravvivenza, e la poesia pare identificarsi con una lotta che s’ingaggia nella crisi. D’altra parte, non è possibile ridurre il gesto rosselliano alla presunta libertà e spontaneità assoluta del suo stile, né è lecito isolare i traumi da lei subiti per affermare un rapporto di tipo meramente deterministico, e quindi necessario, tra inconscio psicoanalitico (o patologia mentale) e scrittura. Nella scrittura di Rosselli, infatti, né l’io né la realtà sono già dati, l’uno con la sua libera spontaneità, l’altra con il suo ‘attrito’ o con la sua opacità: entrambi sono in certa misura da puntellare o da ricostruire, per quanto in maniera allucinata (e quindi con un linguaggio talvolta espressionista), data l’insensatezza, commenta Guido Mazzoni, «del mondo che tutti possono vedere, e dove tutti sono costretti a vivere»[4].
Insensatezza, allucinazione, deformazione espressionista della parola: vediamo a questo proposito la poesia Cos’ha il mio cuore… , contenuta in Poesie (1959), la prima parte di Variazioni belliche. Questo componimento è oggetto d’un riflessivo e particolareggiato autocommento nel Glossarietto del 1962[5] e porta forse all’estremo il tentativo – decisamente ossimorico – di ricostruire una qualche forma d’integrità tramite la torsione delle parole e la frantumazione, sul piano sonoro, dei singoli termini (stil novi, provenzalismi, spagnolismi, latinismi amorosi). In questo modo, ha sottolineato Maria Borio[6], potrebbe addirittura essere lecito sostenere che Rosselli fa cadere il dualismo tra parola e rumore, come succede nella musica sperimentale di John Cage, Luciano Berio e Bruno Maderna, in cui a essere destrutturato è il suono:
Cos’ha il mio cuore che batte sì soavemente
ed egli fa disperato, ei
più duri sondaggi? tu Quelle
scolanze che vi imprissi pr’ia ch’eo
si turmintussi sì
fieramente, tutti gli sono dispariti! O sei muiei
conigli correnti peri nervu ei per
brimosi canali dei la mia linfa (o vita!)
non stoppano, allora sì, c’io, my
iavvicyno allae mortae! In tutta schiellezze mia anima
tu ponigli rimedio, t’imbraccio, tu, –
trova queia Parola Soave, tu ritorna
alla compresa favella che fa sì che l’amore resta.
Dopo i vv.1-3, in cui è riconoscibile un cuore che batte soave e che al tempo stesso (in maniera contraddittoria) è disperato, diventano del tutto incerti e ardui da afferrare i significati di «scolanze», «imprissi», «turmintussi», «brimosi», «schiellezze». «Brimosi» del v. 8, ad esempio, è riferito a «canali», e sembra evocare un plesso ibrido di significati come «brinati», «bramosi», forse anche «brumosi», rispetto ai quali non è dato scegliere in modo sicuro, né stabilire alcuna gerarchia, il che consegna quel termine a un crocevia contraddittorio, tra plurivocità (o eccesso di significato) e assenza di significato. In maniera analoga, ai vv. 9-10, «sì, c’io, my / iavvicyno» s’inserisce nella trama puramente fonica del testo, tramite il pastiche delle lingue che lo compongono per contrasto (l’inglese di «my» e l’italiano parzialmente riconoscibile di «iavvicyno»). Come sostiene Daniela La Penna, questa poetica «nella dissonanza riconosce la sua melodia»,[7] come se la dissonanza stessa, tramite null’altro che la poesia, fosse incaricata d’arginare la propria spinta disgregatrice. Tale effetto di dissonanza ritorna in conclusione del componimento, i cui ultimi due versi – «trova queia Parola Soave, tu ritorna / alla compresa favella che fa sì che l’amore resta» – introducono inaspettatamente un Assoluto, ovvero la «Parola Soave» con le iniziali maiuscole, che pone fine al calvario del senso dispiegato dal v. 4 al v. 11. In realtà, la comparsa della «Parola Soave» non è del tutto inaspettata («tu ritorna /alla compresa favella», vv. 12-13), poiché essa si ricollega al «mio cuore che batte sì soavemente» del v. 1, tramite la mutazione dell’avverbio «soavemente» nell’aggettivo che gli corrisponde, riferito questa volta alla «Parola» e non al «cuore». Tuttavia, è solo ora, in conclusione del componimento, che tra il linguaggio e le emozioni («Parola» e «cuore») si stabilisce una saldatura che rende il linguaggio davvero comprensibile («compresa favella», v. 13), al punto da far sì che l’«amore» resti, permanga, non si disgreghi di nuovo («fa sì che l’amore resta», v. 13). Condizione del darsi d’una parola trasparente e assoluta, capace di trattenere finalmente l’amore, è pertanto il darsi d’un percorso di dubbio e disperazione, ovvero della frantumazione del senso nei versi centrali della poesia. La «compresa favella» capace di superare la follia, non accade nonostante la disintegrazione, essa si sviluppa nell’attraversamento della disintegrazione. Quest’ultima prevede anche la lacerazione della materia fonica di cui è fatta la parola, ovvero il frantumarsi della cosa-parola, che è tutt’uno con il percepire una realtà incomprensibile, una realtà che fa battere, per qualche oscura ragione, il cuore («Cos’ha il mio cuore…?», v. 1).
