di Mariano Croce
In Rugiada d’oro, uno dei racconti di A caso, libro che nel 1975 valse a Tommaso Landolfi il Premio Strega, si dà corso a un’operazione di critica dell’ideologia più efficace di un secolo e mezzo di studi e trattati. Si espone e denuncia l’espediente letterario mediante cui un discepolo del Profeta della Nuova Religione dissimula l’ordinarietà della vita fisiologica del Maestro sotto l’aura ventilata di un sacro che pretende sgorgare da ogni suo gesto. Il discepolo, con altezzosa postura agiografica, offre indizi sulle circostanze in cui il Maestro compie una delle sue tante azioni destinate a tracciare solchi nella storia. Comincia con un cauto soppesare le parole utili a indicare i luoghi e richiamare i movimenti e individua poi le locuzioni più adatte a trasmettere l’imperativo ascetico che risuona in ogni seppur minima allusione al Profeta. La solennità di un registro tanto sofisticato, benché misero nello stile, è segno del convincimento fermissimo, nel discepolo, che non si possa introdurre gesto del Profeta se non per tramite di una sorta di mistica dell’esperienza ordinaria atta a filtrare ogni contatto, diretto o indiretto, con Chi annuncia la fine dei tempi. All’interlocutore quest’ecclesiologia d’accatto puzza di truffa sin dall’inizio, e con tono insistito interrompe il discepolo per farlo cadere in tutti i punti in cui il terreno del discorso si mostra friabile. Lo ferma a più riprese per rimproverargli una retorica vuota, lo obbliga a precisazioni d’ogni tipo, lo richiama sul punto sabotando l’operazione di proselitismo subliminale. Il piano-sequenza della demistificazione è rapido ed efficacissimo: al nocciolo, il racconto del discepolo diceva del Profeta che lungo il percorso manda avanti i suoi discepoli, si ferma davanti un albero ed orina. Il discepolo però non desiste: si rifiuta di svilire un’indiscutibile teofania, benché di vita bassa, e chiude: “È semplice: che egli, Egli, volesse a sua volta immollare di benefica rugiada la terra riarsa, e in tal modo renderla feconda per i secoli. Una rugiada d’oro: quale al divino Maestro si conveniva piovere”.
Insomma, nel mondo dei valori trasvalutati, inventarsi miti teogonici per imbellettare una minzione espone al rischio di uno smascheramento facile. È per evitare questo effetto di rapido disarmo che la filosofia del secondo Novecento si è fatta più cauta, meno incline a proclamarsi erede dei grandi progetti metafisici d’altri tempi, e a circoscrivere un campo ristretto, fuori dal quale, si ammonisce con preoccupato giudizio, la teoria non vale o vale solo per approssimazione. Con poche esclusioni, nessun afflato soprastorico, nessuna tesi epocale che sfidi l’angustia di una visione limitata: nessun* che abbia il cuore di dirci qual è il tratto distintivo dell’essere umano o quantomeno la linea portante della nostra epoca. Una stagione, la nostra, povera di profeti, che si merita dunque gli scarni resoconti di cose che in fondo sappiamo già. Fa eccezione il libro di Tristan Garcia, da poco tradotto da Nottetempo col titolo La vita intensa. Il suo incedere teorico è quello da far tremare i polsi, là dove sostiene di aver individuato la cifra del moderno e insieme il modo in cui questa cifra determina la vita di ognun* di noi nel più intimo dettaglio. Non che si offrano coordinate temporali chiarissime – “da alcuni secoli incarniamo un certo tipo di umanità” (p. 14) – ma è certo che si parla di un prima e di un poi, la cui separazione è scandita da un’irrecuperabile trasformazione dei canoni che poniamo a base delle nostre scelte quotidiane: “L’intensificazione del mondo, l’intensificazione della nostra vita. Ecco la grande idea moderna” (p. 28).
