cropped-Staglieno-bis.jpgdi Claudio Giunta

[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’intervento che segue è uscito il 16 aprile 2012].

Sullo scaffale accanto alla mia scrivania c’è un raccoglitore che ha incollata sul dorso la scritta Piagnistei. Contiene, in fotocopia, saggi sulla crisi dell’umanesimo o sulla fine dell’umanesimo, dove per umanesimo s’intende ‘discipline umanistiche insegnate a scuola e all’università’. Dentro il raccoglitore, i saggi sono riuniti in sottocategorie.

C’è la sottocategoria del Disagio digitale. I saggi che ne fanno parte ruotano attorno alla domanda: come può, la cultura umanistica seria, quella fatta di letture pacate, di lezioni dalla cattedra, di conversazioni distese fatte guardandosi negli occhi, sopravvivere nella civiltà dell’informazione istantanea, delle e-mail, dei giochi elettronici e dei cellulari?

C’è la sottocategoria del Nervosismo di fronte alla globalizzazione. I saggi che ne fanno parte ruotano attorno alla domanda: ha ancora senso occuparsi della letteratura, della storia, dell’arte nazionale in un mondo nel quale la lingua franca è l’inglese e il ‘viaggio in Italia’ non è ormai, per la formazione di un intellettuale, più importante di un viaggio in Spagna, o a Los Angeles, o alle Seychelles?

C’è la sottocategoria dell’Addio ai classici. È la sottocategoria che contiene i saggi più intelligenti e più amari. Sono saggi scritti da specialisti di latino, di greco, di archeologia, di filosofia antica. Anche nelle altre sottocategorie l’ottimismo non abbonda; ma qui l’atmosfera è plumbea, ferale. I classici hanno le ore contate, la conoscenza del greco e del latino è ai minimi storici, le parole di Platone e di Aristotele saranno presto parole perdute se non facciamo subito qualcosa (qualcosa come finanziare i dipartimenti di Classics, costringere i futuri avvocati e i futuri economisti a leggere Platone in originale, eccetera). In Readers and Reception: A Text Case, A.J. Woodman ironizza su una nuova genia di ‘classicisti’, per lo più anglosassoni, perfettamente ignari di greco e di latino; in Bagpipe Music, Jonathan Barnes osserva che lo studio della filosofia antica, come di tutte le altre materie umanistiche, è soffocato dalla burocrazia e fuorviato dalle mode culturali e dall’ignoranza della filologia classica; e conclude: «There is no cure for this disease». E potrei continuare con note ancora più dolenti: il Congedo sconsolato del classicista dalle aule universitarie è diventato quasi un genere a sé stante.

C’è poi una cartellina distinta, quella dell’Orgoglio dell’umanista. I saggi che ne fanno parte non lamentano tanto la decadenza delle discipline umanistiche quanto la sordità del mondo ai valori e alle verità che le discipline umanistiche, storicamente, hanno difeso. Chi li scrive non si mette in posizione di difesa ma d’attacco, non guarda al passato ma al futuro, non rimpiange ma accusa e sfida. Il libretto di Martha Nussbaum Non per profitto è un buon rappresentante di questa categoria.

L’etichetta che ho incollato sul dorso del mio raccoglitore non è irridente. Prendo molto sul serio i piagnistei, li pratico anch’io, non mi sogno affatto di liquidarli come sfoghi senili di alcuni apocalittici viziati dalle loro tenures. In parte condivido le loro preoccupazioni. Allo stesso modo, prendo molto sul serio, e in parte condivido, le accuse contro quell’utilitarismo da pezzenti che si riassume nel programma didattico delle ‘tre i’, e in generale contro qualsiasi programma educativo che non dia spazio adeguato a discipline come la storia, la letteratura, l’arte, la musica, la storia del pensiero.

Dato però che non sono un libero intellettuale ma un docente universitario pagato dallo Stato, e con precise responsabilità pratiche (relative per esempio alla gestione dei fondi, o alle carriere dei miei studenti), cerco di proiettare i miei desideri sulla realtà come è e non come astrattamente dovrebbe essere, cerco di essere pragmatico. Procedendo dunque per punti, secondo i commi del piagnisteo.

1.

Il Disagio digitale potrà convertirsi in Euforia digitale? Ovvero: può l’informatica essere la nuova frontiera degli umanisti? È un punto di vista abbastanza diffuso tra gli ottimisti: ai «beni artistici, letterari, documentari, architettonici, urbanistici, paesaggistici […] appare ora indispensabile applicare le aggiornate tecnologie virtuali per renderli meglio fruibili e farne in tal modo elemento di nuove originali professionalità che, proiettando il nostro passato nel futuro, accrescano a un tempo il bagaglio di conoscenze ed offrano, in parallelo, l’opportunità di nuove inedite occasioni professionali» (Angelo Varni, Qual è il valore vero della laurea, in «Il Sole 24 Ore», 5 febbraio 2012, p. 43).

Sempre sforzandoci di scendere dall’astratto al concreto, ciò significa che tra le cose che i laureati in discipline umanistiche possono fare c’è questa: produrre testi per la rete, lavorare sui contenuti lasciando agli informatici il compito di lavorare sui contenitori. Sono anch’io del parere che gli umanisti possano servire a questo: conosco laureati in Lettere o in Filosofia che hanno aperto studi di progettazione in rete e non se la passano male. Mi pongo però un problema di numeri: credo cioè che questo possa essere il destino di una piccola minoranza di coloro che escono dalle facoltà umanistiche. E mi pongo, più seriamente, un problema di congruità del percorso formativo. La conversione alle nuove tecnologie presuppone un cambiamento abbastanza radicale nel curriculum degli studenti. Molti miei colleghi guardano con sospetto anche solo all’attivazione di un corso di Informatica umanistica. Io sono invece favorevole, senza riserve, ma capisco i loro dubbi.