L’ ‘insensatezza’ di cui parte dei versi di Cos’ha il mio cuore…, con il loro sperimentalismo a oltranza, sembrano essere lo specchio e insieme l’argine, è quella che s’è sviluppata nel solco della crisi – cioè della frammentazione, della dissociazione – che la Grande Guerra ha reso visibile a tutti, e che la seconda guerra, patita da Rosselli in giovane età, ha aggravato, suggerendo la necessità di una riconfigurazione dei punti di riferimento che (le) rendessero comprensibile, dicibile e sopportabile la realtà.
A proposito della poesia di difficile, se non impossibile, classificazione di Rosselli – inclusa quindi quella riportata sopra – Andrea Zanzotto scrive: «Nessuna ‘volontà’ di sperimentalismo, perché lo stesso respirare-sopravvivere della persona, del soma da cui viene questo dire è un ininterrotto, aspro tentativo, è sperimentazione»[8]. Subito dopo egli però puntualizza: «Eppure in tanta presa di buio fisico e corporeo c’è un massimo di coscienza, tanto più lucida, esaustiva, avanzante, quanto meno capace di estrinsecarsi in distensive volute di giustificazione»[9]. Tra volontà di scrittura – ‘sghemba’, con elementi ibridi – e bisogno elementare di sopravvivenza, non c’è una chiara gerarchia. Sperimentare, in poesia, non significa per la poetessa fornire delle giustificazioni al proprio scrivere; sperimentare significa, invece, «sopravvivere» come corpo e averne, «lucida» e in massimo grado, la «coscienza», per quanto questa non sia capace di «estrinsecarsi in distensive volute di giustificazione», e anzi ricorra anche alla realtà alternativa dell’allucinazione – a un sentire e a uno scrivere obliqui, ‘congiuntivi’ – per far fronte all’ancor più grave incomprensibilità dell’Indicativo, ovvero di quel che si vede e del mondo che si abita.
Si sopravvive o si cerca di sopravvivere, pertanto, con il corpo e con la mente, come quando con difficoltà si perimetra uno spazio accidentato in cui sostare, si puntellano i sostegni d’una impalcatura su cui camminare, si prova a scandire il ritmo del proprio respiro, riflettendo di volta in volta sullo statuto ipotetico, fragile e incerto di quel che si fa, tra rovine e frammenti (come accade, ad esempio, nei Glossarietti contenuti nelle Lettere a Pasolini del 1962-1969).
Fare poesia, per Rosselli, ha forse questo senso, insieme vitale ed elaborato, corporeo e conoscitivo. Si capisce allora perché, da una prospettiva che valorizza il significato e la funzione biologico-cognitiva della poesia, Alberto Casadei scriva che concentrarsi sugli aspetti biografici, tematici e stilistici della scrittura di Rosselli, vuol dire provare a «ricostruire un intero universo poetico attraverso uno sforzo di ricomposizione delle funzioni stesse del linguaggio, in rapporto alla sua valenza gnoseologica»[10].
Si tratta, in sostanza, di cogliere come Rosselli ha cercato di capire e dire, in modo anche nuovo, quel che Lord Chandos aveva rinunciato a capire e a dire, ovvero che cosa sono – dopo la crisi, la catastrofe, e per Rosselli anche l’esilio – un soggetto e un oggetto, l’io e il mondo, le parole e le cose, e il modo in cui ciascuno di questi elementi è in relazione agli altri.
