di Mariano Croce e Andrea Salvatore

 

Con l’acredine di chi esce sconfitto da una battaglia che s’incipria di morale quando invece è politica bell’e buona, Santi Romano nel 1947 dava un affresco del giurista che farebbe impallidire intere genie di antropologi, tanto gravoso il compito che gli assegna. Il giurista, scrive Romano, “deve avere occhio capace di dominare e scrutare nei minimi particolari un orizzonte quasi sconfinato e, comunque, più largo e mutevole di quelli che si offrono alla vista dei cultori di tante altre discipline”[1]. Un conflitto delle facoltà già sempre aggiudicato a favore della giurisprudenza, da cui emerge il ritratto, a un tempo umile e grandioso, dell’esperto di diritto come etnografo riflessivo e sensibile. Ma Romano aggiunge all’illimitata capacità di scrutinio dell’esistente la ben più poderosa mansione di custodire una soglia, cioè quella superata la quale certi “fenomeni sociali […] hanno interesse per il diritto”[2]. Compito “delicatissimo”, soggiunge Romano, e ne ha ben donde, perché, con parole che i profani possono utilizzare con meno rispetto per il lessico e i protocolli ossequiati dagli esperti, significa di fatto escludere i fenomeni che per il diritto non hanno interesse. O quantomeno, complicare loro la vita e non di poco.

 

Ma non è certo Romano che dà avvio alla questione del giurista come colui che studia e scruta, intercetta e vaglia, precetta e taglia. Da Masurio Sabino a von Savigny, da Bartolo da Sassoferrato a Paolo Grossi, l’idea che il sapere giuridico faccia da filtro per quei fatti normativi che hanno da valere come tratti fondamentali di una collettività è assai diffusa tra chi si forma come esperto del diritto e in particolare tra chi segue il cursus honorum fino agli scranni più alti. E chi scrive, al netto di uno “stato laicale” che spesso orripila il giurista duro e puro, un po’ concorda, convinti come siamo che il diritto sia soprattutto una riserva di sapere senza pari, che ha effetti rimediali, riparativi e compositivi. Sotto sotto, probabilmente, crediamo abbia ragione Romano, benché la figura di giurista – calco di un sé un po’ vanesio in cerca di un riscatto ormai fuori tempo rispetto alle nuove generazioni rampanti – sappia più di finzione letteraria che di prontuario per il formando esperto.

 

Eppure, una recentissima sentenza negli Stati Uniti, a nostro avviso, chiude con l’irenismo ascetico, un poco serioso ma mai forzato, di una scienza giuridica che osserva, contempera, misura e nel caso taglia. Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, No. 19-1392, 597 U.S. (2022)[3], sentenza epocale che afferma l’inesistenza del diritto all’aborto negli Stati Uniti e ribalta altre sentenze, ahinoi non più epocali, rompe in modo deciso e forse irrecuperabile con la vantata capacità del diritto di temperare e contemperare. La decisione della Corte suprema, trainata dall’opinione di maggioranza di cinque membri su nove (a cui si associa la più morbida concurring opinion del Chief Justice Roberts), si fa recepire come una gravissima e intenzionata strategia di restrizione del pluralismo. E questo è un problema molto serio, oltreché grave, al di là di ogni differenza di opinione sull’inizio della vita, persino al di là del diritto delle donne all’aborto, cui pure chi scrive tiene con un’inclinazione quasi-lonziana.

 

