Nel 2022 si sono compiuti 15 anni dall’inizio della mia personale avventura con l’ibrido, la pubblicazione del mio primo romanzo, Sirene, nel 2007. Da allora, le figure più che umane, oltreumane, si sono moltiplicate, in letteratura e nell’immaginario, intorno a noi, fino a essere in un certo senso ovunque, o forse solo nell’occhio di chi guarda. La parola Chimera, oltre i Canti Orfici e i Dialoghi con Leucò, riecheggia oggi gli ibridi interspecie della scienza contemporanea insieme alla mitologia greca, etrusca ed egizia, e per questo ce ne serviamo qui: il campo delle ibridazioni, come si vedrà, è molto ampio (lp).
Laura Tripaldi, l’ibrido per te è Aracne. Vuoi raccontarci, a modo tuo, la sua storia?
La mitologia, particolarmente quella classica, è popolata di figure che sollevano una riflessione sul rapporto tra l’essere umano e il progresso tecnologico. Molto spesso, le loro storie sono a tutti gli effetti delle “cautionary tales”: si tratta cioè di racconti con una morale punitiva, volta a dissuadere chi le ascolta da una eccessiva familiarità con la tecnologia. Penso ad esempio alla vicenda di Prometeo o a quella di Icaro, in cui l’uso scriteriato di una tecnologia – quella del fuoco o quella del volo – troppo avanzata per l’essere umano risulta in una terribile punizione divina o si conclude con la morte di chi se n’è impossessato in modo illegittimo.
Il mito di Aracne si inserisce, almeno a un primo sguardo, in questo genere di racconti. Secondo la leggenda, raccontata da Ovidio nelle sue Metamorfosi, la giovane Aracne, una tessitrice dal talento straordinario, attira l’invidia della dea Atena, patrona dell’arte della tessitura. Atena, sotto le mentite spoglie di un’anziana donna, sfida Aracne in una gara di tessitura per riaffermare la sua insuperabile maestria, ma ne esce sconfitta. Oltraggiata, Atena distrugge la meravigliosa tela di Aracne, che per la disperazione decide di impiccarsi; ma, prima che la ragazza possa morire, Atena le salva la vita, condannandola però ad essere trasformata in un ragno.
La metamorfosi di Aracne è di solito raccontata come una maledizione: come nel caso di Prometeo e di Icaro, si tratterebbe infatti di una terribile vendetta divina architettata per punire la superbia umana. A me, però, piace l’idea di reimmaginare la metamorfosi di Aracne come una storia a lieto fine. Trasformata in ragno, l’animale tessitore per eccellenza, Aracne ottiene la sua ultima rivincita, realizzando una fusione perfetta tra il suo corpo umano e il “corpo tecnologico” del suo telaio. In questa rilettura del mito, Aracne non è una giovane fanciulla sventurata, ma un’eroina cyborg il cui nuovo corpo ibrido contesta, con la sua stessa esistenza, il confine inviolabile tra la natura e la tecnologia.
Pensa alla parola totem. Cosa nel tuo ibrido ti parla del passato, tuo e di tutti?
La figura di Aracne fa riferimento alla profonda interconnessione dell’umanità con la tecnologia della tessitura, una delle più antiche e influenti della nostra specie: si pensi che le prime fibre tessili mai scoperte risalgono addirittura a 40.000 anni fa. Non soltanto la tessitura ha con ogni probabilità permesso alle nostre progenitrici e ai nostri progenitori di proteggersi, trasportare oggetti, costruire reti e tramandare storie, ma ha anche costituito un simbolo culturale e religioso incredibilmente potente.
In molte culture, il ragno è un animale dai poteri magici, una sorta di intermediario tra il mondo umano e il mondo divino. In diverse leggende native americane, la donna-ragno è la più antica divinità creatrice: l’intero universo non sarebbe altro che il prodotto della tessitura della sua ragnatela. Anche Neith, una delle divinità più antiche del pantheon egizio, è associata al ragno tramite la tecnologia della tessitura. Secondo alcune versioni del mito di creazione, Neith sarebbe la prima divinità creatrice emersa dalle acque del caos primigenio, responsabile di mantenere intatto il tessuto del mondo.
L’idea della realtà come superficie intessuta, risultato di un processo incessante di intreccio, sembra affondare le proprie radici in culti precedenti alle cosmogonie patriarcali, nelle quali la creazione è il prodotto immediato della parola divina. Il richiamo di queste antiche dee-ragno, tessitrici instancabili del tessuto dell’universo, risuona ancora nella figura di Aracne. L’immagine dell’universo come tessuto, del resto, rimanda a quella che si potrebbe definire un’”ontologia relazionale”, in cui la realtà è intesa come “proprietà emergente” di una trama complessa e dinamica di relazioni.
Pensa alla parola daimon. Il tuo ibrido può accompagnarci nel futuro?
La metamorfosi di Aracne ci invita a porci una domanda che sta diventando sempre più urgente per il nostro futuro. Come si trasforma la nostra identità umana a contatto con la tecnologia? Aracne è il paradigma di un incontro trasformativo con il mezzo tecnologico: piuttosto che stabilire una separazione rigida gli strumenti e i soggetti che li utilizzano, la vicenda di Aracne sottolinea la capacità delle tecnologie di fondersi in modo sempre più intimo con le nostre identità e con i nostri corpi. In questo senso, per me la figura di Aracne è stata la guida per una riflessione sul concetto di “interfaccia”, ovvero la zona di contatto tra l’essere umano e il mezzo tecnologico. Se siamo abituati a concettualizzare l’interfaccia come una superfice sottile, rigida e passiva (penso, ad esempio, allo schermo dei dispositivi elettronici), la figura di Aracne ci suggerisce un paradigma alternativo, in cui l’interfaccia si configura come uno spazio materiale dinamico, capace di dare vita a soggettività sempre nuove.
Oggi, i nuovi corpi prodotti dalle biotecnologie, dalle nanotecnologie, dalle intelligenze artificiali tracciano traiettorie che ci costringeranno con crescente urgenza a ridiscutere il confine tra naturalità e artificialità. Siamo già in grado di produrre organismi bionici le cui cellule viventi, animali e umane, si integrano nei corpi sintetici dei robot; possiamo usare il DNA per codificare informazioni digitali e trascriverle dentro al genoma dei batteri; usiamo gli algoritmi per rivelare i meccanismi più intimi del nostro organismo e della nostra mente; costruiamo nanoparticelle simili a “virus artificiali” per proteggerci dalle pandemie. Davanti a questi corpi ibridi, che sono anche e soprattutto i nostri stessi corpi, la risposta reazionaria – negare alle tecnologie l’autonomia epistemologica che meritano, illuderci che una “distanza di sicurezza” tra la vita e la tecnologia possa ancora esistere – non potrà che rivelarsi sempre più inefficace e sempre più pericolosa. Bisognerà, inevitabilmente, trovare un’altra strada.
Se la crescente contaminazione tra l’essere umano e la tecnologia nasconde dei rischi innegabili, è altrettanto importante ricordare che costruzioni discorsive come la natura, la vita e l’umano hanno agito a lungo come dispositivi di potere per sanzionare e marginalizzare i corpi ritenuti meno naturali, meno viventi e meno umani. Il corpo ibrido di Aracne, rivendicando l’alleanza illegittima tra organico e inorganico, tecnologia e natura, dichiara una guerra biotecnologica contro un ordine divino ingiusto. A me piace immaginare che le sue ultime parole umane, pronunciate guardando in faccia Atena con i suoi otto nuovi occhi, siano state queste: “preferisco essere cyborg che dea”.