Chi si iscrive a una facoltà umanistica dovrebbe diventare esperto di cose come la letteratura, la storia, la filosofia, e anche di cose ancora più esoteriche come la filologia romanza, la glottologia e la paleografia. Il compito delle facoltà umanistiche è questo, per la buona ragione che nessun altro può svolgerlo, e che studenti privi di queste conoscenze diventeranno cattivi studiosi, cattivi insegnanti, cattivi giornalisti, e anche produttori di cattivi contenuti per il web. Ora, la gran parte degli studenti arriva all’università con competenze informatiche decenti ma con indecenti competenze sulla letteratura, la storia e tutto il resto. A torto o a ragione, è proprio questo che vogliono studiare. Il corso di laurea dovrebbe servire a colmare queste lacune; di solito non basta. E dunque non si rischia, mescolando un’infarinatura umanistica con un’infarinatura informatica (i tre, sei, nove crediti di informatica umanistica), di fare dei pasticci, di creare degli ibridi che non servono a niente? E mi pongo anche il problema del profilo professionale di questi ibridi: perché mi sembra inevitabile che i ‘produttori di testi per il web’ restino in posizione subalterna rispetto a chi controlla lo hardware (a chi, come a me, è capitato di dover contrattare la ripartizione dei fondi d’ateneo sa di che cosa parlo: le post-doc per gli informatici sono un fiume, quelle per gli umanisti, anche informatizzati, sono solo poche gocce). Rischiamo dunque di formare della manodopera non troppo specializzata che andrà a lavorare a servizio dagli informatici e dagli ingegneri. Niente di male, ma allora è meglio studiare informatica, o ingegneria, e fare la vita dei padroni anziché quella dei servi.

Insomma, resto convinto che un compromesso con le nuove tecnologie sia opportuno: ma, anche per esperienza personale, non credo che i buoni frutti di questo compromesso possano riguardare un numero troppo grande di laureati in discipline umanistiche. E, soprattutto, credo che la ragione e il senso di un percorso di studi umanistici stiano altrove. Ha scritto Eco («La Repubblica», 26 novembre 1998): «Pensate a Internet e al problema di come selezionare le informazioni utili da tutto il resto: occorre insegnare una disciplina che si chiama decimazione e occorre altresì il metodologo del software, e naturalmente il pedagogo dell’hardware, dal momento che i manuali, scritti da ingegneri che non distinguono tra ciò che essi sanno e ciò che i lettori non sanno, sono assolutamente illeggibili». Il decimatore, il metodologo del software e il pedagogo dello hardware mi sembrano profili professionali un po’ sfocati: e non ne vedo molti in giro, a quindici anni di distanza dall’articolo di Eco. Il fatto è che uno entra in una facoltà umanistica non perché vuole fare il pedagogo dello hardware ma perché, confusamente, vuole diventare come Umberto Eco, e occuparsi di Tommaso d’Aquino, Joyce, Peirce. E l’altro fatto è che, nel settore delle nuove tecnologie, la barra del timone sta oggi e starà in futuro, legittimamente, nelle mani degli informatici e degli ingegneri. Le cose possono cambiare, devono cambiare, non è detto che tutti gli aspiranti filosofi debbano passare attraverso Tommaso d’Aquino e Joyce; ma allora bisogna dirlo chiaro in anticipo, distinguere bene la realtà dai wishful thinkings e, forse, cambiare il nome alle facoltà di Lettere e Filosofia (o, che è lo stesso, decimarle, o renderle più piccole e selettive).

2.

 Nervosismo di fronte alla globalizzazione. È difficile restare calmi. È difficile continuare a considerare importante il proprio limitatissimo lavoro, è difficile farlo bene, quando il mondo attorno a noi sembra pensare a tutt’altro, e parlare una tutt’altra lingua. Sembra vicino il momento in cui non solo alcuni ma tutti, o quasi tutti, si domanderanno, tra l’incredulo e l’indignato, che senso abbia pagare qualcuno che scrive articoli intitolati Osservazioni sull’omerismo foscoliano o Stratigrafia delle varianti nelle liriche di Pietro Bembo, o Sul mottetto di Guido Cavalcanti (ognuno riempia queste caselle con titoli estratti dal proprio campo di ricerca). È in causa cioè, non tanto la formazione umanistica di base (sulla quale nessuno eccepisce, almeno a parole) quanto la specializzazione in campo umanistico, se questa specializzazione non si apre all’interazione non solo con le altre discipline ma con la cultura diffusa, con le idee che si discutono al di fuori dalle aule universitarie.

 Ora, l’insularità non è un valore in sé; o meglio, l’insularità è tollerabile quando le isole sono isole: cioè pochi studiosi eccellenti che si occupano di cose irrilevanti quasi per chiunque altro. Se le isole diventano arcipelaghi, e se ad occuparsi di cose irrilevanti sono legioni di studenti, dottorandi e ricercatori, e (com’è necessario quando i numeri crescono) lo fanno anche male, allora il costo umano ed economico dell’impresa minaccia di diventare insostenibile, e qualche taglio è necessario. Ma la medicina per l’isolamento non può essere la connessione di ogni singola cosa con ogni altra singola cosa (aka interdisciplinarità), né l’attualizzazione forzata, quella che porta a misurare l’interesse di un tema del passato col metro del suo rilievo per la nostra vita oggi: questo è spesso un viatico per il dilettantismo. In realtà, il sapere umanistico è e deve rimanere anche e soprattutto un sapere specifico, che si organizza in discipline tecniche non molto diverse da quelle che ritagliano lo spazio delle scienze nomotetiche.