Insomma, non sappiamo bene quand’è nata la modernità, ma, secondo Garcia, possiamo individuarne tracce evidenti in quella che chiama “intensità”, ovvero “l’unità di misura intima” (p. 10) della vita nel perimetro dell’era moderna. La tesi, nella sua ambizione d’altre stagioni, ha una sua plausibilità, e vorrei qui tentare di darne conto nel mio lessico. Venute meno le assiologie granitiche dell’antichità e dell’età di mezzo, il soggetto moderno si ritrova privo di grandi cornici valoriali che gli dica chi è. Allorché gli viene chiesto di farsi “chi” da sé, si trova privo di coordinate. Nella cassetta degli attrezzi, non si ritrova che la sua esperienza, la quale è sempre misura a sé stessa. L’intrinseco qui e ora dell’esperienza subitanea, però, non consente un’agile scrittura di piani di vita, destinata com’è a una costante comparazione nel solo senso del più e del meno: l’esperienza successiva dice solo un più o un meno rispetto a quella che l’ha preceduta. Ed è così, secondo Garcia, che l’unico modo di farsi soggetto vivente (si tenga a mente l’aggettivo, ché tornerà utile poi), per chi abita la modernità, è passare di esperienza in esperienza secondo la duplice direzione del declivio e dell’ascesa. La vita intensa è quella che sempre più sale; il suo opposto, invece, quella che non sa salire e quindi si avvia alla peggiore delle condanne: la vita tiepida. Il problema, argomenta Garcia, è che nell’ascesa si incontrano molti ostacoli, che ad ogni svincolo promettono di riportare il soggetto moderno in uno stato di non intensità, quindi di non vita.
Un esempio potrà essere d’ausilio, specialmente a chi, come lo scrivente, è membro fondatore del culto del monorigine e del monocultivar. Si immagini un tizio che si trova per la prima volta davanti a un cacao criollo purissimo, quello che appartiene all’1% del totale della produzione mondiale di cacao. Prima dell’incontro tra il criollo e il suo palato, non è che un desiderante privo di un indice che gli dica se e quanto è vivo. Al primo assaggio, l’intensità sarà travolgente al punto tale da trasmettergli un segnale di vita: sento dunque sono. Tramite l’intenso, egli ha prodotto il suo chi. Ma l’intensità, come tutte le cose di questo mondo, incontra un limite temporale. Terminata l’esperienza, si troverà davanti a un dilemma (che nell’idiosincratica terminologia di Garcia potrebbe dirsi “etico”) tra serbare il ricordo labile della prima intensissima esperienza oppure ritentare. L’essere umano, si sa, non è l’asino che (almeno nel modo di dire) fa la gioia di Buridano facendo sfoggio d’allegorica indecisione, perché ritenta sempre. E in effetti il tizio, dopo la prima insufflata di criollo, si darà al secondo assaggio, che avrà una caratteristica specifica: non potrà mai essere intenso come il primo, eppure saprà dare avvio a una serie. Ecco che l’esperienza da intensa si fa ripetuta e quindi seriale. L’intensità scompare, sì, ma si ripresenta poi nell’intensità della serie. Al soggetto moderno è dato fare dell’intensità un’esperienza abitudinaria, che bilanci il decremento d’intensità con la possibilità indefinita della sua ripetizione. Ma c’è dell’infermale in questo marchingegno: la prosecuzione dell’esperienza intensa, e la sua trasformazione in serie, porta all’abolizione dell’intenso: “Ciò che rimane allo stesso livello diminuisce; sicché un aumento regolare finisce sempre per apparire alla sensibilità come uno stato stazionario” (p. 137). Il Mefistofele della dipendenza rompe l’alleanza tra la prima esperienza e la sua trasfigurazione in serie.
Insomma, l’intensità è un brutto affare: “Non appena identificata, cessa subito di essere riconosciuta come intensa” (p. 95), né permette l’abitudine, “la quale suscita in tutto ciò che vive una lenta erosione emozionale” (p. 152). L’essere umano dell’era moderna è dunque condannato alla ricerca di altre esperienze, che innervino altre intensità e aprano ad altre serie, destinate anch’esse all’auto-abolizione. Il chi moderno si alterna quindi tra intensità, abitudine e variazione, e incorre così in un dilemma senza soluzione: “O continuare a cambiare, e istituire una specie di permanenza dell’impermanente; o cessare di cambiare, per interrompere le loro abitudini, pagandone il prezzo” (p. 156). È in questa trappola della variazione che Garcia cattura il moderno, e nelle pagine del libro rintraccia il suo sviluppo dall’invenzione della corrente elettrica all’accelerazionismo di Nick Srnicek e Alex Williams.
