di Anna Maria Carpi

 

[E’ uscito in queste settimane, per la collana di prosa di Zacinto Edizioni, Io dimentico, una raccolta di racconti e romanzi brevi di Anna Maria Carpi, con postfazione di Paolo Giovannetti. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, il capitolo 20 del romanzo breve Due bianchi come noi]

 

Com’è allegro quest’interno con la sua abbondanza da fiaba. Da bambini tutti abbiamo fatto il sogno di essere rimasti chiusi in una pasticceria oltre l’orario, e di poterci buttare, non visti e impuniti, sui dolci. Da adulti ai dolci si preferisce l’alcol e si vorrebbe piuttosto restare chiusi in una bottiglieria. Non solo per bere senza misura, soprattutto per curiosare liberamente, prendere in mano certe bottiglie, leggere le etichette, scoprire denominazioni e qualità mai viste.

Nelle Cantine Venete, alle spalle del banco di marmo stanno su varie file i vini che vengono più richiesti per la consumazione immediata. Contro la parete di fronte, in una sequela di scaffali che vanno fino al soffitto, ci sono le bottiglie da vendere intere, in basso ci sono fiaschi da 2 litri a buon prezzo e man mano che si sale aumentano i prezzi fino ai 50, 100, 200 euro.

Di qui si passa in un secondo locale illuminato da un frigo-vetrina dove tengono i bianchi e i prosecchi per i clienti che li vogliono portar via già freschi per berli appena a casa.

Le Cantine Venete ci sono da sempre. L’insegna fuori è sbiadita, il “venete” se n’è quasi andato, ma la gente ama che dove va a bere o a comprare ci sia una tradizione.

Anche Casetti e Simeoni vengono spesso qui per un aperitivo e all’ora dell’aperitivo serale l’interno trabocca e per sottrarsi alla calca si va col bicchiere all’esterno, sulle fondamenta, anche se fa freddo. Le Cantine non hanno stagioni e tutti sono trattati con uguale riguardo, i non abbienti che chiedono un bicchiere a buon mercato o un bottiglione di sciolto o una minerale, così come i signori che fanno ordinazioni natalizie. Al servizio a domicilio è addetto un moldavo, un tipo atletico, efficientissimo, che non ride mai.

Hai visto, Simeoni, al muro dove finisce il banco, quelle foto? Una è del vecchio. L’hai presente il vecchio, il suocero, il panzone? Sì, dice Simeoni, mi pare ma non sono sicuro. Ancora l’anno scorso era qui che faceva avanti e indietro dal magazzino al negozio, coi suoi carrelli stracarichi, dice Casetti. Credo sia andato in pensione. Come l’amico osservi tutte queste cose per Simeoni è un mistero. E quello è Fufi, il loro spinoncino nero. Ah sì, fa Simeoni, quello ti veniva anche fra le gambe, menomale che non mordeva. Quando si è ammalato gli avevano messo una cuccia nel retro – sempre sorride Casetti quando parla di animali – e io andavo a trovarlo: gli ultimi giorni non si tirava più in piedi. Quanto l’hanno curato. Sono buona gente.

Su un’altra foto si vede l’acqua alta fuori del negozio e dei passanti che arrancano sulla fondamenta con stivali e ombrello aperto: l’acqua è entrata anche nel negozio. Quello che guadagnano questi bifolchi, inaudito, fa Simeoni sottovoce, e  guarda la moglie del padrone. È due volte suo marito, con quelle spalle e quegli avambracci potrebbe strozzarlo. Ma va’, fa Casetti, è una bravissima donna, una madre di famiglia.

Michele – è il padrone – ha una bella faccia, dice Casetti, se fossi una donna mi piacerebbe, però è una faccia da bugiardo. Perché? fa Simeoni. E’ una mia teoria: i bugiardi hanno gli occhi dolci e la fronte rotonda.

Noi paghiamo le tasse fino all’ultimo euro, ma questo, che è miliardario, credi che le paghi? Questo qui, fa Casetti, fa ancora i conti a mano, con la matita, e di certo tiene i soldi sotto il materasso, e fa bene, guarda cosa stanno combinando le banche. Non sa usare nemmeno il computer, l’ho sentito parlare con un cliente che lo esortava a imparare a usarlo, e lui: ah, signore, cosa vuole che capisca io con la mia vecchia testa? Sono un asino, io non guardo nemmeno la TV.