Non è strano che la crisi investa soprattutto queste discipline tecniche, dal momento che si tratta di discipline che guardano al passato, non al presente, e perciò non possono influire sul dibattito corrente: l’utilità di uno storico contemporaneo o di un sociologo dell’emigrazione si può intuire, ma quella di un paleografo? Inoltre, sono discipline radicate in un luogo particolare, in una cultura particolare, e la cura del particolare può anche essere un altro nome del provincialismo, o della mania. Prima o poi arriva il momento in cui ci domandiamo se tutto lo sforzo che stiamo facendo per copiare senza errori il tale sonetto da questo o quell’antico manoscritto non potrebbe essere diretto a uno scopo più alto: ci si sente soli. Non sono dubbi nuovi, naturalmente: li avevano anche gli studiosi del passato. Ma è probabile che oggi questo senso di marginalità sia più difficile da sopportare non tanto per l’impoverirsi della tradizione umanistica accademica (gli iscritti a Lettere non diminuiscono) quanto per la straordinaria ricchezza dell’offerta culturale che non passa attraverso la scuola e l’università ma attraverso i media: un’offerta culturale che è, di necessità, orientata verso il presente e non verso il passato; e che per la grandissima parte parla una lingua diversa dall’italiano. Come la scuola e l’università debbano far fronte a questo assedio, è appunto il tema di questi e dei prossimi anni. Personalmente, non sono contrario a cedimenti e contaminazioni; ma un cedimento su tutta la linea e una contaminazione perenne finirebbero per stravolgere il senso stesso delle discipline che mi stanno a cuore. Di nuovo, bisognerebbe cambiare il nome della facoltà di Lettere e Filosofia; e forse non varrebbe più la pena di iscrivercisi – anche per la banale ragione che se uno vuole capire come funziona il mondo di oggi è meglio che studi economia, o ingegneria, e lasci stare i filosofi.

 3.

 Addio ai classici. Un articolo recente di Mary Beard s’intitola Do the Classics Have a Future? («New York Review of Books», 12 gennaio 2012) ma non rientra nella categoria ‘Piagnistei’ bensì in quella, più scarna, del ‘Sarcasmo sui piagnistei degli umanisti’. Come mai, si domanda la Beard, siamo così fissati col declino dei classici? Da un lato, concetti e immagini che appartengono alla classicità sono vivi come non mai nel pensiero e nell’arte contemporanei, e persino nella cultura popolare; dall’altro, è facile vedere che il lamento sull’oblio dei classici è un topos secolare: «The truth is that the classics are by definition in decline; even in what we now call the ‘Renaissance’, the humanists were not celebrating the ‘rebirth’ of the classics; rather […], they were for the most part engaged in a desperate last-ditch attempt to save the fleeting and fragile traces of the classics from oblivion. There has been no generation since at least the second century AD that has imagined that it was fostering the classical tradition better than its predecessors».

Sono buoni argomenti, ed esposti con spirito, ma dubito che riescano a consolare i professori che constatano la marginalizzazione del greco e del latino nei curricula umanistici. La marginalizzazione è un dato di fatto, e un dato di fatto probabilmente irreversibile, a mano a mano che la tradizione dell’Occidente diventa, da tradizione egemone che era fino a qualche generazione fa, solo una delle tessere che formano il mosaico della cultura mondiale; e a mano a mano che (vedi il punto precedente) si accumulano i nuovi problemi e i nuovi oggetti culturali sui quali gli intellettuali sono chiamati ad esprimersi: problemi e oggetti che – se si è abbastanza saggi da rinunciare alla retorica dell’umanesimo eterno, della voce eterna dei classici – non hanno alcun vero rapporto con i libri dei greci e dei latini.

Questo non significa affatto che, per prendere in contropiede il futuro, l’insegnamento dei classici vada abolito (e qui intendo per ‘classico’ tutto ciò che rientra in quel bagaglio umanistico tecnico, specifico al quale ho accennato sopra). Questa è la reazione di tecnocrati ignoranti, o di umanisti altrettanto ignoranti, e in più narcisi, che mercé questa rinuncia presumono di essere in prima linea nella rivolta mondiale contro l’eurocentrismo. Sono atteggiamenti patetici. L’insegnamento dei classici va difeso e migliorato, nella scuola e nell’università, perché è una parte fondamentale della nostra cultura nazionale: è quanto di meglio abbiamo da offrire al mondo, è un patrimonio che è affidato soprattutto alla nostra custodia, e – per usare le belle parole di Guido Calogero – non si vede perché dovremmo togliere a noi stessi «l’uso di questo formidabile strumento di vita» (Scuola sotto inchiesta, Torino, Einaudi 1957, p. 106). Per questo, tutta la discussione recente intorno al ‘significato dei classici’ mi sembra un po’ scentrata. A mio avviso non è tanto sul loro significato che occorre riflettere, perché nessuna persona seria lo mette in dubbio, quanto sul modo in cui vanno insegnati, oggi, a scuola e all’università. Il nodo, mi pare, è didattico, piuttosto che genericamente culturale (il che non significa che sia un nodo più facile da sciogliere, anzi).

4.

