di Paolo Maccari
[Per la collana “novecento/duemila” delle Lettere, diretta da Raoul Bruni e Diego Bertelli, è appena uscito Quaderno delle presenze, il nuovo libro di poesia di Paolo Maccari. Ne proponiamo alcuni testi, seguiti da un estratto della prefazione di Gian Mario Villalta].
Feast of Friends
Si sono incamminati
verso il luogo deliberato
i personaggi che vuoi salutare.
Sono già alti i pennoni,
vi oscillano bandiere
e simmetrici festoni
dei colori che hai scelto,
spumeggiano pieni i calici
proprio di quel liquore,
sta rotolando al punto stabilito
il crepuscolo di fine estate,
gli amici stravaganti
e i tuoi genitori si sono intesi
e i fratelli non ridono
della camicia che indossi,
parlano di te con affetto
le ragazze che hai baciato,
tutto lo spazio è allegro
percorso da un’ironia
diabolicamente indulgente
con ogni tuo eventuale passo falso.
Sta a te decidere se palesarti
ora o scomparire.
Ma lasciami dire che così ti fai male.
Vedi, le nuvole potenti
non basta questo vento a sbaragliarle
e tutto l’universo mentre annotta
ha desiderio di vederle disfatte
dal temporale che ti ostini a custodire.
*
Appena un esempio
Immagina un ragazzo timido. Gli è stato proposto il lusinghiero incarico di consegnare di sua propria mano una lettera a una certa persona notevole. Immagina che rifiuti per paura ma chi lo ha incaricato insista e il ragazzo infine ceda perché si è nel frattempo figurato di suonare il citofono e dirci dentro posta in cassetta e sollevato andarsene – potrà in tal modo dire, in futuro, di aver consegnato una lettera a quella notevole persona, e avrà la gratitudine di chi lo ha incaricato, e si sentirà fiero di ciò che ha saputo fare.
Metti che cammini fiero dell’incarico e felice della soluzione escogitata per portarlo a buon fine con onore e senza tremiti.
Fa’ che arrivi di fronte al citofono e con qualche emozione lo prema.
Ora ti chiedo questo: figurati il ragazzo… no, figurati la sua faccia quando sente lo scatto del portone e nessuna voce a domandare cosa vuole.
Si è aperto per lui il portone ed è tornato il silenzio.
E ora? Facile: lasciare la lettera e fuggire… ma mica facile, dopo un frammento di secondo: se qualcuno ha aperto ora c’è qualcuno che lo aspetta, quella stessa persona notevole di cui ha un po’ paura, e per cui sente la paura vana di scontentarla. Rimane indeciso tra salire fuggire aspettare risuonare.
Immagina in quel momento il suo respiro…
Sappiamo bene che alla fine, dopo pochi secondi, entrerà.
Entrerà, ma deluso orribilmente dalla sua precedente improvvida speranza.
Salirà le scale odiando l’incarico, e la lettera, e i due tra cui la lettera viaggia, e il viaggio che è lui; odiando soprattutto se stesso che mai imparerà che è troppo, troppo meglio stare per sempre fermo, perché i suoi passi ora sono incubo e tortura.
Ecco, è solo un esempio. Per qualcuno provare a dire ‘esisto’ agli altri è come recapitare un messaggio per conto di un maligno a un ignoto minaccioso.
Smettila dunque, questo volevo dirti, di giudicare veniali solo i peccati di troppo ardore e pratica almeno un po’ di compassione per chi se ne sta fermo a assiderare: a volte creature come quelle non si perdono una mossa del mondo che brucia. Sembrano bambini col naso incollato a una vetrina succulenta di veleni.
*
Cane bianco
Nessuno aveva notizie del suo cane.
Manca da casa – disse il vecchietto
proprio così: manca da casa –
ormai da ieri mattina presto.
Non è la prima volta che scappa
ma passare fuori la notte…
Quando se ne fu andato
le ragazzine risero. Una gli fotografò la schiena.
Mica è il cane, le disse un’amica. Risero di nuovo.
Avete visto mica un cane bianco?
No, molto più piccolo di un maremmano
e a pelo corto. Un meticcio, un po’ labrador… No?
se aveste notizie – disse proprio: se aveste notizie –
vi lascio un biglietto. Era già scappato
diverse volte… ma la notte…
Noi non ridemmo. Eravamo adulti.
È finito sotto una macchina, commentò
uno di noi, o l’hanno preso.
Avrà domandato all’accalappiacani?
Figurati se non ha sentito. Ora hanno i microcip, tra l’altro.
Tornando all’albergo vidi un cane bianco
legato a un palo davanti a un Circolo.
Era il suo cane? Forse il padrone era dentro.