Per uscire da questo disgraziato loop, Garcia avanza due possibili rimedi, che da subito però dà per inani. Una premessa però sarà utile a valutare le loro potenzialità. Con quei gesti che solo la grande filosofia sa permettersi, tanto è insensibile alla necessità di convalida empirica, Garcia oppone la vita al pensiero. La vita è quella che sente le intensità nella loro unicità e si ritrova diffratta in una sequela di più e di meno. Il pensiero, invece, è qualcosa che per sua natura non è “affetto da intensità ontologiche variabili” (p. 176). Di qui, un catalogo di proprietà sorprendenti del pensiero. Eccone almeno cinque tra le molte menzionate nel libro: il pensiero
- “è ciò che, nell’essere sensibile, non sente” (p. 173);
-
“è quello che, in un essere sofferente, non soffre” (p. 173);
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“non può distinguere da solo tra ciò che è reale e ciò che non lo è: deve appoggiarsi all’esperienza” (p. 175);
-
“equalizza lo stato ontologico dei suoi oggetti” (p. 175);
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abbandonato a sé stesso, ignora l’intensità (p. 176).
Per un rovesciamento delle sorti che sembra avere del vendicativo, il pensiero, che Cartesio aveva incoronato sovrano nel dominio della cosa pensante, è confinato da Garcia nell’estensione, dove per “estensivo” “s’intende “un rapporto, puramente esteriore, che permette di confrontare cose distinte: alla cosa più piccola si aggiunge una quantità di materia o di spazio, proprio come sommiamo 4 e 1 per ottenere 5” (p. 54). Roba da commercialisti alle prime armi. Peggio, perché il commercialista imberbe impara a fare le differenze, mentre il pensiero, per Garcia, “è la parte di certi organismi viventi che non è calibrata su delle intensità ma ha come principio il carattere equivalente di tutte le cose” (p. 173). Che rimedi potrà mai proporre un organo tanto scassato? Comunque sia, ci sono, e sono due: saggezza e salvezza.
La saggezza, sostiene Garcia, è un’operazione con cui si rende il soggetto umano uniforme e uguale, ovvero senza intensità (p. 181). Neutralizza le passioni, per “rinunciare a poco a poco alla tensione che contrappone desideri e necessità” (ibid.). Intensità ridotta a zero, quindi, al contrario della salvezza, che è salvezza dalle intensità tramite un’intensità “così potente che nulla potrà essere più potente: il sé sarà salvato, realizzato definitivamente, vivendo la sua vera vita in Paradiso o in Dio” (p. 183). Il notissimo adagio per cui la religione sarebbe l’“oppio dei popoli” in Garcia sembra assumere un valore assai meno figurato. Saggezza e salvezza, prosegue il Nostro, sono simmetriche, disegnano due orizzonti complementari, che un tempo erano parte attiva “di tutte le promesse filosofiche e religiose” (p. 185). Ma seguire queste oggi vie, secondo Garcia, significa nei fatti rifiutare la modernità, la cui cifra è e rimane l’intenso: “Il saggio e il religioso tentano di organizzare la loro vita seguendo delle verità alle quali credono di poter accedere pensando. L’uomo moderno e poi quello contemporaneo, […] interpretando tutto alla luce delle intensità, hanno cercato al contrario di calibrare le proprietà delle loro verità, delle loro idee e delle loro credenze sulle qualità intense dei loro corpi” (p. 188). Qualche altro timido indirizzo di riscatto ci viene offerto nelle pagine conclusive, ma il tenore del libro rimane quello apocalittico di celebrazione di una sconfitta epocale: “Forse la nostra condizione è una strada senza uscita” (p. 192).