 Infine, poche parole a proposito dell’Orgoglio dell’umanista. Dato che faccio questo mestiere, tendenzialmente lo condivido. I libri, la musica, i quadri, i film migliorano l’esistenza: vorrei che tutti avessero la voglia e la possibilità di dedicare a queste cose una parte del loro tempo, soprattutto nell’età della formazione. Vorrei però anche che la battaglia per l’umanesimo venisse fatta con un po’ di senso della realtà. Questo senso della realtà si manifesta per esempio, a mio parere, nell’accettare che esistono dei limiti a ciò che lo Stato può fare (cioè: finanziare) nel campo della cultura e dell’istruzione, e che dunque devono esserci delle priorità. Una contrazione nel numero e nelle dimensioni delle facoltà umanistiche mi pare necessaria: non si tratta di impedire al popolo di acculturarsi, si tratta di essere minimamente realistici circa le possibilità d’impiego di un laureato in discipline umanistiche. Una selezione all’ingresso, o un maggior rigore in itinere, permetterebbe anche di restituire un valore a questa laurea, oggi screditata dalla pratica del 110 e lode erga omnes. Senso della realtà significa anche accettare il fatto che la ricerca umanistica non costa e non deve costare tanto quanto la ricerca scientifica, e dunque è giusto che buona parte del poco denaro che lo Stato può investire sia destinato alla seconda e non alla prima. Riconoscere questa che a me pare un’ovvietà ci metterebbe forse nella condizione di poter spiegare, pacatamente, che la ricerca umanistica non procede affatto né a forza di progetti milionari (quanti soldi sperperati nella ‘cultura accademica online’!) né a forza di congressi internazionali (quanti soldi sperperati in catering!); potremmo spiegare che la stessa parola ricerca è abusiva, e che sarebbe meglio tirar fuori dalla soffitta la vecchia, umile parola studio, una pratica che per essere svolta ha bisogno soltanto di scuole e università decenti, di buone biblioteche e del denaro sufficiente a far vivere in modo dignitoso le persone che studiano e quelle che aiutano gli altri a studiare. Il resto è superfluo; e al superfluo, in tempi di crisi, è giusto rinunciare.

[Già pubblicato su Italianieuropei, 3 (2012), pp. 30-37]

[Immagine: Tomba della famiglia Ribaudo, Cimitero di Staglieno, Genova. http://www.flickriver.com/photos/ankor2/4563863341/]

11 thoughts on “Piagnistei

  1. Molto interessante e condivisibile. Tra le tante cose scritte, vorrei sottolineare il capitolo “Spese inutili e sperpero di soldi e di energie” che purtroppo, proprio di questi tempi e per una questione di sopravvivenza, temo, sono aumentate ovunque negli enti pubblici, a cominciare dalle offerte che vengono continuamente rivolte alle scuole (insegno in una scuola superiore), spesso senza nessun collegamento con il curriculum e senza neanche la ricerca di un collegamento o una collaborazione. Ma questo, forse, è un altro discorso. Grazie per l’articolo.

  2. Vorrei consigliare ai lettori di questo ottimo post, DISUMANE LETTERE di Carla Benedetti, molto in sintonia e altrettanto, se non ancora di più, brillante

  3. Bel pezzo, nel complesso condivisibile.
    Confesso che spesso i piagnistei degli umanisti mi spingono verso atteggiamenti unilateralmente tecnocratici (per usare il linguaggio del testo). Ma parlando sul serio credo che l’essenziale sia affrontare questa faccenda dei “classici” in modo disincantato (laico, direi). Si tratta di riconoscere che certi testi e autori di riferimento meritano di essere studiati, conosciuti e preservati perché dicono qualcosa di interessante, qualcosa che può essere utile per comprendere l’esperienza. Non solo quella di adesso, ma in generale. E’ anche normale ricollegare lo studio dei classici (della letteratura, non della filosofia) alla propria identità nazionale, che è anche culturale; l’importante è farlo in modo riflessivo.
    Il problema ha due livelli: la ricerca e l’insegnamento.
    Sul piano della ricerca, l’iperspecialismo, la perdita di senso, ecc. sono tutti mali sistemici. Si combattono con una forte dose di consapevolezza dei fini culturali della propria ricerca: avere un disegno generale, eventualmente anche collegato a esigenze del presente, ma comunque costituito da esigenze di senso. Difficile farlo in un contesto in cui gli imperativi sistemici (pubblicare, avere la propria nicchia, trovare i fondi, ecc.) premono, però uno studioso serio dovrebbe sempre porsi questo obbiettivo.
    Sul piano dell’insegnamento (a scuola, non mi pronuncio sull’università, ma ci sarebbe molto da dire sull’incapacità didattica della nostra università), si tratta di far saltare lo storicismo che ancora ci soffoca. In due maniere: andando dritti alla sostanza delle cose quando questo è possibile (esempi: in filosofia puntare sull’argomentazione, in letteratura puntare sull’analisi dei testi); rivedendo criticamente la lettura storica quando questa è inevitabile, collocandola sempre in una prospettiva culturale. Avere il coraggio di interpretare. Anche semplificando: a scuola bisogna proporre qualcosa di significativo, poi ci sarà il tempo, per gli studenti, di buttare a mare tutto.