Se è corretto inquadrare i frammenti accumulati dalla poesia di Rosselli nel contesto della crisi rilevata, tra gli altri, da Hofmannsthal, allora essi concernono le inquietudini conoscitive e il patire di un soggetto a cui sfugge la cognizione del reale, e che tuttavia una sua cognizione continua a cercarla. Quei frammenti, in altre parole, trattano un «vulnus indicibile», un «trauma perenne», come scrive Casadei, «che non riguarda più singoli fatti storico-biografici, pur partendo da essi, bensì la convinzione inconscia che vivere equivalga a combattere sino alla morte (simbolica) ogni giorno»[11]: un combattere che Lord Chandos, il quale era peraltro un personaggio fittizio, aveva rifiutato diversi decenni prima, abbandonando la poesia, strumento e medium della lotta nella quale si è gettati e che contemporaneamente si deve maneggiare.
La realtà della trama affettiva al cuore della vicenda biografica di Roselli non va pertanto sottovalutata o negata, come se non vi fosse alcuna differenza tra lei e Lord Chandos. Tutt’altro. Occorre semmai afferrare la precisa risonanza, la significativa capacità di esondazione, al di là della storia individuale, di quella trama e delle sue ferite («irrimediabile era il male del mondo, e con ciò il mio male»)[12].
Prendiamo ad esempio la testimonianza d’una amica di Rosselli, Sara Zanghì, su cui ha attirato l’attenzione Casadei: «durante una vacanza sulle Dolomiti nel 1986», la poetessa «disse che la madre aveva voluto che lei e i fratelli vedessero la salma del padre, colpito da 27 pugnalate. Lei aveva soltanto sette anni. Parlava calma, a voce bassa, con distacco, sembrava»[13]. Casadei scrive del vedere il padre Carlo morto (ucciso dai fascisti il 9 giugno 1937, assieme allo zio Nello) come d’una «esperienza fondante»[14] sulla quale s’innestano altri traumi, quali la lontananza e poi la morte della madre Marion C. Cave nel 1949, e la scomparsa nel 1953 di Rocco Scotellaro, altro potenziale punto di riferimento per la giovane figlia di Carlo Rosselli, quando lei aveva poco più di venti anni. In questa prospettiva, l’unheimliche Nähe del corpo offeso del padre, la sua insostenibile vicinanza – con il suo fuoco ad alzo zero sui sensi di chi guarda – ingombra e riempie lo sguardo della bambina senza lasciare lì per lì spazio di manovra al pensiero, né uno scarto possibile tra la parola e la cosa per dare adito all’elaborazione simbolica del vuoto lasciato dalla morte. Da quel momento in poi, però, la poetessa dovrà incessantemente ritornare sulla perdita dell’oggetto d’amore, per ricomporre simbolicamente il lacerato, il corpo squarciato dalle pugnalate («il trauma e il limite dell’esperienza», sostiene Alessandro Baldacci nella sua monografia su Rosselli, «sono il punto di partenza della scrittura»)[15]. Questo bisogno, fondato su di una percezione non funzionale, ma nuda e violenta della disintegrazione di quel che è caro, spinge Rosselli, al di là del dato biografico, a impegnarsi tramite la poesia in una «metonimia dell’intera realtà fatta di lacerti, perennemente divisa come in una lotta senza requie»[16]. Nel passaggio dalla percezione muta, dal «buio fisico e corporeo» (Zanzotto) al linguaggio ne va dunque d’una volontà di sopravvivenza che impone a Rosselli un «passo di fianco» (Valesio), uno sguardo diagonale rispetto all’esperienza fondante della sua poesia, una obliquità rispetto allo sguardo fisso sul vuoto scavato dalle pugnalate.
Da qui, nell’opera di Rosselli, la compresenza ancora una volta ossimorica di disgregazione e auspicio (o volontà) d’ordine, se non di assoluto, innanzitutto sul piano del ritmo (come traspare dal saggio Spazi metrici, del 1962, incluso in Variazioni belliche come sua terza parte). Si pensi anche, ad esempio, al ricorso al ‘quasi’ non-sense (l’io che «diramava missili e pedate inconsce agli amici», al v. 8 della poesia di apertura delle Variazioni, 1961-1962, seconda parte delle Variazioni belliche)[17] e al contemporaneo sforzo di fornire – proprio del non-sense – un’elucidazione razionale (va sempre tenuta a mente la pratica dell’autocommento menzionata in precedenza). In linea generale, queste tensioni più che opposte potrebbero dirsi coincidenti. Esse rendono forse ragione anche d’una allusione di Rosselli a Franz Kafka, in un’intervista del 1986 a Giacinto Spagnoletti: «L’ispiratore sottinteso delle Variazioni è Kafka, e l’intento a volte è prosastico […]. Ho voluto esprimere il nascere e il morire di una passionalità da principio imbrigliata e contorta, e poi sfociata in lotta e denuncia»[18]. Senz’altro kafkiana è l’angoscia che trama la testualità delle Variazioni, ma anche la figura della lotta, della battaglia – e per estensione del bellum, della guerra («pedate» e «missili») – è probabilmente kafkiana. In Beschreibung eiens Kampfes (Descrizione di una battaglia, pubblicata per la prima volta e in parte sulla rivista «Hyperion» di Franz Blei nel 1909), Kafka descrive infatti le strategia di lotta (Kampf) che un certo ‘io’ adotta per stare in vita, tra allucinato dérèglement de tous les senses («feci sorgere un monte di grandi dimensioni») e interrogativi inquieti circa la disgregazione violenta della realtà («perché tutto è costruito così male che a volte grandi case crollano senza che se ne possa rintracciare una ragione esterna?»)[19].
