di Mircea Cărtărescu (trad. di Bruno Mazzoni)

 

[E’ uscito di recente per Feltrinelli  il terzo  numero della rivista “Sotto il vulcano. Idee/Narrazioni/Immaginari”, diretta da Marino Sinibaldi. Il numero è dedicato al tema “Fuori luogo” ed è curato da Andrea Bajani. Per gentile concessione dell’editore riprendiamo questo intervento di pMircea  Cărtărescu].

 

Un complesso amore-odio mi lega alla città nella quale ho trascorso la mia intera vita, così come a ogni oggetto che riconosco non avere una realtà propria, ma che esiste compiutamente nel profondo del mio cervello. A volte, questa estensione di terreno con costruzioni e strade mi sembra orrenda, simile all’apparecchio metallico che Freud ha portato per la durata di undici anni in bocca, al posto del palato, altre volte vedo in essa un mandala su cui mi chino con tale concentrazione da avvertire in che misura le antenne e i parafulmini in cima agli edifici della Televisione, dell’Intercontinental e della Casa della Stampa libera (la vecchia Casa Scânteii) mi scalfiscono la retina. Una volta, con un mezzo sorriso autocaritatevole pensavo: a Joyce è stata data Dublino, a Borges Buenos Aires, a Durrell Alessandria d’Egitto, “però il Signore, eterno e buono, / a me, da quando lo supplico, non ha assegnato nessuna” di queste città-mito, città che compaiono solo in sogno e, forse, in punto di morte. Quand’ero adolescente, quando, leggendo Dostoevskij, pensavo che, dal momento che Dostoevskij non è stato un angelo, ma un essere umano come me, avrei potuto scrivere anch’io qualcosa, magari di più riuscito di Netočka Nezvanova (non sapevo a quel tempo che non può esistere qualcosa di più riuscito), essendo di fatto allora un giovincello ammattito dal Libro che avrebbe poi scritto (dopo il quale si sarebbe naturalmente suicidato, prima dell’orribile età della vecchiezza estrema, cioè dei trent’anni), calcolavo e soppesavo con disperazione l’infimo “correlativo oggettivo” di cui disponevo – poiché volevo scrivere prosa, soltanto prosa, è stata un’ironia della sorte l’avere pubblicato prima poesia – : alcune figure, alcuni percorsi attraverso Bucarest… Gli enigmi non volevano comparire. Sotterranei non ne esistevano. Le persone erano gentili, mentre la città era piatta come un orologio da polso, fissato a mo’ di cinturino all’ansa della Dâmboviţa. Dov’era lo splendido, lo splendido tramonto pietroburghese, con uno studente chino sopra un ponte, sognante sulle acque della Neva? Dove i tunnel di mattoni sotto la Buenos Aires de L’angelo dell’abisso, in cui, nella voragine più profonda, una Cieca apre le cosce, e le palpebre della vulva si schiudono per mostrare uno sguardo azzurrino? Non trovavo da nessuna parte né Justine del quartiere copto, né Frida delle taverne di Praga, né Alejandra, perché ancora non le avevo incontrate tutte nella figura di un’unica bimbetta-donna, con una città che le ruotava attorno come un’ampia gonna o come una tela di ragno. Avevo cominciato a scrivere allora un romanzo-sonetto, con quattordici capitoli raggruppati in quattro parti. Ogni capitolo doveva essere scritto in uno stile diverso, al posto delle rime avrei trovato acute corrispondenze tra i capitoli uno e tre, due e quattro… La forma era stupenda, ma con che cosa l’avrei riempita? Non conoscevo gli esseri umani, non m’interessavano, del resto nel corso della mia