di Giovanni Orelli (a cura di Pietro Montorfani)
[Proponiamo un estratto da Giovanni Orelli, La gioia del classici. Letture e consigli di uno scrittore vorace, a cura di Pietro Montorfani, appena pubblicato dall’editore Casagrande di Bellinzona].
Giovanni Orelli è stato un lettore vorace, pronto a trasmettere a chiunque lo ascoltasse (a cominciare dai suoi studenti di liceo) l’amore per la letteratura. È così che fin dagli anni Ottanta cura per un settimanale svizzero di ampia diffusione, «Azione», una pagina letteraria in cui recensisce, accanto a qualche novità editoriale, soprattutto riproposte e nuove traduzioni di classici. Sofocle, Dante, Goethe, Leopardi, Manzoni, Tolstoj… Per oltre trent’anni presenta ai suoi lettori quei «libri magnificamente atti a salare il sangue». Con la scioltezza dell’acrobata e quella lingua personalissima che ha fatto la notorietà dello scrittore, Orelli salta giocosamente da un secolo all’altro passando da Aristofane a Shakespeare, da Kafka a Rabelais (che sconsiglia a coloro che «arricciano il naso alle frequentissime parole non pettinate»), da Pavese a Kundera. Mai solenne o reverenziale nei confronti dei grandi autori di tutti i tempi, Orelli è (e in questo ricorda il Manganelli consulente editoriale) profondamente passionale, prensile, instancabile nel visitare quegli «inesauribili mondi» che sono i classici e nel condividere la gioia della loro lettura.
Le coltellate di Tolstoj
Lo so, costa fatica, e si corrono rischi molti; eppure non si può sempre scappare per la tangente: neanche con le (innocue) recensioni. Per esempio parlare di Tolstoj. Argomenti che giocano contro: bisognerebbe conoscere il russo. Poi non bisognerebbe vivere di rendita con le (superficiali: e non me ne faccio una colpa, per carità!) letture giovanili. Bisognerebbe (lo faremo quando saremo su sulla famosa nuvoletta o giù tra le fiamme infernali – dico per me: anche se non ci credo) bisognerebbe rileggere tutto. Come si fa? Un Guerra e pace «non è impresa da pigliare a gabbo» (Dante, Inferno xxxii 7). Intanto mi sto leggendo, di Tolstoj, I diari, nei Grandi libri Garzanti, Milano, 1997, con splendida introduzione di Serena Vitale; scelta dei testi, prefazione, traduzione e note di Silvio Bernardini: quasi 800 pagine, lire 29 000.
La prima cosa da dire è che ci sono (per fortuna!) libri così “potenti” che resistono anche, e in pieno, alle violenze della traduzione. Esempio sommo i Vangeli. Non occorre sapere di ebraico o aramaico per leggere le parole di Cristo. La lettera di Paolo ai Corinzi resiste in tutte le lingue. Tolstoj è uno di questi autori. Non è il solo, per fortuna, se no saremmo fritti, che bene sopporta la traduzione. È uno dei suoi titoli di merito. Prendete I diari […] e non importa molto se dal 17 marzo 1847, cioè da quando il sismografo diaristico entra in azione; o se dall’ultima data (ottobre 1910), o in mezzo. Per tornare, dopo, alla ricostruzione riassuntiva della vita, o a quegli interrogativi dell’introduzione, per fare ordine nei nostri cassetti mentali: vita, opere, pensieri e azioni, rapporti con il “mondo” del passato e del presente (per esempio, per fare due soli nomi del passato, con Cristo, con Confucio); rapporti con il mondo moderno su una linea “orizzontale”. Oriente e Occidente: Goethe, Zola, Dickens, Schopenhauer: no, pochissimo o niente l’Italia, niente per esempio Leopardi.
Aprite, ripeto, a caso, o secondo gli umori del momento. Emerge sempre un Tolstoj sincero e anche contraddittorio, stimolante e affascinante e scostante. C’è stata, a Lugano, una giornata contro il razzismo? Prendo allora, evidentemente non a caso, la pagina 414: è un pensiero di 100 (cento) anni fa!, 14 novembre 1897: «Ho letto delle azioni degli inglesi in Africa. Tutto ciò è orribile. Ma, mi è venuto in mente, forse questo è inevitabile, necessario, affinché questi popoli abbiano l’istruzione. Forse così dev’essere, ho pensato all’inizio. Che assurdità! Perché gli uomini che vivono da cristiani non vanno semplicemente (…) a vivere con loro, invece di vendere, ubriacare, uccidere?».