Leggendo il libro, lo confesso, m’è presa una qualche invidia: chissà com’è una vita, come evidentemente quella di Garcia, che riesce a imbeccare l’esperienza intensa, a ripeterla e poi a variare. Stile che i miei orari cistercensi non consentono e che le mie economie da impiegato della Pubblica Amministrazione vietano se ripetute in eccesso – il criollo costa molto, come la coratina monocultivar o il pepe di Sichuan. Ma se questo stile di vita è possibile a qualcuno – devo ammetterlo, non tra i miei conoscenti, tutti felici abitudinari, quantunque non tutti abitudinari felici – dubito possa essere sostenibile su larga scala. Il mondo descritto da Garcia è quello di enne multipli di De Quincey e Baudelaire, privati però della loro arte; di dipendenti da sostanze che dal loro abuso non sanno neppure trarre buona letteratura. Gente scissa, che misura colla testa e prova con i sensi, ma che tiene separato questi due aspetti come un Doppelgänger che principia il proprio sé sulla divisione di pensiero e vita. Individui, o meglio, dividui che partecipano al gioco sociodrammatico del rilancio continuo per placare la fame di vita.
L’elemento più apprezzabile del ragionamento di Garcia è che da esso non si trae una morale, né prescrive ricette di vita buona. Garcia fa il diagnosta e si accontenta di disegnare ampie costellazioni concettuali a uso di chi vuol capire. Il problema è se il richiamo a definizioni e distinzioni tanto impegnative mantenga la promessa di filosofia da grand theory, quella che aspira a cogliere il vero di un’epoca, a segnare il tratto che ci separa, ad esempio, dal fattore tardo-imperiale, che di certo aveva ottimi formaggi a sua disposizione, ma evidentemente sapeva collocare la loro fruizione nella casella di esperienza circoscritta in forza di promesse salvifiche di ben altra tenuta. Oppure, sempre ad esempio, quale differenza sussista tra la rincorsa moderna all’esperienza intensa e ripetuta e i virtuosi cromatismi d’esperienza già sempre inappagata incarnati dalle divinità del mondo greco e romano, che per loro disgrazia non potevano nemmeno contare su promesse di trascendenza. Insomma, il problema sta proprio nella misura che Garcia dà a sé stesso: porre l’intensità a principio dirimente della vita moderna, misura di un’intera sezione della storia, criterio di distinzione da ciò che la precede e ciò che la seguirà.
L’intensità di cui parla Garcia – che è cosa ben diversa dalle intensità dei pur citati Whitehead e Deleuze – coglie senz’altro qualche tendenza della società del consumo d’alto bordo in cui i beni però sono diffusi con capillarità proletaria, quella insomma che combina i richiami all’autenticità dell’esperienza con le definizioni di provenienza (DOC, DOP, Made in Italy). Senza dubbio c’è una tendenza al rialzo in una cultura del Master chef che da umile Babette tra le mura di casa apre un ristorante che punta da subito alla stella Michelin. Ma appunto si tratta di tendenze, interstizi, occasioni, storie da palco. A me pare che l’ardita ipotesi di Garcia debba misurarsi sul piano di un più umile catalogo delle “figure del presente”, senza però cedere all’impulso della reductio ad unum dei tratti che segnano un’epoca. Si dovrebbe in tal senso accettare l’inevitabile trasvalutazione dei valori filosofici e riportare l’analisi sul piano microstorico, inadatto alla determinazione dei passaggi storici. Ma credo sia in questa chiave più modesta, quasi da ricognizione etnografica, che libri come La vita intensa possono rendersi davvero utili per aiutarci a scovare tratti pertinenti e riconoscere certe tendenze in sé o in altr*. Questa, quindi, la ricetta per gustare al meglio un prodotto filosofico di denominazione di origine controllata e garantita come quella di Garcia: si prenda il libro come un’abilissima benché occulta dichiarazione autobiografica, si cerchi di trarne indicazioni per identificare tendenze nostre e del nostro presente, si tenti di verificare, per quanto possibile e senza acrimonia, se quelle tendenze sono prevalenti in noi, quindi prendere le misure per non cadere preda di eventuali dipendenze che prosciughino energie e conto in banca.