vita non ho scritto un solo dialogo. Non avevo amato e non avevo odiato nessuno. M’immergevo dunque in descrizioni, descrizioni interminabili di case e vecchi bloc, stravecchi, sgretolati, corrosi da vermi e forfecchie all’interno, con finestre rotonde che riflettevano il tramonto denso come bitume, con ascensori antidiluviani che scivolavano pigramente entro gabbie di rete metallica sudicia e piena di morchia. Strade con case demolite, con qualche muro soltanto rimasto in piedi, simile a un pezzo di molare col piombo saltato via, alberi di un verde incredibilmente sbiadito, del colore dell’allucinazione… Spiazzi desolati con lavelli arrugginiti e carcasse di ghiacciaie, escrementi e fili di ferro… Due, tre, dieci pagine sui vagabondaggi di un personaggio in mezzo a siffatti brutti luoghi… E depositi di mattoni rossi, con arpesi di ferro, con muri più ampi dell’orizzonte… Strano è che sognassi allo stesso modo e d’altronde, nei periodi in cui ho scritto, ho sempre sognato pure le stesse cose, senza poter dire con sufficiente chiarezza se il sogno precedesse la scrittura o viceversa. Sognavo facciate di edifici adorni con stucchi, con statue in posture inverosimili, patetiche, che tendevano le braccia verso di me, schivando colpi, implorando… Cupole di rame al di sotto delle quali non c’era nulla di dimensioni umane, con immense aperture rotonde su in alto, nel centro… Piazze deserte, sotto un sole diafano, dove, nella luce giallastra, si ergeva una torre parimenti gialla, polverosa e misteriosa… Da dove mi giungevano queste immagini, così coerenti a livello emotivo, così dolcemente strazianti? Alcune le ho ritrovate più tardi in Desiderio Monsù, in De Chirico, ovviamente – l’inquietante paesaggio con una fabbrica della collezione Barnes di Filadelfia –, e le altre (quando ho sognato di essere a Parigi), giusto a Parigi, città che in realtà ho visitato per la prima volta solo in seguito. Quando però sollevavo gli occhi dal foglio che scarabocchiavo con la penna e che era già diventato giallo come la fiamma di sodio e poroso nell’imbrunire d’ottobre, vedevo, dalla tripla finestra panoramica della mia stanza che dava su Ştefan cel Mare, un’altra Bucarest, che non voleva in alcun modo entrare nella mia scrittura in prosa. “Donna, che cosa ho in comune io con te?” mi veniva da dire a questa ciarlatana estesa fino all’orizzonte, con costruzioni dai coppi rossi sparse tra pioppi e carpini, come quiete corti sottese dall’onirismo poetico di Dimov, con, all’orizzonte, il grande magazzino Victoria e la pubblicità rotonda, azzurra che cominciava già a tremolare GALLUS, sostituita giusto venti anni fa con la réclame PEPSI. Brutta, provinciale, con delle ciminiere grigiastre di una remotissima centrale termica, la città “reale” mi oltraggiava, mi sputava in faccia un flegma cinereo. Grigio, grigio sarebbe stato il mio destino letterario, giacché ad alcuni era stata data Vienna, a me invece questo tedio senza fine. Perciò non riuscivo a scrivere il romanzo-sonetto, dove si celava infatti la mostruosa bellezza? Dentro bloc simili a scatolette di fiammiferi? Dentro dimore della borghesia imprenditoriale? Nel grande parco di Herăstrău? I folli di Canetti, l’Empusa di De Mandiargues, la sonnambula Nadja erano qui sostituiti da oligofrenici, da “affittuari”, da anonimi “cittadini” con i quali non c’era nulla da fare.

