di Eugenio Gazzola

 

Da un po’ d’anni si sentiva parlare dei quaderni che Piergiorgio Bellocchio compilava affiancando testi a fotografie, disegni, riproduzioni d’arte. Una raccolta di stati d’animo e notizie personali per ragionare intorno ai temi che gli erano congeniali: una vita decente in tutti i sensi; la politica intelligente e quella cialtrona; la letteratura. Le cose tra loro intrecciate come una sola. Un’opera monacale: «Da qualche anno è diventato il lavoro che mi occupa di più, e la parte del lavoro consiste nel ritagliare, incollare, sottolineare cose che non serviranno mai né a me né a nessuno»: così la magnifica inappellabile presentazione dell’autore in quarta di copertina.

 

E ora, un mese dopo la sua scomparsa (nell’aprile scorso, a novantun anni – chissà cosa ne avrebbe detto lui, di tanta tempestività,) il Saggiatore manda in libreria Diario del Novecento con le cure affettuose di Gianni D’Amo che ne ha seguito la realizzazione fin da principio.

Si capisce che non è il Bellocchio dei «Quaderni piacentini», questo, e nemmeno di «Diario», la rivista “personale” con Alfonso Berardinelli (o della «responsabilità di dire io»); bensì un terzo Bellocchio che in parte ha convissuto con gli altri due; che di certo ne conserva la capacità critica, ma che a differenza loro guarda il mondo – e se stesso – con rafforzata comicità.

 

Gli scritti di questo primo libro vengono dai quaderni compilati tra il 1980 e il 2000, per cui è naturale presumere un seguito dell’opera con i quaderni successivi. È un lavoro complesso, ottenuto dall’accostamento di elementi eterogenei quali scritti autografi; fotografie e trascrizioni (qui in corpo minore) di articoli giornalistici, annunci pubblicitari, citazioni letterarie. Vi si trova lo scritto personale e famigliare; l’aneddoto e lo scherzo, l’appunto dell’istante così come si è presentato; ci sono i ritratti degli amici e i profili di alcuni ai suoi occhi imperdonabili. E infine, gli scritti di prima mano pensati per saggi più ampi e poi lasciati da parte oppure riscritti; e risposte a questionari scemi e interviste telefoniche… Insomma, c’è dentro l’officina dell’intellettuale privato, ma con l’aspetto sorprendente che nessuno (pochissimi) immaginava l’esistenza di un’officina.

 

Ora, il cuore del lavoro di Bellocchio (da sempre, non solamente qui) non è nella contemplazione dei fenomeni, ma nell’esperienza dell’arte e della politica: la lettura di un libro, non il libro in sé; la visione di un film, l’uso pubblico di un’opera d’arte; l’esperienza di un fondo letto sul quotidiano o le dichiarazione di un governante… Quel che normalmente chiamiamo recensione è, in essenza, l’esperienza di un fatto individuale che dev’essere restituita e rispetto alla quale il saggista s’impegna alla verità, cioè a non dissimulare piacere o condivisione come invece accade, di norma, nelle recensioni di oggi. Da questo imperativo deriva quella sua scrittura così aderente al vero e al concreto, che non accetta troppi aggettivi né giri a vuoto. E a me pare gli venga, questa precisione ritagliata sui fatti, dalla conoscenza diretta di un “mondo piccolo” fatto di contadini, operai, ferrovieri, che si muovono nello stesso brodo dei mediatori di terreni e di bestiame, dei borghesi professionisti e dei commercianti, dei padroni, in un intrico di traiettorie che alla fine non si direbbe vi sia tanta lontananza tra ricchi e salariati, ignoranti e professori… è il mondo in cui lui era cresciuto, cioè prima di praticare la “cultura” invece che gli affari – come avrebbero voluto in famiglia.

 

La famiglia, appunto. Negli anni è andato raccogliendosi un interesse acutissimo verso la storia della famiglia Bellocchio, come verso la saga di una famiglia italiana, borghese e tradizionale, che non aveva retto l’urto della modernità. Merito in particolare degli intensi paesaggi del fratello regista Marco, fin da I pugni in tasca del 1965 al Marx può aspettare del 2021. Poi sono venute le poesie del più giovane fratello Alberto (Il libro della famiglia, sempre dal Saggiatore, 2004, apre la strada a un poema storico tuttora in farsi). Disgrazie incomprensibili, lutti, contraddizioni – sono diventati per taluni uno specchio; per altri un simbolo da condividere, per altri ancora un prodotto dell’arte. Credo che solo un romanzo di largo respiro (o una serie televisiva – linguaggi che hanno così tante analogie tra loro) potrebbe riunire l’insieme degli episodi di cui abbiamo avuto fin qui una visione parziale.