Forse era un altro cane. Entrai nel locale pieno di fumo.
Il vecchietto era lì. Ripeteva ieri mattina presto
senza svegliare dal silenzio i giocatori.
Come un’olografia a un tratto le sue frasi
anche per me s’illimpidirono
in una vana quasi allegra litania
nota da troppo a tutti gli avventori.
*
Parenti poveri
Nei romanzi naturalisti, e fuori,
è facile incontrare parenti poveri.
Hanno il tuo sangue
ma non sono al tuo livello:
esercitano storie di bisogno.
I poveri parenti sono scorretti,
costretti all’oblio delle buone maniere,
si abbuffano alle tue feste
e ti guardano scusandosi con odio
dei modi cafoni che li trascinano.
Ti obbliga, vederli, a ricontare ciò che hai,
come per te l’ha conseguito
il venerato lignaggio.
Se ti punge compassione
e provi a rielevare i parenti
alla tua sazietà, ti deludono
perché stanno in alto con arroganza
e in un attimo scordano la gratitudine
e gli amici rimasti laggiù.
Conservano giusto l’amante
trasformandola in serva. Poi si domandano
se c’è modo di aumentare il guadagno
prendendo anche del tuo.
A un tratto ti ricordi che hanno il tuo sangue
e che tu, negli aspetti per privilegio alti
dello spirito, sei esattamente come loro.
È questo ricordo che ti decide
a pensare che se sono più in basso
un motivo ci sarà. E smetti di invitarli
ai pranzi eleganti per evitarne il fracasso.
*
Applausi
Stretto da angoscia, cercavo un pensiero
che per qualche tratto mi ristorasse
finché fosse tornata nei miei sbandi
la forza di intercettare la mossa
di un desiderio a cui aggrapparmi e proseguire.
Frugavo nella mente in cerca di ristoro
dalla curiale deplorazione di me stesso e ho trovato
la facoltà di ammirare un altro essere umano.
Oh sì, sì, questa ce l’ho, non mi manca,
non milita tra le penurie note,
e porta tanto bene che addirittura mentre scrivo
mi ricorda come si scordano i fini e le relazioni
e ci si imbambola, curiosi, straordinariamente
appagati e curiosi insieme.
Il portento di una volontà, il muto lavoro ben fatto,
la docilità con cui accondiscende
qualcuno giovane a un’audacia
che nessuno gli ha insegnato,
la rettitudine che non ha nome perché non si sa
da dove venga e quali benefici rechi…
Qui riesco a stare: di fronte a ciò di cui non dispongo
e che davvero non si apprende. Me lo consente
un vento equanime di smemoratezza, che spazza via
i confronti disastrosi perché mi spinge fino alla ringhiera
della mia mente, e poi oltre.
Eccomi, eccovi: persone quotidiane che avete un gesto,
un’abitudine, una grazia noncurante o un’inspiegabile
letizia materiata di niente, una saggezza
senza veleno e senza speranza.
Tra poco tornerò tra i capogiri
a barcollare con la mente in piedi,
ma intanto mi accovaccio, scaldo le mani,
seguo ringiovanito i vostri profili.
*
Cinema-Vita
I titoli di coda s’incendiano se è giorno.
Ed è giorno. Pellicole venerande, secondo
gli antichi standard, bruciano, perché la troppa luce
intride i burattini chiusi nei fotogrammi.
Incendi. Giorno. Folla. Vi ricordate il tempo
tenebroso dei film a luce sprofondata?
Il brillio dello schermo spargeva sogni morbidi,
tensioni deliziose, giganti primi piani
sopra i fedeli docili radunati nel buio.
Vi ricordate il buio? La luce successiva,
gli occhi ribelli al bianco dello schermo, tornato
oggetto impersonale? Fine… Fiamme…: immensa
è l’estate scandinava che è giunta su di noi.
Lucidità. Efficienza. I titoli di coda
s’incendiano nel giorno… Ed è giorno. Un giorno eterno.
Sapremo popolarlo di sonno, sogno, infanzia?
Sapremo conservare i nomi della folla
alacre? Stelle, attori, comprimari, maestranze…
I nuovi, come sempre, hanno fame di fuoco.
Costruiranno spettacoli a loro immagine nuovi.
Irrideranno il buio, il brillio dello schermo,
Le nostre commozioni. Che sia giusto e previsto
non ci fa meno soli, meno stravolti a tutta
la luce abbacinante che ci chiama al biancore.