E così i due vanno avanti con la loro dilettantesca antropologia finché il bitter shakerato dell’uno e l’whisky dell’altro sono finiti, e devono sgomitare attraverso la folla per arrivare a restituire i bicchieri al banco.

Tutta la notte brilla, in una nicchia nel muro, a ridosso delle Cantine Venete, una lampadina davanti a un’immacolata concezione e a un vasetto di fiori secchi. Il locale chiude alle 10. Nelle due ante di ferro serrate, ad altezza dell’occhio, ci sono due esagoni di forellini da cui si vede dentro e dentro alle 11, a mezzanotte c’è quasi sempre ancora luce.

Passando di lì, per andare a casa, quel curioso di Casetti non può mai fare a meno di sbirciare.

C’è Michele, solo, ancora in grembiale e in faccende. Così ogni sera. E’ dietro il banco, volta le spalle – calvizie al centro della testa, come quella di Casetti. Sta passando in rassegna un gruppo di bottiglie, le conta, si gira e prende via via nota su una  carta che ha sul banco. Finito questo, si sposta a fare una verifica sulla parete opposta.

Somiglia a noi quando siamo in biblioteca davanti ai libri. Quanti non ne hai letti e non li leggerai mai? E questa è nostra massima vergogna: i grandi libri non letti, al confronto i pasticci col sesso sono nulla. Ma questo qui le rare volte che io voglio comprare un vino è sempre così pronto alla domanda su com’è questo e com’è quello, che deve pur averli assaggiati tutti almeno una volta. O no? Puro intuito?

Poi Michele ha finito anche da questa parte e scompare nel retro. L’abitazione di famiglia è al secondo piano e dicono che ce l’ha in affitto dal Comune per una cifra simbolica.

Per qualche minuto Casetti rimane con l’occhio ai forellini. Difatti l’uomo torna con uno straccio e una scopa. Fa lui stesso le pulizie. Ha steso lo straccio per terra, e comincia a lavare il pavimento. Pulire ha difatti senso solo dopo la chiusura e lo fa lui stesso perché figli moglie e moldavo sono già andati a riposare. Passa due metri quadrati, poi appoggia la scopa a uno stipite, raccoglie lo straccio e sparisce. Va a sciacquarlo con le mani nude – nemmeno i guanti di gomma – e ritorna. A giudicare come ogni volta si curva e si drizza, deve avere qualche problema con la schiena. Ecco, ora viene di qui, verso le ante. Poi si ferma, e per un momento guarda verso di me nel vuoto, e sulla fronte bombata gli si formano delle rughe, come di preoccupazione. Preoccupazione di che? L’altro giorno dentro da lui c’erano due carabinieri, forse della  finanza, ma visibilmente amici: bevevano, ridevano, nessuna questione, pare. Con questo antro Michele possiede praticamente una banca, una banca che non fallirà mai. E  perché se la pulisce da sé, a quest’ora, come un servo? Solo avarizia o vecchia virtù di popolano che non si è montato la testa?

Casetti lo ammirava e avrebbe dato un occhio per sapere cosa c’era dentro quella testa mentre l’uomo lavava e strofinava: numeri, conti o semplicemente nulla? No, nell’uomo non c’è mai il nulla.

Ma ora era stufo di guardare. Era stanco e si allontanò verso casa.

2 thoughts on “Le cantine venete

  1. Come un piccolo, intimo teatro da camera (veneziana). Molto interessante.
    Grazie.

  2. Grazie. Piacevole lettura. Direi che si poteva anche intitolare Quattro bianchi come noi (scherzo): Casetti e Simeone, e poi anche il narratore e il lettore occasionale, per chi conosce o apprezza la noia o la meditazione di certi momenti, tutti intenti a mirare i movimenti del solo protagonista di questa storia: Michele, il padrone ed esperto delle Cantine venete, che presumo sia anche astemio.

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