di Bartolo Cattafi
[E’ uscita da poco per la collana “novecento/duemila” delle Lettere una nuova edizione di uno dei libri più belli, necessari e dirompenti della poesia italiana del secondo Novecento: L’osso, l’anima di Bartolo Cattafi, originariamente apparso nel 1964. Lo cura, con la consueta attenzione e dedizione al “suo” autore , il condirettore di collana Diego Bertelli, che qualche anno fa ha curato anche l’edizione di Tutte le poesie di Cattafi. Propongo volentieri alcune poesie del libro seguite da un estratto del saggio finale di Bertelli. Rileggiamo Cattafi. (Massimo Gezzi)].
Da L’osso, l’anima
Qualcosa di preciso
Con un forte profilo,
secco, bello, scattante,
qualcosa di preciso
fatto d’acciaio o d’altro
che abbia fredde luci.
E là, sul filo della macchina, l’oltraggio
d’una minima stella rugginosa
che più corrode e corrompe più s’oscura.
Un punto da chiarire, sangue
d’uomo, briciola
vile oppure grumo
perenne, blocco di coraggio.
Favola
Era una zona franca, senza reti
d’ascisse d’ordinate.
L’insetto impazzì. Visse
da solo, ronzando nella bianca
libertà, rimpiangendo iridati
pericoli di morte.
Un prisma
Man mano che giungevano alla mente
erano ben disposte, illuminate.
Vi furono scosse, trambusto, quei colori
che dividono le cose
divennero indistinti.
La vita porta disordine, dolore.
Colpimmo all’impazzata
finché durò la carica al congegno.
Rovistando – inventario
di cocci, osservazione
di perduti pianeti, rimembrare
parole lontane in mezzo ai libri –,
ci ferimmo col filo
tagliente dell’errore.
Avemmo sempre un triste intermediario
un prisma dalle troppe divergenze.
Da qui non puoi
Da qui non puoi vederlo
devi ancora salire
o scendere gradini:
rotola perduto,
spinto da qualche vento sulla sabbia
sull’acqua trascorsa
della tua clessidra.
Intanto ami, abbracci, ignori
perché di là dal morbido, dal tenero, dal caldo
avverti un’ambigua rigidezza.
Non sai ch’è morto e ignori
l’anima aguzza, d’acciaio,
che ti scruta e attende
il come il quando il dove.
Ipotesi
Avanzammo le ipotesi migliori.
Non ressero,
al lume dei fatti
andarono in frantumi.
Avanzammo le altre, le peggiori.
La mente è un’abile
astuta acrobata. Teme l’abisso, il vuoto.
Ricompose col mastice i frantumi.
Al mercato
C’è un calmiere che regola i rapporti
col prossimo tuo e con te stesso.
Sei solo e vinto,
debole, deforme,
devi andare al mercato.
Stordirti e scegliere
le voci nel brusio.
Stipulare contratti,
vendere, comprare
i beni che consumano la vita.
Delle pene
Alla prova dei fatti
non ci fu di che essere allegri:
torti, errori, viltà,
debolezze del cuore,
insanie che inquinarono la mente.
Pagammo in disparte nascondendo
le voci, l’ammontare,
i conti d’impossibile chiusura.
Vorremmo un’era
forte, aperta, precisa,
di pubblica chiarezza per le pene.
Non più pagare mediante equivalenze,
con conguagli privati, silenziosi,
ma tormenti, tenaglie squillanti
maschera gogna ruota rogo.
Visibile a tutta la città
la corda che ci tira per il collo.
Anabasi
Aruspici ed auguri s’opposero.
Sulla soglia un piede s’impuntò,nel viaggio
avemmo presagi che solo pochi ignorano.
Anabasi e non un’ombra
di rimpianto per i calmi
quartieri, l’estivo
l’invernale.
La mente non capisce questo amore
per certi posti remoti dell’interno,
insidiosi, inospiti,
di barbara bellezza.
Non capisce
la necessaria perdita nei boschi.
Mimesi
Venimmo per vedere
e per vincere.