 

Dei fratelli autori Piergiorgio, per evenienza il maggiore di casa, aveva osservato una certa prudenza a parlare di sé e dei suoi, che del resto gli si confaceva, ch’era intonato alla persona. O forse giudicava questa la sede giusta per dare il proprio ricordo, poiché di fatto è in questo diario non-diario che troviamo un po’ della sua personale biografia; il ritratto dei genitori e dei fratelli più sfortunati – quasi nulla sui fratelli di successo («Nella nostra famiglia vietata la medietà»). Ma nell’insieme la sua cronaca è data come a voler mettere ordine nelle «intermittenze della memoria», cioè con il rigore e l’esattezza del referto storico.

Le immagini per Bellocchio non sono un corredo del testo. Fotografie di cronaca e di storia, ma anche disegni e bozzetti pubblicitari sono pienamente testo. Perciò, se proprio vogliamo muovere un appunto all’edizione dei quaderni, diremo che le immagini avrebbero meritato maggior spazio per la ragione che il loro uso ai fini della critica (politica, soprattutto, e sociale) rappresenta ancora il lato meno noto o sconosciuto del lavoro di Bellocchio. E inoltre perché sono le immagini a stimolare meglio la curiosità di un lettore giovane al quale, in ogni caso, dovrebbe essere rivolta in primis un’opera di questa portata. Per analoga ragione sarebbe stata utile in apertura una biografia dell’autore più ampia di quella assegnata alla copertina.

 

E poi c’è l’antica tradizione italiana del libro illustrato che credo gli fosse cara e presente nell’intendere la fabbrica dei suoi quaderni. Credo lo dimostri l’amore per il libro di Pinocchio, le cui illustrazioni (di Chiostri, Mussino, Mazzanti…) sono disseminate nel volume. E c’è lo smisurato amore per il cinema, che testimonia in tal senso, che gli fa rivedere più volte i vecchi film di Ford, Hawks, Houston, Capra, Welles, eccetera, per scoprirvi storie nuove e autonome posture attoriali. Perché poi sono gli attori, nella sua personale galleria, a riscrivere la storia più di quanto facciano i loro personaggi. Se l’attore gli piace, Bellocchio pratica con sistema la sostituzione di Dick Handley con Sterling Hayden, per dire. Esattamente lo stesso che accade alla parte di noi che ancora riesce a provare meraviglia.

 

Alcuni aspetti dei quaderni risultano sorprendenti, dal mio punto di vista. Il primo è senz’altro la consuetudine con le Scritture, in particolare il Nuovo testamento. Retaggio dell’educazione cattolica ricevuta in famiglia per mediazione della madre, senza dubbio, ma non solo. (Anche quello, poi, è un cattolicesimo pragmatico, concreto: è indimenticabile l’aspettativa dell’anziana sorella Letizia nell’ultimo quadro famigliare di Marco, Marx può aspettare: «dopo che sarò morta vorrei andare in Paradiso, non tanto per Dio, ma per rivedere la mamma e il papà. Ma sarà impossibile, vero?, chissà quanta gente …»). La fedeltà di Piergiorgio alle Scritture è di tipo culturale, ha tratti morali e letterari, si accompagna sovente alla curiosità storica per i protagonisti, i delitti e le pene, il contesto politico. Predilige i Vangeli sia perché gli offrono materia per ragionare sul presente, sia perché diffida delle parti successive: negli Atti intravede già l’organizzazione ecclesiastica.

 

Anche la spiccata carnalità di certi ricordi, al limite della confessione erotica, è in qualche modo inattesa nell’equilibrio pubblico del personaggio. Fin qui sembrava esclusiva di alcune divagazioni cinematografiche, nei quaderni è invece dichiarata e persino sofferta. Ma ancora una volta, comicamente, prevale l’erotismo che ha la sua rappresentazione più viva nel parlato popolare.

A ogni pagina, diciamo pure, balza in luce lo spirito concreto del borghese di provincia – per quanto la sua vita non certifichi un grammo di quella praticità del fare e del guadagnare che leghiamo alla figura del borghese – e la convinzione che la difesa dei valori di democrazia, libertà e giustizia abbia radice, prima di ogni altrove, nel vecchio buon senso delle classi umili.