Ma appunto, proprio perché provoca frizioni e strappi nella più importante riserva di sapere che una comunità politica abbia nel proprio armamentario culturale, la sentenza in oggetto è una ferita che potrebbe non rimarginarsi e che, cosa ancor più rilevante, sembra inscritta in una più ampia strategia di trasformazione di una forma di vita a mezzo diritto. In effetti, c’è dell’intenzione nel personaggio, se è vero che questa non è la provocazione del politologo irriverente e incline al marameo di cui parla Arbasino, ma la posizione meditata e reiterata di uno dei più noti costituzionalisti statunitensi, Adrian Vermeule, alfiere del cosiddetto costituzionalismo del bene comune. Strategia esplicita, appunto, che non indugia in litoti, dato che Vermeule sostiene senza celie che, per produrre una comunità compatta solida omogenea, occorre tutelare una serie molto ristretta e coerente di valori (ad esempio, matrimonio eterosessuale, famiglia tradizionale, solidarietà sociale, responsabilità collettiva), che limitino le spinte individualistiche delle società neoliberali e orientino in modo univoco le forme di socializzazione rinsaldandone tenuta e compattezza. Un’iniezione potentissima di valori tradizionali, che la Costituzione deve incorporare e rendere indisponibili al cambiamento, e a cui è demandata la formazione delle coscienze e la ricostruzione della forma di vita dei tempi andati.

 

Alcune delle parole di Vermeule, che non fa della misura una virtù, possono chiarire il quadro di una strategia messa a punto e pronta all’uso:

 

L’affermazione nella famigerata opinione congiunta in Planned Parenthood vs Casey[4] per cui ogni individuo può “definire da sé il proprio concetto dell’esistenza, del significato, dell’universo e del mistero della vita umana” dovrebbe essere non solo respinta ma bollata come abominevole […]. Del pari, gli assunti libertari cruciali per le leggi sulla libertà di parola e per l’ideologia della libertà di parola – secondo cui il Governo non può giudicare della qualità e del valore morale del discorso pubblico […] – dovrebbero cadere per un colpo di scure. Anche le concezioni libertarie dei diritti di proprietà e dei diritti economici dovranno sparire, nella misura in cui impediscono allo stato di far rispettare i doveri di comunità e solidarietà nell’uso e nella distribuzione delle risorse[5].

 

Certo, in Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization la Corte Suprema non adotta questo tipo di orientamento, dai chiari tratti ideologici oltreché identitari, e trova rifugio nel più cauto e rispettato originalismo. Ma la sostanza cambia poco, perché la base giustificativa della sentenza è uno sfacciato ancoramento alla storia, in barba (o persino di contro, dati i toni sprezzanti, talora sarcastici, dell’opinione di maggioranza) alle evoluzioni di una società che della storia, per come intesa dalla maggioranza della Corte, non sa che farsene. Secondo l’opinione di maggioranza, le sentenze che riconoscevano il diritto all’aborto risulterebbero “senza supporto nella storia o nei precedenti rilevanti” (p. 45). La progettazione del futuro, in sostanza ci si dice, trova un limite in ciò che il passato mette a disposizione: rivedere le credenze è possibile solo se si tutelano le credenze che si vogliono rivedere. Un pasticcio che condanna un’intera società a un copione già scritto, come se ogni nuovo film dovesse provare di essere un remake di un film originario, atavico, immutabile. E a quel film si dà valore sopra ogni cosa perché lo si tratta come originario, atavico, immutabile, nonché straordinariamente ispirato.

 

Sia chiaro: qui non c’è in ballo solamente il dibattito più che decennale su come interpretare la Costituzione. Non si tratta della questione, certo non soltanto tecnica ma di minore portata, di capire se la Carta debba essere letta alla sola luce dell’intenzione di chi l’ha scritta quando intendeva dare un indirizzo alla creanda collettività (questa, a grandi linee, l’interpretazione originalista cui si ispira la maggioranza espressa dalla Corte). C’è molto di più. C’è il tentativo di ridurre i limiti della rivedibilità di un progetto di vita comune assicurando a un nucleo di valori presunti inossidabili una posizione di impermeabilità, che li trasformi gradualmente (ma nemmeno troppo) nei limiti della pensabilità: aborto, matrimonio omosessuale, eguaglianza di genere, oltre al sacrosanto diritto di non volersi sentir parte di alcun progetto collettivo, devono diventare degli “impensabili”, tornare nell’antro angusto delle distorsioni che turbano l’ordinata riproduzione di una forma di vita storicamente consolidatasi. Un’impensabilità, sia chiaro, che alla evanescenza baloccantesi delle categorie filosofiche unisce una ben più tetragona strategia di soffocamento, per cui l’eventuale residua possibilità di abortire, nel caso di specie, sarà pagata a costi economici e psicologici letteralmente insostenibili (si parla tra le altre cose, per capirci, di sottoporre chi intenda abortire alla contemplazione periodica dell’ecografia del feto: una brutale ostensione coatta in cui il consenso informato volge in graticola espiatoria).