Alla nostra ispezione risultò:
arnesi guasti, armi spuntate, altro.
Scalando gli alti passi di montagna
impossibile vincere, resistere.
Caduta massi, pericolo di frecce,
passaggi fin troppo custoditi.
Allora per mimesi cambiammo
colore. Adottato il mantello del nemico
andammo all’assalto di noi stessi.
I nostri colpi furono i peggiori.
Sorriso
Chi giunse fu l’ospite inatteso,
a lui
piatto, posto, bicchiere migliore.
Un nostro sorriso tremebondo
tradì ansia, timore.
Quando estrasse l’arma
tentammo la fuga o la difesa,
non ci demmo la pena di sorridere.
La retta
Lascia stare le fredde geometrie,
i faticosi conti della serva.
Se c’è qualcosa che ti stia a cuore
assumi informazioni sul suo conto,
a mezzanotte approssimati
mettigli sotto le tue bombe.
E non fuggire, aspetta
che lo scoppio t’investa.
Questa è la retta,
la strada più breve tra due punti.
In denaro contante
Pagammo con le pene dell’inferno.
In denaro contante. Qualche
moneta suonò falsa: piombo,
le altre tutte buone.
L’inferno ebbe l’immagine
dell’anima e del corpo
entrambi alle prese col dolore.
Dopo dimenticammo quale acquisto,
il prezzo, la posta, che riscatto.
Debolezza di mente.
Da queste parti il sole dura poco,
il paesaggio è brullo, l’aria il cibo cattivi.
Il guadagno fu sonno, fu stanchezza.
Meta
Studiammo le strade, le tabelle
di orari e di convogli.
Ma che vale giungere alla meta
se essa dice sei
arrivato, guarda gli orari,
le partenze,
parti.
La notizia
Il messaggero giunse trafelato
disse che ormai correva
solo per abitudine
il rotolo non aveva più sigilli
anzi non c’era più rotolo, messaggio,
non più portare decrittare leggere
scomparse le parole
l’unica notizia essendo
visibile nell’aria
scritta su pietre pubbliche
in acqua palese ad alghe e pesci.
Volgere appena l’occhio.
Tutto apparve concorde con un giro
centripeto di vortice
un senso precipite d’abisso.
Acropoli
Vedendo chiaramente la cerchia dell’assedio
le voltammo le spalle,
a passo stanco entrammo nell’acropoli.
Deve servire per distrarci il mondo.
Panorami dall’alto dell’acrocoro,
una montagna un mare
mirabile di cose da finire
a poco a poco,
oggetti d’uso, beni di consumo.
Pasti pesanti, sere grevi,
l’afa portava un molesto tintinnare
metallico, nitriti,
la mente registrava mezzanotte
e spegneva la luce con sollievo.
Mare
Messo dentro tutto
in ordine piegato
la barca i remi il mare
liscio crespo turbato
tinte chiare e cupe
i venti leggeri dell’estate
quelli più pesanti per l’inverno
corri a prendere il treno
spacca in due la folla
arriva issati parti
perdilo
fa lo stesso
siediti a terra
e viaggi lo stesso
è tutto mare
altissimo mare,
te la sogni la terra.
Timoniere
Quindi andai da lui e gli dissi
Ti prego accosta a dritta
è quello l’arcipelago del cuore.
Mi guardò e sorrise,
mi diede un colpo sulla spalla,
invertì come un fulmine la rotta
e fuggimmo agli antipodi dell’isole
mettendo nelle vele molto vento.
Aveva al timone mani salde,
occhi acuti per tutto,
isole, scogli, cuori.
Comunque ero caduto in tentazione.
Era questo lo scopo delle isole.
In sogno
Bellissima la forma delle coste
tesori accatastati
di genere molteplice
antichità classiche
vegete calde vive.
Intascati gli spiccioli
erede di poca sorte
me la filai per mare
nascosto nella stiva.
Ora di notte geme
si rivolta nel letto
inarca le reni
mi prende il sesso
mi dice Vieni.