Ricordate, nel buio, le mani? La sapienza
emozionata delle nostre povere mani
mentre sfioravano altre mani, schiuse e protese
come labbra che tentano un suono mai sentito…
*
Prefazione
di Gian Mario Villalta
[…]
Quaderno delle presenze è un’opera nuova che illumina a ritroso anche il cammino fin qui percorso da Paolo Maccari, del quale l’autoantologia I ferri corti, pubblicata nel 2019 da pordenonelegge-LietoColle, ha offerto un recente dovizioso compendio. Incontriamo una materia più densa, che resiste e al contempo trascina il lettore, in una sorta di movimento bradisistico, e lo porta inavvertitamente a sprofondare, trovarsi a un’altra altezza rispetto al terreno dove era certo di poggiare i piedi. Si intende con questo significare che qui si compie un passo che va oltre la già dimostrata capacità, cifra riconoscibile dell’autore, di comporre in parole un mondo, altrimenti inconciliabile, dove prevalgono paradossali occasioni di attrito e corrispondenti imprevedibili vie di fuga: l’insofferenza di Maccari per ogni forma di autogiustificazione, l’ammissione della ineludibile complicità con l’invivibile presente, il gesto di rinuncia a ogni facile riscatto sono la sua riconosciuta cifra. Si tratta dell’ostinazione a volersi portare nella prossimità di quanto vi è di più fragile, incerto, vero, nella quotidiana conquista di un’altra notte abitata dal silenzio.
Questo libro aggiunge un capitolo importante a quanto appena illustrato, che attesta da tempo la notevole consistenza del poeta, annettendo altra intensità e libertà. All’insofferenza si aggiunge la necessità della sofferenza, all’accettazione dell’incertezza la scoperta della potenza che può scatenarsi dall’incertezza stessa, all’ammissione della complicità con l’invivibile presente il divincolarsi di un corpo-psiche che si riconosce in una postura, occupa un tempo, abita un luogo, una lingua.
*
Ma questi sono “contenuti”, se così li possiamo definire, e sono il frutto di una riflessione che viene dopo che la forma dell’opera ha lavorato il pensiero di chi l’opera ha attraversato. Che cosa intendo, quando scrivo che c’è “un corpo-psiche che si riconosce in una postura, occupa un tempo, abita un luogo, una lingua”? Provo con un’immagine, che riguarda la lingua, che è la materia con la quale si fa la poesia. Di questa materia che è la lingua Maccari non scarta nulla, a livello lessicale, frastico, metrico, non esclude né il sublime né il triviale, né la tradizione altissima né la pronuncia più oggidiana. Però, al contrario di quanto spesso incontriamo in poesia, non setaccia, non separa, non riconnette simile a simile, formula a formula. Il poeta lavora questa materia composita, la compatta, la sagoma e leviga in uno stesso verso, in una strofa, la rende così coesa da ottenere una configurazione che da sé diventa stabile. Ne sortisce una forma che lascia permanere e percepire intorno a sé l’origine dell’ambito dal quale proviene, dal corpo, dal tempo, dal luogo dove ancora è viva, ma ricomposta nei tratti riconoscibli di un’autonoma oggettività. Ecco l’immagine: un manufatto di terra conficcato nel terreno dal quale proviene la materia che lo compone, del quale al tatto, alla vista – mentre in quel terreno si fa cercare – mostra contorni nitidi e levigati, offre una consistenza precisa e riconoscibile. Ma da quel terreno non è sottratta, su quel terreno non viene eretta, tantomeno ha un piedistallo.
Non so se potrà servire, ma questa immagine è una prima suggestione che riassume quella che altrimenti, nei miei appunti e nelle mie note, avrebbe dovuto diventare un’analisi stilistica.
[…]
*
Il titolo del libro: Quaderno delle presenze. Quaderno, non registro, perché il registro ha le caselle già segnate, con le voci obbligate che comportano una compilazione. Mentre il quaderno ha tutte le pagine libere, a righe o a quadretti non importa, dove accogliere diverse forme di scrittura, intitolazioni, note, a seconda di come l’impegno chiede e consente. Si possono lasciare anche pagine bianche. E fare esercizi. E poi, diversamente, dal burocratico registro (e dalla opprimente agenda) il quaderno è qualcosa che conosciamo fin da bambini, con il senso sbiadito però mai dimenticato di un dovere che diventa memoria e lusinga fantasie di libertà.
Quali presenze si incontrino in questo quaderno, poi, è sicuramente importante: un microcosmo dove i luoghi e il tempo non sono presenze meno necessarie delle figure umane che popolano le pagine, segnate da una diversa prossimità affettiva, ma ognuna significante e necessaria a comporre un quadro esistenziale che ha il suo unico vero centro nella possibilità di una convocazione. È sempre un po’ pedante insistere sulle etimologie, ma è chiaro che convocare intende una chiamata, un chiamare qualcuno a comporre quel cum, ovvero una relazione di compagnia o di unione, direbbero le grammatiche, dove chi chiama lo fa da un luogo che l’altro può raggiungere. E questo ci porta su un altro piano: una volta detto quali siano le presenze in questo quaderno, cioè chi vi si convochi, non si deve trascurare di chiedere come esse si presentino, secondo quali modalità e in quale rapporto con il vissuto che dà sostanza al tempo e alla realtà.