Nel testo conclusivo delle Variazioni, Tutto il mondo è vedovo…[20], compare con maggiore chiarezza il tema dell’obliquità dello sguardo al quale abbiamo fatto riferimento più volte, un tema che andrebbe analizzato nella sua duplicità di significato. Obliquo e ‘congiuntivo’, infatti, è lo sguardo del folle che non sa nulla di poesia (come nel romanzo-saggio di Musil), ma altrettanto obliquo e ‘congiuntivo’ è lo sguardo della poetessa. L’unheimliche Nähe (come la chiama Lord Chandos) del corpo morto e dell’amore perduto deve essere messa in prospettiva – a questo serve la prospettiva, quantunque sia essa stessa incline all’allucinazione – altrimenti non si sopravvive e la parola non può aspirare a essere «compresa favella». Ecco dunque Tutto il mondo è vedovo…:
Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il
mondo è vedovo se tu non muori! Tutto il mondo
è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
dalla tua nascita e l’importanza del nuovo giorno
non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
chè tu cammini ancora! cieca sono che tu cammini
e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.
Nei versi 1-5 compare, ossessiva, una formula condizionale introdotta da «se»: «se è vero» (vv. 1,2 3, 5) e «se tu non muori» (v. 4). Il condizionale, al pari del congiuntivo, scardina la ‘presenza’ dell’indicativo, la possibilità del riferimento diretto alla realtà. Inoltre, il disorientamento derivante dall’assenza d’una referenzialità chiara del linguaggio, è aggravato fino al paradosso dalla contraddittorietà della condizione di vedovanza su cui verte la poesia. «Tutto il mondo è vedovo» dovrebbe implicare un’assenza, ma il v. 1 si completa nel modo contrario: «se è vero che tu cammini ancora». Addirittura, ai vv. 3-4: «tutto il / mondo è vedovo se tu non muori!». L’incoerenza logica, in ogni caso, tende ad appianarsi quando, ai vv. 5-6, si dice: «tu non sei vivo ma solo /una lanterna per i miei occhi obliqui». Il «tu», proprio perché non è vivo, è diventato un punto luminoso, una «lanterna», per lo sguardo indiretto, obliquo, dell’‘io’. D’altra parte il «tu non sei vivo» del v. 5 può affermarsi solo nel contrasto, nella ‘lotta’ con il «tu cammini ancora» del v. 1, segnalando così un inconcluso andare e venire tra la vita e la morte, una diagonalità che attraversa la cecità dell’io e del mondo (vv. 6, 8, 9, 10), e che solo in quanto tale – quindi in virtù d’un ossimoro – rende «celestiali» i «miei occhi» (v. 11).
In Tutto il mondo è vedovo…, l’io cerca di sincerarsi, fallendo a ripetizione, del confine tra sé e il mondo, tra la percezione e la realtà. Quel che conta, però, e che allontana la poesia di Rosselli dal puro automatismo e non-sense surrealista, è lo sforzo di discernimento, il quale, tra l’altro, non conduce a un risultato stabile (i «miei occhi celestiali», ma anche la «Parola Soave», per non parlare dello spazio metrico immaginato come un cubo, sono attraversati da ineliminabili tensioni centrifughe).
«Il primum della Rosselli», ha scritto Casadei, «è in fondo l’affermazione di un bisogno di esistenza che afferri la realtà in quanto certezza: proprio questa tensione continua a ricostruire un universo stabile e coerente determina la ricerca di limiti rigidi, razionalmente e normativamente autoimposti, e tuttavia meri confini di un’elaborazione cognitiva che esplode all’altezza delle Variazioni belliche»[21].