* * *
Diego Bertelli
L’osso, l’anima: storia, caratteristiche e significati di un classico del Novecento
Considerato nel suo complesso, L’osso, l’anima si profila come «un libro assai mosso e variato, percorso da grumi, possibilità e veicoli di senso che non raramente muovono verso ipotesi tematiche e soluzioni stilistiche discordanti»224. La varietas di temi e forme è un’evidenza che salta subito all’occhio, per cui vale la pena analizzarne alcuni aspetti esemplari, in modo da poter dare, alla fine, una visione d’insieme che sia riprova anche della tenuta strutturale e di contenuto del libro. Raboni sostiene che il «tema del viaggio – questa diversa, disincarnata incarnazione del tema del viaggio – non è che uno dei diversi temi o filoni presenti nell’Osso: presenti […] secondo il nuovo assetto che sarà poi caratteristico di tutte (con la sola eccezione della Discesa al trono) le raccolte di Cattafi, vale a dire con una precisa tendenza a farsi strutture portanti, a disporsi in verticale formando altrettante sezioni caratterizzate in senso quasi univoco e fortemente coerenti».
Ciò non toglie che si tratti, nel contempo, del macrotema del libro e finanche della metafora generale su cui esso si regge, in quanto sintesi costante di tutti i sentieri “interrotti” che si aprono e chiudono al suo interno. Il tema del viaggio, inteso come dislocazione e perdita di orientamento, percorre trasversalmente L’osso, l’anima, declinandosi in vari modi: da quello immaginario, a quello interiore, a quello che si svolge nel cuore e nella pancia delle emozioni più violente e autodistruttive, a quello metafisico oggettuale in uno spazio indefinito, astratto, a quello sentimentale e memoriale, costellato nuovamente qua e là da certo esotismo e sensualismo avventurosi del passato (specie in Sagoma 2 e ne La campagna d’autunno). Di ognuno di questi viaggi si constatano incertezza, contraddizioni di fondo, pericolosità e insensatezza di ogni direzio- ne, destinazione, arrivo (Baedeker); allo stesso tempo, se ne sancisce il necessario svolgimento (basti pensare a Inizio, sintesi perfetta del circolo vizioso in atto), secondo uno schema già ravvisabile in precedenza (come nel caso dell’eponima Partenza di Greenwich, poesia della falsa-partenza e dell’impossibile meta, o nella circolarità senza via d’uscita di Nel cerchio, penultimo componimento de le Mosche del meriggio).
Si tratta, nel complesso, di tentativi, reazioni, riprese, manchevoli nella sostanza di un vero e proprio sviluppo o di uno sbocco (si prenda in considerazione la serrata sequenza di Trofei, Metri, Guyana in Qualcosa di preciso), i cui esiti consistono, in molti casi, in una chiusura a spirale, in un ripiegamento, nell’essere risucchiati dal vortice ovvero, in altri, nella dispersione, nella fuga, nella deformazione percettiva della realtà. In ognuna delle sette sezioni del libro ci sono perciò continui momenti di interruzione e capovolgimenti che procurano disorientamento, turbamento, «distretta» e alimentano, in modo sempre più tangibile, un senso ineluttabile di inanità e sconfitta reagente con la necessità di andare avanti. È la rappresentazione drammatica e ulissìdica di un io e di un noi (una pluralità non ben determinata di soggetti che sono a tutti gli effetti i compagni di viaggio) presi nella continua moltiplicazione di percorsi e vicende esteriori e interiori, soggiacenti all’estrema volontà della Moira.