  4. Bello davvero. E sono felice che il professore individui il vero nodo nella didattica, nonché nella chiusura del mondo accademico alla “realtà” là fuori. Credo infatti che, in ultima analisi, l’umanesimo sia quasi completamente riducibile a un fatto o problema di educazione (di chi vive nel mondo, non al di fuori di esso). Studiando e leggendo mi educo perennemente, insegnando a studiare e leggere educo a educarsi poi da sé con la lettura e lo studio.
    Per guardare con un po’ di ottimismo al futuro, penso che si stia aprendo una possibilità di ricerca, riflessione e azione, nel campo della didattica e della didassi delle materie umanistiche, molto ampia. Bisogna solo coglierla con intelligenza, anche se credo che ci siano alcuni fattori problematici di cui tenere conto.
    Per motivi di studio, sto leggendo un po’ di didattica della letteratura. La bibliografia (almeno quella significativa) è ancora molto scarsa, considerando la potenziale vastità dell’argomento. Non dico che dovrebbero esistere cattedre di didattica della letteratura nelle università – forse creeremmo solo una nuova etichetta vuota –, ma manca un campo di discorsi condivisi (diciamo una “disciplina”, ma non vorrei suggerire un’etichetta ancora) entro cui far convergere la discussione. Questo “campo” non potrebbe che (e dovrebbe) essere costruito sulla sinergia tra scuola superiore e università. Solo così si potrebbe uscire dal reciproco apartheid: i professori universitari, gli storici della letteratura e i critici, non mettono piede nelle scuole, salvo lamentarsi poi che gli studenti non siano più come quelli che uscivano dal buon vecchio liceo di una volta (ah, l’avessimo ancora! Piacerebbe anche a me… ma non c’è e, insomma, pace all’anima sua. Noi viviamo!) e quindi loro faticano a fare il loro mestiere; noi professori delle superiori non sappiamo a volte come raccapezzarci con studenti che mai hanno sentito parlare, neanche vagamente, di Baudelaire e Nietzsche, prima che si sia noi a farlo (non ho citato questi due nomi a caso: oggi non abbiamo, per suscitare interesse, neanche la possibilità di appigliarci alla cultura alta che debordava dalla scuola e dall’università e veniva percepita diffusamente dai ragazzi delle generazioni precedenti, più per fama che per reale conoscenza, come controcultura, o cultura vitale, ribelle, maudit, contro la “muffa” dei luoghi istituzionali) e oscilliamo tra la proposta-imposizione degli autori del canone perché “il faut” e tentativi, a volte troppo spurii, di suo ammodernamento. Chiaro che questi due mondi non possono incontrarsi: il primo è arroccato nella difesa della disciplina, anche a costo dell’irrilevanza non dirò solo sociale ma culturale (il rischio infatti è che quella disciplina diventi solo più erudizione), il secondo è immerso nella opacità, a volte anche decisamente scoraggiante, del reale. In realtà lo schema funziona anche se applicato all’interno stesso della scuola superiore: c’è chi difende la storia della letteratura, così come chi smania per far qualcosa d'”attuale”.
    Insomma, bisognerebbe parlarsi. E capirsi, possibilmente. Per far ciò, la cultura universitaria dovrebbe uscire dalla logica (che funzionava, una volta: ora non più) per la quale Lei discute il canone, scrive i manuali, li consegna all’insegnante delle superiori che esegue, mentre l’insegnante delle superiori dovrebbe uscire dal complesso di inferiorità per cui egli è ripetitore del depositato critico altrui, ovvero – che è il correlato necessario di questo atteggiamento (per ora però mi pare raro) – s’insubordina, si rifiuta di fare il ripetitore, mette il testo (magari non più canonico) al centro, privo di fronzoli critici, e lascia interpretare più o meno liberamente gli studenti (atteggiamento simile a quello di Stanley Fish, nel libro “C’è un testo in questa classe?”, radicalmente costruzionista, ma che pone problemi stimolanti di ermeneutica).
    L’università dovrebbe continuare a fornire strumenti seri e rigorosi, sia mezzi tecnici sia modelli teorici esplicativi (come dice il professor Giunta, le discipline umanistiche devono continuare ad avere un loro alto rigore: leggeremmo un’edizione critica di un classico latino abborracciata da uno studioso digiuno di filologia?), ma non può pensare di dire alla scuola superiore “ecco qui, applica”: dobbiamo porci insieme il problema di come usare in modo efficace quegli strumenti. D’altra parte, nella scuola superiore, non si deve perdere il contatto con la vita e la richiesta di senso degli studenti (che, pure se ci pare deteriore, è prioritaria, forse ancor più della letteratura: “la realtà è sempre più giusta”, diceva Renato Serra, anche se forse in un altro senso), ma non si deve neanche perdere di vista il fatto che la cultura umanistica, quella “alta” – aggiornata, ridiscussa, reinterpretata, ma non annacquata nelle genericità di massa – può rispondere a quella richiesta di senso. Mi rendo conto che tutto ciò sia molto astratto, ma è proprio perché non ci sono ancora discorsi chiari e proposte concrete, che vadano a occupare quella terra di nessuno fra didassi delle materie e saperi universitari che si è abissalmente allargata in questi decenni. Bisogna incunearsi lì.
    Credo che sia importante, e in questo sono assolutamente d’accordo con Mauro, occuparsi di argomenti significativi per gli studenti. Lo diceva anche Pavese, che la cultura dovrebbe partire dal concreto, dall’umano e, se è il caso, risalire al monumentale (scusate, cito a memoria e malamente). È difficile che un ragazzo fra i quattordici e i diciannove anni, le cui letture sono mediamente i manga, Harry Potter, Twilight, saghe fantasy, e non sempre delle migliori (perdonatemi la generalizzazione volgare: ci sono tante e belle eccezioni, a volte sorprendenti), possa percepire come un problema immediato, non dico esistenziale, ma anche solo culturale e concettuale, la distinzione tra la concezione dell’amore nella poesia provenzale e in quella stilnovista. Sono meravigliose sottigliezze, ma tali restano alle sue orecchie. Tentare di spiegargliele a tutti i costi significa forse dimenticare che quel singolo contenuto non è l’obiettivo dell’insegnamento della letteratura e si finirà poi solo, se lo studente è disciplinato, per vedergli memorizzare e ripetere delle formule senza senso. Ma, credo, la cosa più grave è che si sarà tradito lo scopo più alto di un’educazione umanistica.