 

Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, insomma, è una sentenza letteralmente epocale per tanti versi. Basti pensare che si è di fronte alla più estesa cancellazione di diritti della storia americana – diritti in passato introdotti, e non meramente difesi, dalla stessa Corte. Anzitutto per questo motivo sarebbe un errore interpretare la decisione in oggetto come fosse il semplice esito di una diversa composizione delle maggioranze in seno alla Corte e rispondesse dunque a una fisiologica e salutare alternanza degli orientamenti della stessa su temi e questioni politicamente rilevanti. Chi si sorprende o addirittura scandalizza per simili dinamiche ha probabilmente troppa poca fiducia nella democrazia o forse una visione angelicata degli orientamenti della giurisprudenza (che le diverse opinioni della sentenza, onore al merito, non fanno nulla per supportare). La questione si pone, di contro, su un piano ben diverso, più minaccioso e gravido di conseguenze per la stessa tenuta degli assetti democratici (non solo statunitensi): non quali decisioni si prendono, ma come si prendono.

 

In questo senso la strategia, costituzionalmente del tutto legittima ma politicamente del tutto irresponsabile, è chiarissima: rifiutare qualsiasi forma di compromesso e trincerarsi in una ridotta costituzionale che deneghi ogni mutamento politico-sociale (anzitutto in fatto di nuove soggettività e nuove esigenze). Una strategia, peraltro apertamente rivendicata, che fa leva sull’orientamento originalista sopra richiamato, per il quale i diritti non esplicitamente previsti dal dettato della Carta non hanno rango costituzionale (o ne hanno uno ben più contestabile, che una maggioranza insofferente avrà agio di derubricare a forzosa inserzione). In un passaggio eloquente, che rinnova con inconsapevole originalità il venerato tema del doppio nella storia della letteratura occidentale, il parere di maggioranza della Corte invita la Corte stessa “a guardarsi dalla naturale tendenza umana a confondere quanto il Quattordicesimo Emendamento salvaguarda con le appassionate opinioni della stessa Corte a riguardo della libertà di cui gli americani dovrebbero godere” (p. 22). Dal truismo per cui i Costituenti non avevano di fronte questioni venutesi formando solo in seguito a mutamenti storici non prevedibili, si deriva non la necessità di un’interpretazione evolutiva ma il rifiuto di qualsiasi estensione della lista dei diritti, in quanto, appunto, originariamente non contemplati.

 

Una Corte arroccata su uno sperone filisteo può così spacciarsi per l’eburnea torre (fortificata) dove il diritto viene rapito per la sua necessaria salvaguardia. Una Corte che non prova evidentemente imbarazzi di sorta a ergersi a Tribunale della Storia, come, con certo imbarazzo per interposta maggioranza, si fa notare con lucidissima compostezza nell’opinione dissenziente, laddove si rivela, con amarissimo sarcasmo che, evidentemente, a giudizio della Corte, “tutti i diritti la cui storia non si spinge indietro fino alla metà del XIX secolo sono a rischio” (p. 152). I Costituenti diventano così simili all’onusto Dio di Leibniz (con, un gradino più in basso nella genealogia edenica, i suoi profeti togati): tutto quello che è, sarà e soprattutto deve essere, è già da sempre contemplato da chi di quanto esiste è all’origine, come creatore o come interprete delle tavole della legge costituzionali.