[…]
Ne L’osso, l’anima l’insieme di questi percorsi e vicende non solo si dipana sezione per sezione interrompendosi all’improvviso, ma si intreccia attraverso il reiterato uso di un lessico specifico, che mantiene, nei diversi contesti in cui ricorre, un costante valore simbolico. Si pensi ancora una volta alle due parole più importanti del libro: anima (che ritroviamo in Qualcosa di preciso, Il come il quando il dove, Sagoma 1, Avviso, Moto a luogo) e osso (presente in Il come il quando il dove, Sagoma 1, Avviso, Moto a luogo, La campagna d’autunno), oppure corpo, che di fatto si pone, alternativamente, come sintesi o estensione del significato di entrambe (Il come il quando il dove, Sagoma 1, Avviso, Moto a luogo, Sagoma 2). Lo stesso vale per molti termini ed espressioni afferenti alle immagini di circolarità del libro: da giro (Al quinto piano, La sede adatta, Il tuo profilo, Nel giro, La notizia) ai modi definiti e indefiniti del verbo girare, ai suoi composti e sinonimi, a certe espressioni idiomatiche (Arcipelaghi, Trecentosessanta, Come vanno le cose, Cablo, Là dietro, Inquilini, Metodologia, A Gigi, La palma africana, A Michele, Venere). Nel medesimo campo semantico rientrano i vocaboli cerchio (In altomare, La sede adatta, Tiro a segno, ma anche l’utilizzo che se ne fa ne Le casse dei Caraibi e Olimpo), centro (La sede adatta, In archivio), circonferenza (Scaramanzia), vortice (La notizia, Cablo), rotolo (La notizia), tondo (Cablo), zero (Tiro a segno), compasso (La torcia, Trecentosessanta). Continuando, si potrebbe estendere l’insieme dei riferimenti anche agli usi delle parole occhio e mondo.
Intrecciati nel loro sviluppo, sempre soggetto a interruzioni e riprese, sono anche certi filoni tematici: quello delle armi e del “colpo in canna” (ne Il come il quando il dove: Sorriso, Colpo, A noi due; in Sagoma 1: Tiro a segno, Tiratore, Veterani; in Avviso: Un dramma passionale), legato, in altri componimenti e in altre sezioni, alla tematica del suicidio: Pistole automatique (Qualcosa di preciso), Al bivio (Il come il quando il dove), Smith & Wesson (Sagoma 1) e A Vittorio (Sagoma 2)234 o quello della cecità, che a partire da Qualcosa di preciso (in particolare Trofei, ma tutta la sezione insiste su questo tema) arriva a La campagna d’autunno (I colori del Sud), passando attraverso Moto a luogo (Chiara, tonda). Altro tema, nel contempo specifico e connesso al precedente, è quello della guerra, declinato in più modi (battaglia, assedio, invasione, imboscata, ammutinamento), spesso accompagnato da atrocità e da certo cameratismo militaresco (particolarmente efficace la serie Rigore, Filo, Minaccia, La terza, Tiratore e Veterani con cui si chiude Sagoma 1, ma citiamo dalla stessa, e anche da altre sezioni, Può e non può; A noi due; Nomi, memorie; Là dietro; Cattura; La tigre; Quinta colonna).
Da ricordare, perché tra i più significativi del libro, anche il tema della malattia fisica e psichica (Fine, Salus, Distonia), in cui rientrano il virus di Inizio, il germe di Sublimazione, i batteri e il vaccino di Caccia grossa, l’invisibile radioattività di Perderci la vita, il contagio di Un cubo di calce, il veleno di Al largo e le molte esplosioni di rabbia e i desideri autodistruttivi già constatati a proposito della presenza diffusa di armi. Si tratta di azioni lesive ai danni di cose e persone tanto quanto ai danni di se stessi; sfoghi da vera e propria Anger room, paradossalmente necessari a ristabilire quello che oggi la psicoterapia chiamerebbe uno stato di “benessere”. Cattafi sottolinea, in questo modo, la prospettiva nevrotica e malata della modernità e la fa rientrare nella serie di immagini utilizzate, come risulta leggendo l’attacco di Salus: «Né Sade né Masoch / soltanto un igienico intervento». Sia la “salute” cui rimanda il titolo sia il sintagma «igienico intervento» possono essere letti come riferimenti specifici all’igiene mentale e alla salute pubblica, ossia al rapporto specifico tra singolo e comunità. La questione, sia sociale sia esistenziale, dell’altro (e degli altri) torna a farsi inevitabile; trattandosi universalmente di vittime è possibile difendersi da loro solo attraverso una paradossale assimilazione: «serrarli al tuo corpo con dolore / […] riconoscerli»(La muta).