 

E difatti impietoso, è Bellocchio, con la sinistra italiana che, presa dalla smania di cambiare, gli ultimi li ha tralasciati molto tempo preferendogli le chimere del nuovo liberalismo e le sirene dell’industria culturale. Ci sono pagine straordinarie, per invenzione, sulla fenomenologia della sinistra che cambia, dove si scopre che sotto la superficie smaltata di fresco non si trova niente: apparenze che si rivelano madornali errori di calcolo. La Conferenza delle donne del Pds del 1993 si annuncia con immagini delle opere di Tamara de Lempicka, e Bellocchio commenta: «… saltare direttamente nell’alta società, nel mondo degli ippodromi, delle Rolls-Royce e Isotta-Fraschini, degli alberghi di lusso di Biarritz e Montecarlo, delle prime classi dei transatlantici, della caccia alla volpe, delle roulette, dello champagne, dei grandi sarti, gioielli… mi pare un passo troppo lungo anche per le gambe delle “nuove” donne Pds. Come sarebbe proporre a “modello” dell’uomo di sinistra, che so? Robert de Montesquiou, Gabriele d’Annunzio, il duca di Windsor, Porfirio Rubirosa…». Per tacere dei commenti al lavoro di Veltroni da critico cinematografico e da segretario Pds.

 

La critica sua al partito in realtà non è mai cambiata: «Per me, il Pci non era Togliatti (o Amendola, Longo, Ingrao… Berlinguer), il Pci era prima di tutto la classe lavoratrice: milioni di operai, contadini, artigiani, che volevano emanciparsi… […] Per questo ho votato per trent’anni per il Pci, non per il partito, ma per e con i lavoratori.»

Per Bellocchio anche la letteratura sottostà al medesimo imperativo morale. Letteratura degna è quella che nasce dai fatti e insegna qualcosa, poiché considera il fine dell’agire umano, il valore etico e morale delle scelte fatte; la scrittura che nelle figure e nelle circostanze del romanzo svela lo spirito di un’epoca, di una classe, di una nazione. «Un libro sui miei vecchi, sull’Italia umile e povera della mia infanzia e giovinezza relativamente privilegiate, sulla miseria, materiale e morale. E sulla decenza. Un libro, inevitabilmente, sulla guerra, su fascismo e antifascismo, cristianesimo e comunismo… ma incarnati in persone reali, come destino anzitutto privato» – sarebbe stato il romanzo da scrivere.

 

L’abbecedario di questi principî è appunto il Pinocchio che così di frequente compare tra queste pagine, icona che in sé concentra le allegorie moderne della letteratura e della politica, dell’ambizione e dell’onestà.

Non sono molti i destinatari dell’ammirazione di Bellocchio, tra gli scrittori che gli furono contemporanei: senz’altro Elsa Morante; Pier Paolo Pasolini (non per i romanzi); il primo Calvino, Fenoglio, Meneghello, Volponi, e negli anni giovanili Carlo Levi, Soldati, Moravia, prima ancora Vittorini e Pavese … Per quanto la sua educazione letteraria (alla fin fine educazione alla vita) si sia nutrita soprattutto di romanzi americani (Hemingway, Faulkner, Scott Fitzgerald), e romanzi dell’Ottocento russo, inglese, francese, più che dall’opera dei loro traduttori italiani. Echi di queste letture si trovano in tutta la produzione critica di Bellocchio fino al recente, bellissimo Un seme di umanità (Quodlibet, 2020).

 

Tutt’intorno, dal 1980 in poi, un presente tra il comico e il deprimente che negli anni di questi quaderni prendeva definitivamente corpo diventando il nostro orizzonte perenne. Perciò siamo indotti, noi che leggiamo saltando tra qui e là, avanti e indietro, a inseguire sempre un certo orgasmo liberatorio quando gli vediamo chiudere in gabbia tanti facitori di sciocchezze che la miseria dei tempi ha portato alla ribalta, in ruoli di “autori” o di “critici”: Bellocchio ne pesca in abbondanza nei serbatoi dei quotidiani italiani (da «la Repubblica» in primis, ma anche dal «Corriere») e nelle librerie. Anche allora, com’era ai tempi dei «Piacentini», i principali obiettivi delle sue scorticature erano scrittori celebrati dalla critica e dalle vendite (qui ciascuno troverà i “suoi”), cioè i prodotti maggiori dell’industria culturale cosiddetta, che un critico dovrebbe smontare per svelarne tecniche, finte timidezze, furbizie, ammiccamenti. Cosa che oggi non fa più nessuno sui nostri giornali.

 

 

Piergiorgio Bellocchio

Diario del Novecento

Il Saggiatore, Milano, 2022,

pagg. 614, euro 35,00

(a cura di Gianni D’Amo)

2 thoughts on “I quaderni di Piergiorgio Bellocchio

  1. Se si vuole andar dietro alle chimere, sarà sempre meglio del nichilismo del volgo; almeno dal punto di vista di un “intribo ad altare dei”.

  2. ” Venerdì 7 luglio 2022 – Poi vedo che il Diario del Novecento di Piergiorgio Bellocchio costa trentacinque euri, e dunque non lo comprerò. Tanto Piergiorgio non può aversene a male. “.

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