di Lorenzo Mari

 

[E’ uscito nelle scorse settimane Soggetti a cancellazione di Lorenzo Mari, nella collana Lacustrine, diretta da Renata Morresi, per Arcipelago Itaca. Ne pubblichiamo cinque poesie].

 

(da Délibáb)

 

*

 

Nel baratro con la divinità

nella notte oscura con la divinità

 

accucciate belve sottili

il rosario è quel che si canta

 

con le viscere non più dentro e le palle di

sego non più dentro perché bruciati occorre comunque

 

camminare e perdere organi dal

corpo per fare nuove le candele allo scopo di

 

spegnere ancor di più il buio che non

ci farà prede dove fievoli comprendiamo

 

il nostro equivoco soltanto quando

proferiamo parole, nella luce

 

diciamo che – pur se deboli –

non ci faremo prede: oggi –

 

neppure per denaro diciamo mentre

domani per denaro diciamo che

 

ci faremo prede, e nella

luce. E per

 

       sempre.

 

*

 

Se metti tutte le cose a posto il corpo

non è ancora fuori posto. Scivola.

 

Se metti tutte le cose a posto la casa

non è ancora fuori posto. Scivola.

 

Se metti tutte le cose a posto la strada

non è ancora fuori posto. Scivola.

 

Se metti tutte le cose a posto l’albero

non è ancora fuori posto. Scivola.

 

Se metti tutte le cose a posto l’animale

non è ancora fuori posto. Scivola.

 

Non è piatto, è declivio –

il luogo ha mancato di risposta

 

al canto, poiché nulla e nessuno

si dice estasi, o nuvola: tutto è ancora

 

 

a posto e niente ancora

fuori posto. Non qui.

 

*

 

(da Il conto del servo)

 

se terzine e quartine sono il conto del servo

sistema avverso resta

comprenderne il passo:

il verso frammento

e il frammento verso

poi dove vanno a finire

anche i conti

della serva

come

e perché

quando si dà una riga e a capo:

quando guardi e riguardi

come di scatto – scrivi e riscrivi

dici e ridici

come d’eco

no, padrone:

è semplice

se guardi

e riguardi

ecco, qui:

non c’è tutto

 

*

 

terra che non senti terra

che non desideri

desiderio né sangue

oppure terra rossa e sangue

alto oppure: desiderio

nero e hai detto tutto

del vulcano e dici dunque

etna e poi ancora

terra come chi ha tempo e non aspetta

terra per il ritorno alla

terra come se non fosse volare sulla

lingua che è di fuoco ovvero di

brace come se non fosse planare

al di sopra: giusto un poco

sfiorare una

terra nella mano una

terra nella testa nel capo nel gesto

nel verso una

carezza: che non senti

terra e poi la ribalti se hai capito

quando è coscienza ovvero è giusto

la terra che rovescia la terra e la

brace per morire in una grandissima

fossa

quando questa

è rivoluzione della terra

ovvero altro, quando il sangue

è stato alto e la parola

sempre e soltanto                           di rincorsa

 

*

 

(da Vertigo/Lai)

 

Cercato sirene tanto forte e a tal punto che sono

janas. Case distrutte dall’apertura di ventre

 

che non coincidono né con la fine della terra

né con la fine della roccia (di soppiatto

 

quando si parla di fine terra e di fine roccia

esse infine sono costituite affatto

 

diverse), case restituite che mai

sono sparse: in alcuni paesi janas sono

 

maschi. E le porte,

chiedono, le finestre?

 

E quella musica, Maria, se non sono

sirene ma janas – quei telai?

 

 

[Immagine: Monte dei Cocci, Roma].

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