Cosa tiene uniti lessico e percorsi così diversi? Il disegno d’insieme de L’osso, l’anima può essere definito come la narrazione di un mondo che va da un massimo di astrazione a un minimo di realtà (la cui espressione troverà, in seguito, conferma e sviluppo nell’esperienza della pittura). Il racconto di ogni evento assume una straordinaria valenza figurativo-esemplare, segnando le tappe dell’epos cattafiano. Quella dell’io e del noi è dunque una disposizione av- venturosa e tragica nei confronti del mondo intero e degli altri: l’espressione assoluta e incondizionata di una poesia che «appartiene alla nostra più intima biologia» e «condiziona e sviluppa il nostro destino».
Quando all’inizio degli anni Settanta Diego Sergio Anzà interroga Cattafi sulla «funzione della poesia oggi, in un’epoca così materializzata, tecnicizzata e meccanizzata», il poeta risponde confermando, anche in quell’occasione, una visione eroica coerente con quella passata. Si tratta di una considerazione poco citata, che dimostra una volta in più il legame cattafiano tra categorie universali (archetipiche) e tempo storico. La poesia ha, dunque, un preciso dovere: «Non abdicare alle forze dello spirito, possedere un’ovvia carica di denuncia, di protesta, essere infine un fattore umanizzante contro quelle forze che tentano di imprigionarci e di avvilirci sempre più». Risiede nella natura eroica dell’io e del noi il valore specifico della poesia di Cattafi: una sfida alla morte giocata dalla vita stessa; una «cattura violenta del reale», fatale e tragica, come sempre in ogni mito, svolta fra le sue pieghe e nella sua trama più enigmatica.
A fare da collante a questo epos frammentato, percorso da eventi e presenze spesso intangibili, parziali conquiste, condanne e impossibili soluzioni, è uno stile che ricorre a una serie di tecniche precise, dove la base endecasillabica dei versi permette a ogni frase di compiere le necessarie escursioni ritmiche utili a produrre rapidità e concitazione (Maccari ha parlato di «velocità ellittica»), quasi che le parole ogni volta vibrino, alla lettura, della stessa tensione mentale provata contestualmente dal poeta. Ne consegue una lingua perfettamente orchestrata e omogenea, che fa da catalizzatore dei contenuti e la cui tenuta permette a registri fra loro diversi, da quello epigrammatico a quello elegiaco, di coabitare.
La forza della poesia cattafiana consiste in questo suo porsi, coraggiosamente, nell’incerto tessuto su cui si regge il mondo e nei suoi angoli ciechi, così come nei ritmi discontinui del pensiero, con rapidità fulminea, per rivelarne i pieni e i vuoti. Le singole poesie non sembrano, nel loro sviluppo, esaurire un argo- mento o una situazione. Di testo in testo, di sezione in sezione, il pensiero riprende il filo di un discorso continuamente lasciato a metà, utilizzando una carrellata di angolature diverse e ricorrenti che ricorda, in molti casi, la proliferazione delle immagini di certi magic box o le sequenze di fotogrammi contenute nei souvenir di una volta. Un insieme poliedrico e ciclico di percorsi nel contempo indipendenti e correlati, che non vanifica possibili sviluppi o direzioni, per quanto relativi e spesso destinati ad accavallarsi o interrompersi. L’osso, l’anima è come un gioco prismatico di superfici specchianti nascoste nei punti più inaspettati della realtà («un prisma dalla troppe divergenze», Un prisma): capaci di riflettere, deformare, rovesciare, finanche abbagliare ogni suo aspetto, moltiplicandolo o rendendolo apparentemente invisibile. In questo spazio geometrico, le sette sezioni de L’osso, l’anima sono in tutto per tutto assimilabili alle superfici di un eptagono, ossia al primo fra i solidi poligonali che non può essere costruito con il semplice utilizzo di riga e compasso. Una suggestione, questa, che forse sarebbe piaciuta a Cattafi: pensare che il suo libro è in fondo irriducibile alla forma della necessità: quel cerchio che pur stringendo e avvincendo la vita, non riesce a contenere nel suo giro la poesia.