    Tuttavia, perché tentativi di questo genere non finiscano per dimostrarsi velleitari o confusi, c’è bisogno di categorie di riferimento chiare e convincenti, che non possono essere, come ho già detto, quelle della critica pura: avremmo bisogno di una critica applicata alla letteratura nella scuola. Io però vorrei che fossero gli insegnanti, medi e universitari, a contribuire a questa applicazione, perché diffido di altri. Insomma, non vorrei che per fastidio verso l’aridità autoreferenziale degli umanisti ci buttassimo in braccio ai tecnici: e via libera agli studiosi di didattica, di pedagogia, di psicologia. Nessuna tecnica didattica, nessuna categoria psicologica (magari blandamente applicata alla letteratura) ci salverà.
    Lo dimostra un fatto, e nel citarlo devo dichiararmi in parziale disaccordo con Mauro, o meglio, muovere un invito alla cautela a proposito di un passaggio del suo commento. Pensare che ci libereremo dai difetti dello storicismo solo facendo pulizia, riportando le materie all’essenziale – la filosofia all’argomentazione e la letteratura all’analisi dei testi – rischia di farci incorrere in un’amara disillusione, prima o poi. Forse l’insegnamento della filosofia non è mai passato per i tentativi di rinnovamento dai quali è passato quello della letteratura.
    Oggi, nell’insegnamento della letteratura in Italia si intrecciano, e mortalmente direi, due approcci che più diversi non si può: quello storicistico (nel triennio) e quello formalistico-strutturalista (che domina nel biennio). Ora, quest’ultimo è stato proposto, nell’enfasi rivoluzionaria degli anni Sessanta-Settanta, come la panacea di tutti i mali, che avrebbe – finalmente! – avvicinato i ragazzi al testo, senza l’ingombro del contesto storico-culturale, che spesso diventava ingombro totale (ovvero si leggevano pochi testi o nessuno). Si cercava insomma di applicare alla didattica lo stesso assunto che si riteneva valido in sede di studi accademici: il testo è una struttura che produce significato in sé, senza il bisogno di supporti contestuali. Allora (credo, non l’ho vissuto) fu davvero salutare, anche per scuoter via la polvere e le incrostazioni, per non parlare poi della forza di critica dell’autoritarismo delle interpretazioni che l’approccio strutturalista ebbe. A decenni di distanza quella rivoluzione è diventata una praticuccia di vivisezione del testo, con lo scopo, piuttosto confuso a dire il vero, di dare “strumenti d’analisi” agli studenti. Aggiungerei poi che lo storicismo di oggi non è più lo storicismo di allora: cinquant’anni fa esso era davvero, in Italia, un monolite filosofico-culturale, nel bene e soprattutto nel male, così che tentare di spazzarlo via aveva una fortissima implicazione politica: oggi lo “storicismo” è né più né meno che l’esposizione ordinata cronologicamente e in infilata di alcuni nomi, senza più rapporto organico con la storia. Ci credo, che sia noioso. Tuttavia posso dire, per l’esperienza personale di studente mia e di altri con cui su questo mi sono confrontato, che, a fronte di quelle notomizzazioni del testo della narratologia strutturalista nel biennio, la storia della letteratura del triennio era aria fresca: sentivamo almeno che il testo – qualche volta, quando ci parlava – era intero, anzi potenziato dalla sua collocazione in una storia, cioè in un senso, che lo arricchiva e ne ampliava la forza. Insomma, può capitare che il testo sia messo centro, ma del tavolo dell’anatomista. Ogni approccio può diventare noioso. Quindi, almeno per quanto riguarda la letteratura, il problema di come renderla cosa viva, senza però rinunciare al rigore (i ragazzi devono saper individuare le informazioni del testo, parafrasare, riassumere, e così via) continua a restare. Anche questo sarebbe un altro bell’argomento di discussione.
    Mi rendo conto di aver detto cosa non dovremmo fare, ma non cosa credo che si dovrebbe fare (meno presuntuosamente, cosa provo a fare concretamente, fallendo e riprovando), ma non credo che ci sia spazio qui per farlo. Ecco, il problema dello spazio in cui discutere queste cose torna. Nelle scuole lo si fa davanti a un caffé con i colleghi, se va bene e c’è sintonia. Gli spazi ufficiali e deputati a ciò non ci sono. Torno a ripetere che dobbiamo crearli dalle fondamenta. Per il momento, questa nuova nascita non mi sembra imminente. Ho qualche speranza dalla rete, dai blog. Uno come LPLC, anche se non si occupa esclusivamente di didattica, comincia già a fare qualcosa di molto utile in questa direzione.
    Ultimissima cosa. Ci sarebbe bisogno di più insegnanti giovani nella scuola: solo noi possiamo portare una sensibilità nuova alla cultura, per il fatto di averla vissuta da ragazzi in forme tutto sommato più simili forse a quelle degli adolescenti di oggi, che a quelle degli insegnanti entrati nella scuola nelle grandi “infornate” degli anni Settanta-Ottanta. Non voglio assolutamente fare il rottamatore, è un atteggiamento che detesto. Credo solo che anche gli insegnanti con più anni di noi potrebbero avere benefici da un confronto con le nuove leve, come d’altra parte io ho imparato moltissimo dall’osservazione e frequentazione di una cultura, di cui loro sono portatori, che è indubitabilmente più coesa e organica di quella attuale. Ma la situazione dei giovani insegnanti precari è inenarrabile e infatti non ne dirò niente, per non allungare la lista dei fastidiosi piagnistei.