 

Ho abbandonato la prosa e, nella canicola dell’estate successiva, provato come non ero mai stato dalla solitudine, privo di risorse per potere andare da qualche parte, senza un amico con cui potermi incontrare, ho cominciato a uscire per una specie di passeggiata quotidiana, rituale, nell’idea di ricondurre entro limiti sopportabili la mia angoscia, in qualche modo alla maniera delle persone particolarmente angustiate, che a volte vanno in spazi aperti e descrivono ampi cerchi camminando per ore intere. Soltanto allora ho preso coscienza del fatto che non conoscevo la città, che Bucarest era per me (e tale sarebbe rimasta) solo quella che percepivo nei miei sogni limpidi e strani in cui a volte mi sollevavo in aria fino al livello più alto delle finestre di un qualche edificio imponente e isolato, guardandovi dentro, in stanze con dattilografe in camici verdolini. Stavo finendo la scuola primaria nel plesso 28, vicino al Circo di Stato, e non ero ancora mai stato in centro. L’intero mio mondo era rimasto quello della mia mamma, la quale, donna semplice giunta dalla campagna, aveva fissato con esattezza il suo campo d’azione tra il mercato di Obor e la zona di Dorobanţi, con una propaggine fin verso Floreasca, l’area delimitata dalle tre sale cinematografiche in cui andavamo: Volga, Melodia e Floreasca. Assai di rado uscivo fuori da lì e mi coglieva allora una sensazione di estraneità, d’insicurezza metafisica, come se fossi calato nell’aldilà. Per nulla al mondo la mamma sarebbe andata a vedere un film in centro. Persino oggi evita di uscire dal suo feudo. Quel triangolo “immune” dall’angoscia era tutto ciò che conoscevo dell’universo, era un neurone, era come se, per conoscere il mondo, fossi stato dotato di un solo neurone, che aveva pure due sinapsi relativamente affidabili: il cammino che portava fino alla casa di Tanti Sica (diventata Tanti Aura in REM, il racconto omonimo del mio libro intitolato Nostalgia), la sorella di mamma, un tragitto lungo con il tram, fino alla fermata di Dudeşti Cioplea, girando attorno all’enorme statua del gendarme nel rondò, e il percorso più breve fino alla casa della mia madrina, Tanti Naşa, da qualche parte nella zona di Tei, in una strada di autentica mahala. La mia madrina si chiamava Victoriţa e aveva un figlio piuttosto sudicio, Marian, col quale ero costretto a giocare. La casa però, che rivedo spesso in sogno – là accadono orribili incesti, là rubo qualche statuina da una vecchia credenza, là avviene anche una vicenda sulla quale non ho ancora osato scrivere – era una costruzione strana, con un primo piano e una soffitta. Salii una volta, quando avevo all’incirca cinque anni, attraverso una galleria azzurra, fin su nell’ampia soffitta, completamente vuota, a eccezione di un albero di Natale addobbato con delle figurine lavorate al traforo, poiché suo marito era insegnante di falegnameria in una scuola. Lui staccò allora dall’albero una figurina, un orso, che mi donò e che conservo ancora oggi. È uno di quei pochi ricordi che considero premonitori, accanto al fatto che al momento del rituale taglio del ciuffo, quando compivo un anno, si racconta avessi preso da sopra al vassoietto, tra alcune monete, un bicchiere e non so cos’altro, la penna stilografica, come pure il ricordo delle parole del bimbetto di un paio d’anni che, in via Domniţa Ruxandra, mentre andavo al liceo, mi spuntò davanti da un cortile, mi guardò fisso negli occhi e mi disse nitidamente, con una vocina che sembrava non fosse la sua: “Fortunato!” Queste due direzioni, le mie Swann e Guermantes, completavano la Città, il mondo. Per quel che riguarda l’orso, esso è stato al centro del più terrificante sogno che io ricordi, fra gli innumerevoli miei sogni con animali feroci: un po’ dopo avere ricevuto la figurina traforata sognai un essere immenso, con zanne piene di bava, che ringhiava in modo strozzato nel fondo della foresta. Mi svegliai gridando nel buio, mi aggirai nella casa labirintica, come per ore, urtando contro i mobili, finché non vidi la luce della porta a vetri del bagno. Aprii la porta (la maniglia arrivava al di sopra del cucuzzolo della mia testa) e, nella luce giallastra come urina, nel vano stretto e infinitamente alto, con pareti del colore dei cadaveri, vidi la mamma che lavava i panni nel lavandino, nel cuore della notte. Bagnata fradicia, avvolta nella schiuma e nel lezzo del sapone verdognolo da bucato, a seno nudo e con i capelli umidi aggrovigliati sulla schiena lunga e magra, con scapole spigolose, era come una statua di una grandezza smisurata, occupando completamente l’unico vano illuminato dell’universo. Sì, la mia Bucarest aveva al centro la mamma.