Qui possiamo intuire qualcosa di più di quello che ci appare essenziale, oltre che nuovo in questo libro. I vivi e i morti, chi è ancora legato al presente vissuto e chi ha interrotto questo legame da tempo, l’incontro occasionale e la parentela più stretta, personaggi emblematici e figuranti, non sono né ombre né cose salde, tantomeno ombre trattate come cosa salda o viceversa. Né si percorre qui la famosa ipotesi Matrix, perché realtà percepita e realtà vera diventano indecidibili, nella consapevolezza che ogni distinzione non è altrove che nella ostinazione del vivere, nella decisione che accetta l’illusione perché vi sia realtà. Queste presenze non sono epifanie, ma neppure la conferma dell’opacità di ogni sguardo sul vero. Maccari sa che c’è una sola opportunità: dare realtà, offrire verità agli altri, per trovare realtà per sé, verità nel proprio agire che, per quanto si confermi incerto, si vuole comunque indirizzato a un senso. Un gesto con il quale tenere insieme un’esistenza che appare disintegrarsi a ogni istante in troppe domande e troppe risposte. Certo, è necessario scavare dentro il pudore dei sentimenti più intimi, mettere in mostra le più comuni e insignificanti occasioni del vivere, non però per sovvertire il senso di una profondità e di una grandezza, che pure c’è, che l’umanità deve a se stessa, ma per conquistare questa grandezza e questa umanità in ogni minima possibilità che ci viene offerta.
(…)
Appena nati, e adulti, vulnerati, e ragazzini
dal passo molleggiante, insieme, ognuno condiviso,
con i se stessi che è stato, con le voci che ha avuto,
con i movimenti che lo hanno guidato,
con i pensieri, anche i più lievi, che lo hanno abitato:
uno strepito instancabile e inudibile
dentro il gomitolo compatto che siamo diventati
per non perdere nessun filo di noi.
E sogno che sia un’aggregazione quieta e lucida e costante,
e sogno che sia una repubblica eterna o almeno
perfettamente sorda alle notizie della morte.
*
Quaderno delle presenze è diviso in cinque parti, più una sesta che è un congedo, e propone una sola poesia. Queste cinque parti sono organizzate in modo da partire dall’infanzia/adolescenza vissuta al cospetto del proprio autonomo crescere e prendere coscienza di sé e del mondo (la sezione Tornanti) per ritrovarla poi, insieme alla maturità, nell’ultima parte, Intramoenia, dove è considerata soltanto dal punto di vista delle vite della famiglia. La seconda e la quarta parte si avventurano nell’ambiente; l’una, Prestanomi, in certe situazioni o incontri nei luoghi prossimi e nel tempo, mentre l’altra, Autoscontro, esplora relazioni più intime, momenti riflessivi, più dall’interno. Alla sezione centrale, Jet lag, è riservato il legame di continuità con l’intera opera precedente, anche da un punto di vista formale, dove fastidio e denuncia, veleno e dolcezza si mescolano in un dettato più chiuso e martellato.
Non si tratta di una discesa né di un’ascesa, direi invece di una parabola che non accetta assi cartesiani, dove infanzia e maturità – e l’adolescenza, la gioventù, che le dividono – non si chiudono in un cerchio ma corrispondono a distanza in un gioco di simmetrie.
Forse sarebbe meglio non chiamarla parabola, ma usare l’immagine di un cerchio che non si chiude, e che però dalla nascita alla morte comporta una curvatura tale da comprendere al suo interno lo spazio e il tempo di una vita senza che mai vi sia certezza di quanto ancora ci può stare e di quanto si è perso o si può ancora perdere. Trovo in questa poesia una pronuncia forte in favore della responsabilità e della dignità individuale, come anche della vischiosità del vivere, che però annida al suo interno il senso dell’esistenza – che non è dato, ma è necessario conquistare – e mi pare che essa risplenda al cospetto degli annunci di virtualità e delle pratiche di eterodirezione delle vite, oggi così pressanti. Tra il visibile e l’invisibile, ciò che vediamo da svegli e le visioni che popolano i nostri sogni, tra l’incertezza e la prova, ci sono schermi, passaggi, barriere, come è sempre stato. E come sempre ci si gioca tutto nella relazione che una parola vera può instaurare a profondità negate alla comunicazione sociale (deflagrante oggi nei social media), che solo la poesia può raggiungere.