  5. “Niente di male, ma allora è meglio studiare informatica, o ingegneria, e fare la vita dei padroni anziché quella dei servi.” Chi ha scritto questa frase è il peggiore dei servi, poiché appartiene alla categoria dei servi volontari.

  6. Che dire di questo tema che non sia già stato detto? Io quasi quasi mi domanderei e vi domanderei se davvero le discipline umanistiche sono in crisi (ma lo sono in base a quali dati? E in confronto a quali altri dati del passato? Non è che magari è solo una nostalgia soggettiva dei tempi andati che sono percepiti come “bei” proprio adesso quando sono “andati”?) a causa di contrasti con la società attuale che le discipline scientifiche invece non avrebbero.

    Mi spiego: oggi le leggi di Newton si possono forse imparare meglio oggi nell’epoca dei messaggi istantanei? Tutti gli studi in materie scientifiche hanno mille legami tra e dentro le discipline? la società attuale ha così grande interesse per ogni minima ricerca scientifica su questa o quella particella o su questo o quel particolare dei primi istanti dell’universo? E nulla dico della vulgata che gli studi delle scienze naturali sarebbero tutti monetizzabili e traducibili in applicazioni tecnologiche nell’immediato, cosa del tutto falsa altrimenti i tecnocrati che sarebbero oggi così dominanti avrebbero fatto schizzare in alto i finanziamenti italiani per la ricerca…

    Un piccolo appunto sul seguente passo:

    “L’insegnamento dei classici va difeso e migliorato, nella scuola e nell’università, perché è una parte fondamentale della nostra cultura nazionale: è quanto di meglio abbiamo da offrire al mondo, è un patrimonio che è affidato soprattutto alla nostra custodia”

    secondo me è una visione che deve essere non dico criticata in base a un opposta visione multiculturale che appiattisce le culture in una finta neutralità (ma comunque non mi paiono molti i propositori di dare nell’ora di lettere uno spazio alla letteratura italiana o europea uguale allo spazio per quella dei Bantu o di ogni altra etnia) ma semmai superata riconoscendo che la “cultura nazionale” in quanto cultura non è mai stata è mai sarà un fossile immodificabile, ma un processo mutevole i cui componenti e il loro valore vengono messi in discussione non solo all’interno di tale cultura (e dunque la storia non si può appiattire a trasmissione acritica di memorie senza alcun invito a critiche attive) ma grazie anche all’influenza di culture “altre” in quanto ogni cultura esiste come relazione con le altre e dove i confini sono sempre convenzioni certo utili ma provvisorie.

    Si scoprirà in tal modo ad esempio quanto influenti sono state ad esempio le fonti arabe sulla Divina Commedia o le influenze buddhiste su Schopenhauer e valorizzarle sia in quanto “altre” (ma sempre viste da un punto di vista “nostro”) sia in quanto collegate alla nostra cultura. Insomma l’ignoranza degli “altri” non può che produrre ignoranza di noi stessi.

  7. Scrive Michele dr: “Che dire di questo tema che non sia già stato detto?”

    Ci provo io.

    Guerra fredda 1 (1945-1989). Le classi dirigenti USA che la gestiscono si sono formate in preparatory schools dove il latino è materia obbligatoria sempre, il greco a volte. Non sono immuni, naturalmente, dal contagio dell’eccezionalismo americano, che si respira con l’aria di casa. Però sono in grado di sviluppare una visione realistica del confronto nucleare con l’URSS, i cui caposaldi sono: a) MAI un confronto diretto con la grande potenza nemica b) MAI introdurre uno squilibrio decisivo negli armamenti nucleari. Ci sono momenti di tensione anche seri, ma l’equilibrio nucleare che si fonda sulla Mutually Assured Destruction viene conservato, e il mondo è ancora qua.

    Guerre fredda 2. (2014 -?) Le classi dirigenti USA che la scatenano e la gestiscono si sono formate in preparatory schools dove latino e greco NON sono materie obbligatorie. (In questi ultimi anni, le migliori e più costose preparatory schools USA stanno reintroducendo sia il latino sia il greco tra le materie obbligatorie, ma gli eventuali effetti si sentiranno a partire dalla prossima generazione). Per la prima volta nella storia, le suddette classi dirigenti USA minacciano direttamente gli interessi vitali dell’unica potenza nucleare al mondo in grado di ridurli a cenere radioattiva (far entrare l’Ucraina nella NATO equivale a una minaccia esistenziale, per la Russia, che NON PUO’ accettarla senza reagire).
    Condiscono altresì questa politica folle con affermazioni ufficiali non meno folli, che farebbero ridere se non facessero venire i capelli bianchi, quali che l’America è l’unica “indispensable nation” (Clinton), o che siccome loro “stand tall” (Albright) vedono più lontano di tutti gli altri, i quali devono fidarsi e stare muti. Si confrontino queste pericolose scemenze da cocainomani con il “long telegram” che l’ambasciatore George Kennan spedì da Mosca a Washington nel 1946, nel quale si gettano le fondamenta della politica USA/URSS dei successivi 40 anni, e si valuti lo scarto di livello qualitativo (non c’è bisogno dei test INVALSI).