 

Soltanto alla fine, abbandonando le velleità delle mie prime prose, su questo nucleo primitivo si è sovrapposta un’altra città, quella emozionale, di modo tale che negli anni d’università cominciassi a ricoprire anche la Bucarest dell’adolescenza con un’altra Bucarest, molto più vasta, sopra la quale il mio homunculus potesse crogiolarsi come su di un letto con le lenzuola sgualcite. Infatti, così come sotto la calotta cranica ho tre cervelli sovrapposti, di rettile, di mammifero primitivo e di essere umano, lo spazio del mio immaginario è occupato da tre Bucarest: della mamma, della prima donna e della poesia. E se, un giorno, sul cervello umano si sovrapporrà la struttura diamantina, assurda, di un cervello angelico, quale città archetipale, quale Hierapolis celeste le corrisponderà? Solo al tempo del liceo, smarrendomi con LEI per mano (Lolita, Sonia, Raşelica Nachmansohn, Clea, Nana e la mia Gina simultaneamente) nella violenza e nella tristezza sconfinate di una Bucarest sessuata, nella giungla priva di speranza delle gonadi, nel parco della gelosia di Grădina Icoanei, nella rabbia sconfinata chiamata amore di via Toamnei, negli anditi dei corpi appiccicati e delle bocche che si cercano, e delle mani che s’inerpicano, sotto una gonna, fino alla pelle tenera dell’interno della coscia e più su, fino alle mutandine sotto le quali si avvertono, aspri, i riccetti della peluria pubica, nella neve che cade silenziosa nella piazzetta triangolare, deserta, sotto la luce di un lampione al neon, nel boulevard Kiseleff della nostalgia, nel Museo Antipa dell’antipatia, nel gelo dell’altana del Foişor de Foc dei pompieri, nella via Uranus col cielo pieno di stelle, al liceo soltanto il triangolo iniziale si era dischiuso titubante, palpabile, esitante, come un’ameba ovvero come il palmo di una mano con dita sensitive, divaricate, quasi come se le orme dei nostri passi fossero impronte digitali e con le rotaie del tram 26 e del 5 simili a linee dell’Amore e della Fortuna, col poggio su cui sorge la Chiesa Metropolitana simile al monte di Venere, con nuvole riflesse sull’acqua come fossero lunule sulle unghie dei laghi Floreasca e Tei, Cişmigiu e Herăstrău, e Tonola, che incorniciano la città.

 

Sceglievo nei nostri viaggi di nozze di un impossibile sposalizio percorsi strani e marginali, stradine che oggi nemmeno esistono più (così come non esiste più nella mia mente incattivita spazio per l’amore), con case dall’intonaco rosa, con tettoie di vetro colorato, con oleandri fioriti, con corti interne, con gattine che si rotolano nell’erba. Ci fermavamo per stuzzicare dei grossi ragni, sospesi fra piante di rose, c’infilavamo in anfratti dimenticati da Dio, con costruzioni spettrali, con gorgoni che sostenevano finestre cieche, con leoni di pietra e draghi di cemento, sbrecciati e ingialliti, cavalcati da bimbette occhialute. Quando ancora oggi passo, a caso, per qualcuno di quei luoghi, continuo a vedere nitidamente la traccia di vaccino sul suo braccio scoperto e sudato e avverto ancora quella stretta al cuore e ai testicoli, quella torchiatura delle ghiandole interne e della ghiandola più esile che secerne il Tempo, mentre le ghiandole agli angoli dei miei occhi secernono serotonina. Così la pianta della mia città è screziata con gorghi e mulinelli di nostalgia pura. Non ho mai notato i nei sul corpo della mamma, conosco però nei minimi dettagli i nei scuri, marroni e vagamente traslucidi sul corpo della prima fanciulla che ho carezzato nuda, e le stille di nostalgia sul volto di Bucarest, i posti in cui ci siamo fermati, ci siamo baciati e siamo rimasti abbracciati, in cui abbiamo chiacchierato, dove abbiamo bevuto e dove ci siamo detti parole terribili, essi corrispondono esattamente ai nei sulla pelle di lei. Il romanzo-sonetto era lontano, e la follia insopportabile per la perdita dell’amore mi aveva reso a un tratto idoneo per la poesia. Avevo affittato un monolocale in una mansarda, con un tavolo, una sedia e un letto, su via Domniţa Bălaşa. Per quanto austero fosse l’interno, quanto mai gongorino era il balcone di ferro battuto, con infiorescenze Jugendstil, con inframezzati ripugnanti mascheroni. Nel tramonto rosso fiamma uscivo sul balcone e osservavo le cupole azzurrine della città. Solo allora, negli anni d’università, ho preso dimestichezza col centro della città, quasi fossi vissuto fino ad allora sottoterra, come una larva nell’infanzia, una ninfa nell’adolescenza, e fossi uscito solo ora nel nuovo spazio traslucido, come imago. Alla fine delle lezioni, che non mi dicevano granché, girovagavo fino a sera in centro, nella piazza disseminata di statue, tra i negozi attorno alla statua equestre di Mihai il Bravo, pieni di profumi e cristalli a buon mercato, passando davanti all’albergo Intercontinental e al Teatro Nazionale, vicino a Sala Palatului e lungo Calea Victoriei… Avevano cominciato a piacermi la città moderna, il traffico, gli uomini più eleganti, le donne più attraenti… Ho scritto allora Poesie d’amore, in cui Bucarest appare come una metropoli occidentale, piena della magia dei neon, della meraviglia delle autostrade, del cristallo dell’architettura contemporanea. Avevo scoperto le librerie e le gallerie d’arte, i cenacoli lungo Schitu Măgureanu e sulla linea del filobus 89, le piscine, la casa editrice Cartea Românească e gli immensi gelidi corridoi di Casa Scântei (l’enorme edificio del decennio staliniano, dov’erano concentrate le redazioni di tutti i giornali e la connessa tipografia), una Bucarest intellettuale, preziosa e stipata come un profiterole in una coppa d’argento. Avevo rimosso il Triangolo originario e il reticolo di nei emozionali, poiché ora, ariosa, colorata, in strati di quarzo sovrapposti, disposta in due emisferi separati dal corpo calloso della Dâmboviţa, il ruscelletto che attraversa la città, avevo infine una Bucarest mia, una città personale, su misura per me, nel cui centro non c’erano più né la mamma, né l’amante, ma io stesso, lo scrittore che creava la città. Il mio idillio con questa città è stato il mio idillio col miraggio della poesia. Ero solo come un cane, girovagavo per un’intera estate, smunto, allucinato, davanti all’hotel Continental e al Palazzo dei Telefoni, intorno all’Athénée Palace e al cinema Patria, generando immagini su immagini, esultando e lasciandomi trasportare nell’atmosfera di bagliori accecanti di una gloria che io solo vedevo…