 

Si ha qui a che fare con uno dei più scoperti e radicali casi di politicizzazione del diritto, attuata tramite un paradossale ribaltamento dei ruoli. L’accusa di politicizzare la virginea materia giuridica viene infatti rivolta dalla Corte a chiunque tenti di far passare per costituzionalmente opportune idiosincratiche preferenze personali o, ancor peggio, immarcescibili e dunque irredimibili interessi di parte. Di contro a un simile tentativo di piegare la Costituzione alle beghe arcobaleno della bassa cucina politica, la Corte si autoascrive il titanico compito – tante sono le minacce, di fatto coincidenti con l’incedere minaccioso dell’evo moderno – di difendere l’originaria ispirazione della stessa da ogni forma di contaminazione. La Corte – nelle sue componenti più sane, parrebbe doversene evincere – come indefessa guardiana della Costituzione, e anzitutto della sua purezza giuridica contro ogni assalto all’arma bianca da parte di fazioni politiche poco interessate al bene comune, garantito e finanche incarnato dalla Costituzione stessa.

 

Ma il grado di politicità di un simile orientamento è manifesto, e chiaramente messo in luce nell’opinione dissenziente della minoranza: a essere in questione è appunto il metodo con cui si prendono decisioni (specie) su questioni altamente divisive, ben più che il merito. È il reciso e fermissimo rifiuto, espresso dalla maggioranza della Corte, di impegnarsi a cercare un punto di equilibrio e un compromesso tra i valori in gioco a essere altamente e rovinosamente carico di una politicità che priva la mediazione giuridica di ogni potenziale compositivo rispetto alle diverse posizioni in campo. È un simile radicalismo a determinare il serissimo rischio di una nuova e più minacciosa secessione, di un discredito perdurante del prestigio delle istituzioni democratiche e di una diffusa radicalizzazione del conflitto sociale. Ma anche – sia concesso – fenomeni dottrinalmente forse più minimali, che però incidono sulla carne viva, troppo viva, di chi da oggi – e anzi già dai giorni scorsi – dovrà affidarsi alla puntualità di una corriera transfrontaliera e forse anche della compiacenza di controllori più caritatevoli delle supreme Corti. È tale difesa, sia giuridico-costituzionale sia politico-sociale, di un insieme ristretto di pratiche e valori quale scrigno identitariamente sbalzato di una comunità a rappresentare la vera urgenza del momento agli occhi di chi vuol utilizzare la giurisprudenza non come raffio e lampara nelle mani dell’etnografo gentile, ma come potente strumento di ingegneria sociale e culturale. Rispetto a un tale stravolgimento del ruolo del giurista bisogna intervenire con un richiamo alla forza rimediale e compositiva del diritto, prima che l’incendio divampi, ancora più devastante, sul suolo europeo. Le micce hanno già iniziato a baluginare, e non è il caso di scambiarle per fari nella notte.

 

Note

 

 

[1] Santi Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Quodlibet, Macerata, 2019, p. 145.

[2] Ibid.

[3] Questo il testo della sentenza: https://fm.cnbc.com/applications/cnbc.com/resources/editorialfiles/2022/06/24/19-1392_6j37.pdf.

[4] In “Planned Parenthood vs Casey”, 505 U.S. 833 (1992) la Corte Suprema statunitense ha confermato il diritto costituzionale all’aborto che era stato stabilito in “Roe vs Wade” (1973) e stabilito che le normative statali in tema di aborto risultano legittime solo nel caso le limitazioni in esse contenute siano effettivamente giustificate dall’intento di tutelare la salute della donna e non si traducano in un “ostacolo sostanziale” alla relativa libertà di autodeterminazione e all’accesso alle tecniche di interruzione volontaria di gravidanza.

[5] Adrian Vermeule, “Beyond Originalism”, in The Atlantic, 31/03/2021, https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2020/03/common-good-constitutionalism/609037.

1 thought on “L’assalto conservatore di Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization

  1. Ma andrebbe anche detto con chiarezza che se non si desiderano gravidanze la risposta, oggi come oggi (decenni fa poteva essere diverso, il mondo si evolve…), non è sottoporsi a interventi chirurgici invasivi, quanto piuttosto ricorrere a uno dei metodi anticoncenzionali facili, diffusi, sicuri, economici e noti da moltissimo tempo.

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