In data 25 novembre, sempre del 1897, dunque 100 (cento) anni or sono, Tolstoj scrive: «Ai gamberi piace essere cotti vivi. Questo non è uno scherzo. (…) L’uomo ha la capacità di non vedere le sofferenze che non vuol vedere. E lui non vuol vedere le sofferenze causate proprio da lui. Quanto spesso mi è capitato di sentire a proposito dei cocchieri che aspettano, dei cuochi, dei servitori, dei contadini al lavoro: “Eh, stanno bene, sono allegri”. Ai gamberi piace essere cotti vivi». […]
Il rapporto con gli scrittori? Pressoché assente il nome di Dostoevskij. Avrò visto male ma devo arrivare alla pagina 560 per leggere «Ho letto Dostoevskij e mi ha colpito la sua sciattezza, artificiosità, falsità». Verificare per credere (ottobre 1909, a un anno dalla morte). Certo che già nel luglio del 1856 (vedi p. 102) egli annota: «Durante il pranzo ho litigato biliosamente con Marisa. La zietta è intervenuta in sua difesa. Ha detto che Turgenev dice che con me non si può discutere. Forse ho un brutto carattere? Bisogna trattenersi: la causa di tutto è l’orgoglio, ha detto bene Valerija».
Nella fossa del coccodrillo
So troppo poco di Xu Wenli, cinese, sotto processo a Pechino per sovversione (per rinfrescarmi qualche idea sulla nozione di «per sovversione» sono andato a rileggere un libro finito di stampare il 10 di settembre del 1937, il Retour de l’URSS di André Gide), tredici anni di carcere per la sua partecipazione al movimento democratico del 1978; niente so delle condizioni nelle prigioni cinesi…
E ora mi sto fregando gli occhi perché non so se sto leggendo (nel giornale) di Xu Wenli o se sto leggendo la vita di Tommaso Campanella, che di anni in prigione ne ha passati quasi 27 (ventisette). Il conto delle torture non so. È che sto leggendo un libro cui darò la mia personale nomination (come vorrei che valesse qualcosa) di libro dell’anno per il 1998, cioè Tommaso Campanella, Le poesie, a cura di Francesco Giancotti, Torino, Einaudi, 1998, lire 75 000 (è in quella eccellente sezione della Einaudi che si chiama NUE, Nuova Universale Einaudi, in cui brillano anche i Rabisch del Giovan Paolo Lomazzo a cura di Dante Isella, e I Malavoglia di Giovanni Verga a cura di Ferruccio Cecco, Agarone).
In questo splendido, affascinante libro di poesie del Campanella, il lettore incontra dapprima una Prefazione dove subito si tratteggia il ritratto del «poeta architettonico» o del «filosofo poetante»; Campanella vedeva come suoi ideali campioni, un Lucrezio, un Seneca, un Dante. Poi c’è una lunga Introduzione dove il curatore Giancotti, che ha passato una vita, la sua, a interrogare poeti come Lucrezio e Campanella, chiarisce la posizione del Campanella nei confronti della poesia: la bellezza, il lenocinio (l’inganno) del bello in funzione del vero. È la “posizione” di Lucrezio fatta sua anche dal Tasso, Gerusalemme liberata, 1, 3: al ragazzo ammalato (l’uomo comune, il lettore) diamo «succhi amari» (l’amara medicina del vero), mettendo sull’orlo del bicchiere un po’ di miele, di zucchero, per rendere gradevole, trangugiabile la medicina: «succhi amari ingannato intanto ei beve / e dall’inganno suo vita riceve». «Dietro al filosofo ci era l’uomo» dirà poi il De Sanctis, ribattendo un suo chiodo.
La vita del quale uomo è ordinatamente raccontata, anno dopo anno, in oltre quaranta pagine fitte. È un seguito di traversie che colpiscono l’indomito Campanella nato nei tempi dell’intolleranza. Egli nasce nel 1568 in Calabria, a Stilo. È figlio di uno scarparo, è dotato di memoria «straordinaria». A quindici anni pronuncia i voti e prende il nome di fra Tommaso. È studente «inquieto» (qualcuno lo ammonisce: «Campanella Campanella / tu non farai bon fine!»). Imparerà precocemente a conoscere avversità e, quel che è brutto, tortura e carcere. Quasi anni ventisette di carcere, compresa la tortura del «poliedro», sorta di cavalletto su cui veniva sistemato il torturando, con l’indomito fra Tommaso che giunge a fingere «incapacità di resistere alle torture», che simula con abilità la pazzia («è prudenza simular stoltezza nel momento opportuno»: simulazione che durò più di quattordici mesi), conosce la fossa del coccodrillo: «Scendendo per ventiquattro scalini si giunge a un vano cieco; il recluso, con ferri alle mani e ai piedi, è incatenato alle pareti di pietra, madide di umidità; per il riposo non ha che un giaciglio di paglia marcescente; un po’ di lume gli vien dato soltanto per mezz’ora al giorno, perché possa leggere il breviario; deve nutrirsi di rifiuti».