 

Durrell aveva Alessandria d’Egitto? Cortázar Buenos Aires? Joyce Dublino? E avevo però anch’io Bucarest! Una città malleabile, proteiforme, che la mia immaginazione modellava a suo piacimento, la faceva ruotare intorno a cangianti punti di vista, come sul monitor di un computer, la colorava in giochi di riflessi e fioriture d’intrusione (“sembri un pavone, con Bucarest arruffata dietro di te”, scrivevo), la stropicciavo e la farcivo con mica, diorite, ematite e tanfo di granchi putrescenti ed alghe (“Bucarest è un’ostrica con dentro il ristorante ‘Perla’”, scrivevo), la trascinavo attraversando mito e allucinazione, analogie e paralogismi, surrealismo e Art Nouveau e pop e op, e immaginavo la genesi di una formidabile creatura animale fatta di luce gialla, un feto con un diamante in fronte, originantesi dalla doppia elica, con basi puriniche e pirimidiniche, eretta nel mercato di Bucur Obor (“sopra Bucarest con muri e onori / erano sorti i soli”, scrivevo). Hashish, mescalina, morfina, curaro e Merital erano i cinque elementi da cui si modellavano muri e alberi, volti umani con occhi rosa e labbra viola, automobili incolori e diafane simili alle pulci d’acqua, semafori come dei cervelli con un focolaio epilettico attivo. La farmacia Nr. 111 vaticinava, la pompa di benzina vicino al ponte in direzione Voluntari parlava diverse lingue, il bar di via Teiul Doamnei dava guarigione tramite l’imposizione delle mani, il Teatru Mic rimetteva in piedi gli infermi, la Chiesa Anglicana dava fuoco agli alberi maestri, scorti d’autunno all’orizzonte con una lente tatuata. E tante altre buffonate a non finire! Se esistesse felicità in seno a solitudine, schizoidia, grafomania, glossolalia, anoressia, aprassia, atassia, se fosse reale la condizione di Bardo della meditazione concentrata, se il primo fra i chakra, Sahasrara, il chakra della corona, la sfera di fuoco radiante sulla sommità dell’apertura brahmanica, fosse il vero occhio col quale costruiamo il mondo, sarei stato allora felice, vivendo nel Bardo e sopra di me sarebbe bruciato il divino Sahasrara. Ci si annoia però con le immagini, questo è il lato spiacevole con le immagini. Quando ti prepari un nescafé, versi un cucchiaino di caffè solubile su un cucchiaino di zucchero. Agiti un po’ il bicchiere finché tra i granuli marroni cominciano a spuntare quelli bianchi. Ben presto essi risultano mescolati in maniera omogenea. Da quel momento, qualunque cosa faccia, per quanto voglia agitare il bicchiere, non potrai mescolarli meglio e non potrai più separarli.