    Non dico che il diverso atteggiamento delle classi dirigenti USA nella prima e nella seconda guerra fredda dipenda dall’apprendimento del greco e del latino. Non c’è dubbio che la causa prima sia l’implosione dell’URSS negli anni ’90, e la sottovalutazione della resilienza russa che ne è conseguita.
    Però, chissà? L’apprendimento delle lingue e delle culture classiche, frequentando le quali è difficile non imbattersi nel concetto di limite, e in quello di hybris (con le devastanti conseguenze che ne derivano) magari non ha fatto male ai gestori della guerra fredda 1; magari, ha contato per uno 0,50% nell’ adozione di una mentalità realistica, e nella capacità di gestire diplomaticamente (ossia, mettendosi empaticamente nei panni del nemico) le crisi politiche internazionali. Già uno 0,50%, quando si tratta del destino del mondo intero, secondo me basta e avanza a giustificare in eterno tutti gli aoristi e le consecutio temporum.

    Ci sarebbe da fare un discorso a parte sull’Europa, se ci fosse l’Europa: ma c’è solo l’aborto-Ersatz tecnocratico UE. Qui le classi dirigenti, almeno in teoria, il latino e il greco dovrebbero averlo studiato al liceo; e qualche brandello di ricordo de “I persiani”, o de “La guerra del Peloponneso”, dovrebbero averlo serbato, in un ripostiglio del cervello. Si vede che tra l’arroganza tecnocratica e il servilismo politico, non lo trovano più. Speriamo che non debbano fare, e farci fare, un ripasso sul campo.

  8. Prima di sostenere l’esistenza di un nesso causale di tipo lineare tra gli studi umanistici e il comportamento socio-politico di una classe dirigente, è buona norma confrontarsi con la scepsi critica di uno studioso, quale Paul Veyne, il quale in un suo contributo dedicato a tale concetto invita a diffidare dell’‘humanitas’, ricordando che i greci e i romani, sotto il raffinato manto retorico di parole suggestive come ‘paideia’ e ‘humanitas’, costruirono regimi dispotici, quali l’impero ateniese e l’impero romano. Da un punto di vista che non sia criticamente inerme, quella che potremmo definire ‘la prova di Veyne’ risulta allora particolarmente opportuna e fruttuosa, se si vuole garantire al concetto di ‘humanitas’ un futuro che lo separi nettamente dalle identificazioni del passato con regimi, come quello fascista e come quello nazista, che di tale concetto hanno fatto un uso strumentale e apologetico in funzione della loro politica duramente autoritaria ed aggressivamente imperialistica. Vale quindi la pena di citare, a proposito del futuro dell’‘humanitas’, l’amaro rimprovero che nella prefazione al “Capitale”, attingendo alle fonti della cultura classica che egli padroneggiava con sicurezza e competenza non comuni, Karl Marx muoveva alla intellettualità del suo tempo che non voleva lottare contro il capitalismo (un rimprovero che torna ad essere attuale nel nostro tempo, come tante altre proposizioni e tanti altri teoremi del fondatore del materialismo storico): «Perseo usava un manto di nebbia per inseguire i mostri. Noi ci tiriamo la cappa di nebbia sugli occhi e le orecchie, per poter negare l’esistenza dei mostri».

    Pertanto, come è vero che i valori sono oggettivi (ovviamente in senso storico e non in senso naturale), così è vero che i valori in sé, al di fuori dei conflitti sociali reali, non esistono. L’umanesimo (“post-critico” o “disinteressato” che sia) non è dunque un valore in sé. Esso è stato, però, un valore storicamente concreto quando ha funzionato come veicolo ideologico di classi o di gruppi sociali in conflitto con lo stato di cose esistente e, quindi, in cerca di un’espressione simbolica dei loro interessi e dei loro bisogni. Oggi, ad esempio, l’umanesimo è un valore per un gruppo ristretto di docenti e di forze politiche di opposizione. Non saprei, tuttavia, dire, per fare un altro esempio, se lo sia e in che misura lo sia agli occhi degli studenti del liceo classico e degli stessi studenti delle facoltà di lettere. In attesa che i conflitti reali riportino in primo piano forze sociali e politiche simili a quelle che nel passato hanno tentato di praticare quei valori di verità, giustizia ed eguaglianza, che hanno caratterizzato prima l’umanesimo cristiano e poi quello socialista e comunista, si può per ora soltanto affermare, formulando un chiasmo che contiene, ad un tempo, una previsione, un rischio ed un auspicio, che il futuro dell’‘humanitas’ dipenderà dall’‘humanitas’ del futuro. «Nell’uomo c’è molto», diceva Bertolt Brecht, «facciamo molto dell’uomo».

  9. Caro Barone,
    lei dice bene. Lo studio della classicità non garantisce niente e nessuno contro la barbarie; anche gli uomini che della classicità furono artefici e contemporanei di barbarie ne hanno commesse in abbondanza.
    Una sola cosa intendevo dire, e più modesta: studiando la classicità greca e latina si è quasi costretti a incontrare modi di pensiero non conformi rispetto al pensiero dominante odierno.
    Tra questi, mi paiono particolarmente rilevanti e necessari il concetto di limite, così intrinseco alla cultura greca, e le peripezie della hybris; vi si potrebbe aggiungere la distinzione tra economia e crematistica, oggi pressochè ignota al discorso corrente. Secondo me, incontrare questi concetti in età formativa fa bene. Che poi non basti a instaurare un mondo giusto o anche solo meno ingiusto, non c’è dubbio.
    Resta, però, che non mi pare poco.

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