Afferrare «la realtà in quanto certezza», dopo gli sconvolgimenti del sapere individuati da Heidegger nel 1927 – la crisi dei fondamenti – non è più possibile. La realtà in quanto certezza scientifica, ad esempio, è tutt’al più una convenzione su cui ci si accorda per ragioni pragmatiche, come in fondo sostenevano sia William James per la psicologia, sia Ernst Mach per la fisica. Essa, come certezza, non è inscritta nell’ontologia, in un sapere inamovibile e dogmatico dell’essere capace di sconfiggere la morte. Innanzi a questa Krisis, e alle sue ripercussioni sul piano personale dei singoli individui, vi sono due possibili atteggiamenti non meramente consolatori, non regressivi.
Hofmannsthal delega a Lord Chandos e alla sua prosa epistolare ricca d’analogie, la scelta conclusiva del silenzio. Rosselli, fino a prima che la sua opera taccia, affronta la disintegrazione e lo scardinamento del suo tempo – tempo personale e della Storia – facendo del frammento e dell’ossimoro le ragioni d’una dissonante armonia in cui e per cui lottare tramite un imprendibile stile poetico e di pensiero (nella poesia di Rosselli, «la parola è di casa in un inesauribile congedo»)[22].
Forse è solo questo congedarsi permanendo, questo indugiare nella «tenda degli addii»[23], a far sì che l’amore resti.
[1] C. Carpita, Amelia Rosselli e il processo di individuazione. Alcuni inediti, in «Allegoria», XIX, 55, gennaio-giugno 2007, pp. 136, 139, 140.
[2] A. Casadei, La cognizione di Amelia Rosselli: per un’analisi delle «Variazioni belliche», in «Strumenti critici», XXIV, 3, settembre 2009, p. 359.
[3] A. Rosselli, Primi scritti. 1952-1963, Milano, Guanda, 1980; Id., Variazioni belliche [1964], Milano, Garzanti, 1995.
[4] Si tratta d’una recensione ad A. Rosselli, Le poesie, a cura di Emanuela Tandello, Prefazione di Giovanni Giudici Milano, Garzanti, 1997. Si veda G. Mazzoni, in «Allegoria», X, 29-30, 1998, p. 300.
[5] A. Rosselli, Lettere a Pasolini (1962-69), a cura di Stefano Giovannuzzi, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2008.
[6] M. Borio, Amelia Rosselli e la Nuova Vocalità, «Nuovi Argomenti», 3 maggio 2016, online.
[7] D. La Penna, La promessa d’un semplice linguaggio. Lingua e stile nella poesia di Amelia Rosselli, Roma, Carocci Editore, 2013, p. 57.
[8] A. Zanzotto, Amelia Rosselli: ‘Documento’ [1976], in Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano, Mondadori, 1994, p. 127.
[9] Ivi, p. 128.
[10] A. Casadei, La cognizione di Amelia Rosselli, cit., p. 358.
[11] Ivi, p. 360.
[12] A. Rosselli, Diario ottuso, Roma, Empiria, 1996, p. 41.
[13] Dossier Amelia Rosselli, a cura di Siriana Sgavicchia, in «Il Caffè illustrato», III, n. 13/14, luglio-ottobre 2003, p. 48. Sull’influsso dei traumi sulla poesia di Rosselli, si veda E. Tandello, Amelia Rosselli. La fanciulla e l’infinito, Roma, Donzelli, 2007.
[14] A. Casadei, La cognizione di Amelia Rosselli, cit., p. 362.
[15] A. Baldacci, Amelia Rosselli, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 5.
[16] A. Casadei, La cognizione di Amelia Rosselli, cit., p. 362.
[17] A. Rosselli, Le poesie, cit., p. 198.
[18] A. Rosselli, Una scrittura plurale. Saggi e interventi critici, a cura di Francesca Caputo, Novara, Interlinea, 2004, p. 298.
[19] F. Kafka, Descrizione di una battaglia, Bagno a Ripoli (Firenze), Passigli, 2008, pp. 31 e 48.
[20] A. Rosselli, Le poesie, cit., p. 333.
[21] A. Casadei, La cognizione di Amelia Rosselli, cit., p. 388.
[22] A. Baldacci, Amelia Rosselli, cit., p. 9.
[23] A. Rosselli, Le poesie, cit., p. 157
[Immagine: Foto di Dino Ignani].