 

La stabilità, cioè la morte. Dopo un po’ di anni di gioia inventiva, la mia poesia è morta per l’incapacità di progredire, di migliorare. Sono quasi morto anch’io insieme a lei, a quel punto. Sono rimasto a letto ogni giorno, per intere ore, fra lenzuola madide, atterrito e disperato al pensiero di non potere più scrivere, angustiandomi, facendo esercizi di impazzimento, bevendo quindici caffè al giorno. Se fossi stato capace d’ingerire alcol, mi sarei distrutto la mente bevendo. Per circa un anno non ho fatto più nulla, non sono più uscito, non ho quasi più dormito, e quando mi assopivo sognavo di scrivere poesie con immagini così fantastiche che sentivo che mi si rizzavano i peli sulle braccia e i capelli in testa, quando però mi svegliavo mi rendevo conto della loro imbecillità e mi sforzavo per addormentarmi di nuovo. Più o meno allora sono iniziati i sogni che avrebbero generato la mia scrittura in prosa. Il rimosso cominciava a ritornare, il postmodernismo si spostava verso il modernismo, che, come un film alla moviola, scivolava lentamente verso il simbolismo di Redon e De Chavannes, per sprofondare compiutamente in Caspar David Friedrich. Regredivo, mi rimpicciolivo, discendevo gli strati della mia mente, perdevo lo stadio genitale, arretrando verso quello anale e orale… Durante il giorno mi balenavano ricordi dolorosi, lontanissimi, che non mi lasciavano nemmeno il tempo di visualizzarli, di rendermi conto da dove venissero, se erano ricordi di certi sogni, di alcuni momenti reali o magari di una vita anteriore (un quadro di Claude Lorrain che mostra una rada in cui penetra un vascello, e costruzioni di marmo, archi e colonnati, sulla riva, l’acqua color fiamma e l’architettura resa traslucida dal tramonto del sole, mi ha sempre dato la certezza struggente di essere stato lì una volta), mentre di notte vedevo più chiaramente luoghi che avevo dimenticato da tanto, le abitazioni dov’ero stato fino ai due anni, poi fino ai quattro, ai cinque… Il tutto sfigurato dall’emozione, dallo sgomento fino all’estasi… Una luce verdastra, cadaverica, avvolgeva le stanze dalle volte incredibilmente alte. Le porte erano tutte come delle ferite rosso scuro, da cui trasudava a volte il sangue. L’aria era grigio fumo, crepuscolare. Procedevo in questo ambiente gigantesco, posavo la manina sulla carta da parati a fiorellini, mi fermavo terrorizzato di fronte alla ragazza zingara che compariva sull’uscio, sorridendomi e porgendomi un pezzetto di rahat lokum giallino, gelatinoso, ricoperto di zucchero a velo… Entravo in bagno e, al posto della tazza, del lavabo e della vasca, scoprivo un’ampia sala per conferenze, deserta, con un lungo tavolo, con sedie e opuscoli fin su al soffitto, disposti lungo le pareti… Fra le braccia della mamma fluttuavo a un’altezza strabiliante, al di sopra della strada, in direzione del negozio di alimentari. Per tutto il tempo che ho dedicato a scrivere il mio libro Nostalgia ho cercato con tutte le mie forze di ricordarmi quanto più possibile dei primi anni d’infanzia. Una fascinazione potente mi spingeva a seguire per intere mattine tragitti che non avevo più percorso da due decenni: sono andato a vedere il bloc dove avevo abitato per un anno, nei pressi del deposito dei tram di Floreasca, e dove i balconi erano così ravvicinati che la nostra dirimpettaia mi prendeva dalle braccia della mamma, facendomi varcare il vuoto sottostante profondo quattro piani… Sono stato, sempre nel quartiere Floreasca, nella via con un nome di musicista e sono entrato nella villa misteriosa in cui, a quattro anni, avevo giocato con Silvia “al dottore”, guardandoci le tristi escrescenze degli organi genitali ignudi. Sempre lì mi ero rivisto molto spesso nel ricordo mentre stavo alla finestra e guardavo un libriccino il cui titolo, quando me ne sono all’improvviso ricordato, mi ha riempito di emozione: la Fiaba dello zar Saltan. La vera rivelazione però, il vero risveglio della memoria affettiva, come nel film Lo specchio di Tarkovskij quando il bambino comincia a parlare sotto ipnosi, c’è stato una mattina di qualche anno fa, quando sono andato a cercare la mitica casa di via Silistra, dove avevo abitato fino ai due anni, e dalla quale avevo i miei primi ricordi: la casa in sé, a forma di “U”, abitata da inquilini cenciosi, dalla prostituta Coca, dal vecchio Nenea Nicu Bă, operaio nelle officine della ferrovia, da un nugolo di figli dei proprietari, comare Catana e il vecchio Catana: il vaporetto di legno su una credenza; il cagnolino Gioni, che io chiamavo Doni; il tacchino che faceva la ruota in cortile; il babbo che si radeva la barba all’aperto davanti a uno specchietto grande quanto un palmo di mano; la campanella dorata che mi era caduta in una pozzanghera e che non ho mai più ritrovato… Ho ritrovato il quartiere, tutte le vie avevano però denominazioni diverse. Quartiere suburbano, di mahala, con oleandri nelle corti e tettoie con vetri colorati. Mi sono aggirato e rigirato per stradine labirintiche, ho attraversato piazzette silenziose, ho osservato a lungo costruzioni alte, a forma di torretta, che di sicuro avevo già visto da qualche parte… su via Pâncota l’aria non è più la stessa, è cambiata, è diventata cupa… Pâncota: pântec, grembo, ventre… Ho riconosciuto come in sogno il negozio di alimentari, dal soffitto basso, col geranio avvizzito vicino alla cassa, sono passato accanto ai resti intonacati d’azzurro di alcune case in rovina come quelle di Malte Laurids Brigge, accanto a vecchine che giravano sorprese il capo al mio passaggio, sono entrato con la morte nel cuore in cortili con neonati in carrozzine e bimbette che battevano i palmi due a due barbugliando, ho schivato lo sguardo della ragazza rom dal balcone sorretto da due cherubini di gesso screpolato e sono arrivato davanti alla casa del civico 66. Oggi non esiste più, l’intero quartiere è stato demolito, prima che potessi scattare almeno una fotografia. Colonne al primo piano, finestre con vetri rotti sostituiti con della carta azzurra, sensazione di abbandono e di progressivo sgretolamento… Una carcassa d’automobile americana dei primi anni sessanta, senza ruote, senza fari, che occupava l’intera corte. Una porta di legno semichiusa sul lato sinistro, dove avevamo abitato, al primo piano, in una sola stanza con cemento in terra, che era allo stesso tempo cucina, sala da pranzo e camera da letto. Dal più profondo della mia mente guardavo senza capire questo rudere. Desolato, mi sono messo ginocchioni, e allora, a un tratto (perché lo guardavo ora dall’altezza del bimbetto di due anni?), tutto è esploso nel mio cervello in un flusso abbacinante di luce. Mi sono rialzato, ho aperto la porta e mi sono diretto verso l’uscio semichiuso. Ho salito i gradini di una contorta scala a chiocciola, in cima alla quale mi attendeva, enorme, una porta rosso scuro.

 

L’ho aperta e ho sostato sull’uscio, stordito dalla luce splendente della stanza: sul letto con lenzuola di un biancore irreale giaceva la mamma, giovane e nuda, con la macchia rossa di lupus su un’anca, con i capelli sparsi sui seni e sugli omeri, con gli occhi che brillavano come diamanti, porgendomi un sorriso di benvenuto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *