di Fabrizio Bondi
E spesso mi domando se per caso persino con le palpebre sbarrate non sia successo che prendemmo sonno in tutto quel trambusto e che magari nemmeno sia trascorso senza scampo il tempo che ci assolse dall’attesa di chi credemmo quella notte stessa di scorgere piegato dal futuro a salutare in noi quegli assopiti ai quali debba il sogno di svegliarsi intirizzito al gelo qui dell’alba.
G. Frasca, 30 novembre 2021
1.
Il titolo dell’ultimo libro di Gabriele Frasca1 nasce da un felice repêchage storico. Durante le ricerche per la riedizione della Storia della rivoluzione di Trockij2 , Frasca si imbatte in una lettera che il trockijsta Christian Georgeviç Racovskij, di per sé personaggio notevole, antibellicista, sostenitore di Lenin alla II Internazionale, sfuggito alla terza delle purghe staliniane, scrisse nello stesso ’28 a Nicolaij Valentinov «bolscevico vicino a Lenin fuggito per tempo a Parigi»3, spiegandogli dal suo punto di vista cos’era andato, cosa stava andando storto nella Rivoluzione.
E ciò era, principalmente, la fossilizzazione burocratica sul modello delle democrazie borghesi, ciò che esattamente Trockij temeva: tale il senso della famosa formula che voleva la rivoluzione permanente. Frasca, autore spesso accusato d’obscurisme, ce lo martella in testa, coi suoi endecasillabi mimetizzati in prosa. E ancora: il rifiuto del ‘socialismo di un solo paese’ significava lottare contro il rafforzamento dei nazionalismi, della cui nefasta vitalità ancora oggi si vedono le catastrofiche conseguenze. Frasca oltretutto ‘traduce’ o ‘riattualizza’ il succitato precetto in questo modo: «Nessuna pandemia si può sconfiggere [|] all’interno di un singolo paese» (14 novembre 1974, LV, p. 309). Più chiaro di così!
Ci troveremmo dunque davanti al rifiuto dello stile «bello | e stupido»4 in favore di una più decisa svolta verso quella che l’autore stesso ha chiamato altrove «storiografia espressionista», a quella «storia ritornellata» da lui più volte tentata nei suoi saggi e romanzi?
Frasca stesso ha dichiarato (nella presentazione del testo agli studenti della Federico II di Napoli, pochi mesi fa) che gli ‘altri’ materiali raccolti sotto il titolo delle Lettere, provenienti da varî suoi cantieri aperti, erano in qualche modo apposti come supporto o puntello a quei primi testi più importanti: quelli premèvano. Ma tranquilli: anche presunti cascami e riprese sono stati sottoposti alla solita inesorabile lavorazione, alla messa in forma più perfetta possibile che è per Frasca una questione etica, prima che poetica o estetica.
2.
E understatement a parte, sta di fatto che ogni volta che esce un libro di Frasca, sia esso un ‘saggio’, un ‘romanzo’, una ‘raccolta’ di ‘poesie’ (già è sintomatico come il tema ci costringa a un eccesso di diacritici) tale oggetto, tipografico o meno, segni un passo avanti nell’invenzione: nuovi concetti e nuove forme, e insieme una ricapitolazione delle esperienze precedenti. Anche quest’ultimo uso è rispettato in Valentinov, testo quasi scabro nel suo endecasillabo prosastico — come potremmo chiamarlo —, promotore di un recitativo a fuoco sintattico mobile, in cui l’esecutore può far sentire il ritmo degli accenti o, a seconda delle esigenze di comprensione, privilegiare il senso a discapito del ritmo. Abbiamo cioè di fronte qualcosa di nuovo; ma strutture simili si trovano, con altri scopi estetici, nelle precedenti opere di Frasca (ad esempio, il doppio endecasillabo lasciato couler nel difficile Rimi5). Nuovo è però poiché è ‘nuovo’ il rapporto con il resto della nebulosa medium-messaggio. Il modello della Lettera, infatti, se si pensa al precedente romanzo6 e alla lettura intensa di Alain Badiou che Frasca ha compiuto, non può che richiamare quello delle lettere di S. Paolo.
Inoltre, il destinatario ideale – tutti diventiamo in qualche modo Valentinov – riceve lettere provenienti, si direbbe, da un tempo ‘fuor di sesto’, non dalla storia lineare, cioè borghese: datato 20 Agosto 1997 è un biglietto in cui Trockij, polemizzando col gruppo della «Na Postu» sosteneva che una vera arte proletaria sarebbe nata soltanto con la società senza classi: per ora bisognava attenersi a quanto di meglio l’arte borghese avesse prodotto7. La data, chiarisce Frasca nelle Note «è quella della morte di Vittorio Russo, appassionato filologo dantesco e sincero trockijsta» (LV, p. 45).
Una lettera proviene anche dal 2027, futuro anniversario del Settantasette: interferenza tra eventi diversi e lontani nel tempo e nello spazio che rivelano per lampi rivelanti singolari analogie8. Le Lettere a Valentinov sembrano a tratti irradiare da qualche rottame eruttato dallo Sputnick in un universo pluridimensionale, pynchoniano o lynchano. Ma quasi da subito l’artifex di questo ordigno epistolare fa la sua parabasi, dando voce a un’eventuale perplessità del fruitore:
Va bene mi direte ti seguiamo ma non capiamo mica cosa c’entri con questa storia che ci stai narrando non sai nemmeno tu se in versi o in prosa sempre non sia un monologo da palco o invece un saggio o una sceneggiatura9.
Recentemente, non a caso (come del resto è sua pratica corrente) Frasca ha iniziato l’avventura di trasformare lo scritto in performance audiovisive, con la complicità di sodali vecchi e nuovi (Massimiliano Sacchi e Ciop & Kaf, per far solo un paio di nomi). Comunque tutti siamo invitati a vocalizzarle, queste missive, per noi stessi o per altri, a farci settare dalle loro regole di installazione. Ma ciò non solo come esercizio di espressività, e forse nemmeno di comprensione. È per farci abitare dal testo che gli prestiamo la nostra voce, avendo così la possibilità di abitarlo noi, di penetrare nelle viscere delle sue ragioni e sragioni, fino al nocciolo di verità che eventualmente nasconda.
Ed è anche per questo che – per quanto paradossale vi possa sembrare – siamo invitati a giudicare il libro dalla copertina.
4.
Vi è infatti un simbolo che campeggia sulla copertina ‘soviet-graphic’ di Valentinov: intrecciati al nome dell’autore, la falce e il martello: ebbene sí, guarda un po’ chi si rivede, diranno in tanti. I motivi di una simile presenza allegramente ostentata, direi anzi ‘ostensa’, sono a mio parere plurimi: ma uno soprattutto importa.
L’introduzione di Frasca alla Storia della rivoluzione russa di Trockij ripubblicata su esortazione del medesimo da Mondadori è percorsa dal concetto di simbolo, strettamente connesso a quello di sogno10. La rivoluzione, per Trockij, era densa di simboli, poiché addensava fatti, eventi, sensazioni in poco tempo (intensificazione quasi… bergsoniana?) e il simbolo era appunto da vedere come condensazione di realtà: visione, questa, piuttosto freudiana che romantica11. Illusioni creatrici, il simbolo e il sogno, dalle quali bisogna estrarre ciò che di futuro ‘altro’ vi giace al fondo. (Su questo lavoro Benjamin, si può dire, perse prima la carriera e poi la vita12).
Senza un simbolo, o un sogno, non si dà battaglia che si possa vincere: e su un tale piano a creare un’interferenza nella radiofonia o stratificazione d’onda della Storia è l’austero Paul Veyne, lo storico dell’antica Roma. L’interferenza è tra la notte del 25 Ottobre 1917, alla vigilia di un incontro cruciale dei soviet, in cui Trocky e Lenin (semi)vegliarono insieme – e un’altra veglia, quella della battaglia di Ponte Milvio, in cui Costantino fece il famoso sogno ed assunse il simbolo cristiano come sua ‘impresa’. I due eventi sono accomunati dall’aver letteralmente cambiato la faccia del mondo.
Ed è allora attraverso un simbolo che forse le élites ‘molecolari’ possono comunicare con l’«inconscio collettivo» (Frasca usa questo concetto, credo, non in senso dogmaticamente junghiano) delle masse ‘molari’ che già sognano ciò che non ancora sanno di volere, cioè il cambiamento radicale dell’esistente13.
Cominciamo pian piano a capire il perché di quel simbolo sulla copertina di un libro ‘di poesia’: sebbene mai definizione sia apparsa così insufficiente come in questo caso. Rimaniamo dunque ancora un po’ nella Storia della rivoluzione russa. Se, nel suo prefatio, Frasca ci racconta come la recollectio filologica, la storia e la morfologia del testo che egli tentava di ricostruire (individuandolo subito come «pentecostale», cioè concepito per diffondersi in varie lingue, soprattutto verso la Germania e la Francia) aveva significato risalire fin quasi al punto di irradiazione dell’Evento rivoluzionario, nello stesso 1917 — ciò significava un fatto. E cioè che la vocazione alla scrittura di Trockij, che lo Stalin «glottologo» (Croce) sancì con disprezzo apponendogli come professione «scrittore» sul passaporto, non procedeva ‘dopo’ l’attività politica e il corso degli eventi, ma parallelamente, intrecciandosi ad essi.
Parrebbe qui riarticolarsi un motivo di risalita alla Quelle, che ricalca il mito del «Protovangelo di Giovanni» dispiegato a vari livelli nei Cancelli d’acciaio succitati. Si è invece qui alla ricerca qui del momento germinale, se non proprio dell’Ursprung, dello sprizzare dell’Evento-Rivoluzione dal pabulum di coltura precedente a quello in cui essa si marmorizzò nel calcificato sangue della disgraziata epopea staliniana.
Da quando, e perché, le cose hanno cominciato ad andare storte, si chiede costantemente Frasca in queste Lettere a Valentinov?
Certo, innanzitutto da quando si è installato nella ghiaccia di Cocito dello Stato burocratico Sovietico quello Stalin-Lucifero che campeggia in una pagina memorabile di Santa Mira (il secondo romanzo fraschiano)14. Ma le democrazie borghesi non saranno state – altra domanda – anche troppo solidali con lui? Le stesse che furono poi curate assai meglio degli inferiori di censo nell’infuriare di quella pandemia che quella tal volta seguì una guerra: la spagnola, evento mortifero straordinario ma rimosso dai libri di storia (forse non del tutto da quelli di letteratura, se si ricorda ad esempio – rara avis? – lo straordinario racconto di Hemingway Storia naturale dei defunti15). I morti di spagnola, a mio vedere, furono una temibile metonimia dei morti della Grande Guerra: a ben contemplarli i superstiti di quest’ultima avrebbero sentita ancora più urgente la domanda: perché, per chi siamo andati a morire?
A mio parere Gabriele Frasca intreccia la forse più sobriamente toccante ed efficace lettera dell’intera serie incrociando le evenemenzialità del primo ‘sperimentale’ bombardamento di Napoli, la composizione di ’O surdato ’nnamurato, la zarzuela Soldado de Nápoles e la diffusione appunto della spagnola16.
5.
Rapinosamente in questi anni si sono susseguiti fatti che non tanto – come dicono molti – hanno cambiato l’ordine del mondo, ma piuttosto, rubando la pregnante formula del grande secentista Emanuele Tesauro, ne hanno ulteriormente «per istraforo e di perspettiva», scoperchiato le contraddizioni che già lo percorrevano.
Non si può non pensare a ciò che molti hanno detto, cioè che la scrittura di Frasca preceda il presente, che sia quasi profetica (una simile qualità profetica è stata attribuita allo stesso Trockij). Più che altro essa si installa in un «presente profondo» (secondo la splendida espressione di Gilles Deleuze), in quelle ragioni appunto profonde, anche inconscie, della vita biologica e della storia culturale che sono esattamente il contrario della cronaca, che si oppongono alla cosiddetta informazione. La scrittura ha il suo tempo, procede a passo di lima: i fatti, i fattacci, le propagande strillate giorno dopo giorno ne hanno un altro. C’è stata l’epidemia, poi divenuta pandemia; ciò, oltre a bloccare l’originaria destinazione scenica di questo testo, ne ha mutato la fisionomia, forse la configurazione: senz’altro vi ha inserito un post-scriptum, rifiutato in tronco da una nota istituzione culturale italiana che l’aveva commissionato. In quel poscritto si dava una traccia piuttosto esplicita su come e dove rinvenire i pasoliniani «nomi» di chi speculò più che up to date sul disastro17.
E ancora. ‘Ad averlo saputo prima’, ci dice l’Autore, egli non avrebbe dato a quella che era la sezione centrale di Lame18 un titolo come Quarantena. Excusatio non petita, forse, dacché in quarantena ci eravamo in qualche modo un po’ tutti già da prima: Quanti ne sono ancora asserragliati in casa, scriveva appunto Frasca già prima della ‘svolta’ dell’inverno ’19. Contrario all’immediatezza, egli lavora e lavora di lima ed il tempo passa, e càpita magari che qualcosa accada non troppo lontano da noi, cittadini di un Europa che era già «ritornata calda»19 ai tempi della guerra in Yugoslavia. Riferimenti a Rive, del resto, galleggiano abbastanza numerosi in questo libro, appunto da l’«infelice coscienza»20, e poi sempre più spesso in Quarantena: ad esempio nella parola chiave «conto»: «il conto che tenne fin troppo coesa la scena che muta»21.
Già nei Novanta dei riesplosi Balcani, il divenire della Storia si era intrecciato a quella della scrittura di Frasca, in Santa Mira appunto, in Rive, nel saggio La scimmia di Dio, dove si parlava, guarda un po’, di guerra mediale. E ora?
E vedendo che adesso, che è quasi finito
maggio, al momento nemmeno ci è chiaro
che cosa prospettino i fatti
di questo contagio evitabile e annunciato
l’avrei fatta finita con la serie
e buona notte al secchio, tanto è solo a un battito
interiore a cui avrei comunque rinunciato,
ciarpame fra queste macerie
sociali che chiedono almeno che la voce
si liberi con rabbia del suo parassita,
se non avessi issato questa croce
lì dove si cospira il prezzo della vita22.
Occasione dunque, la peste ‘annunciata’, per liberarsi del parasite parolier di lacaniana memoria, la parola da cui siamo parlati. Ma se pensiamo, pasticciando un po’ Marcel Aumont, al celebre chacun porte sa croix, moi je porte une plume, ritroviamo nella croce che Frasca pone in punta di verso il signum di Costantino, e nella penna… il nome di battaglia di Trockij.
6.
Il libro è anche, come si è detto, una summa o summula fraschiana, una ripresa di precedenti esperienze. Abbiamo la prosa ‘puntata’, in cui la clausola medievale si abbraccia al buio sussurrato, al palcoscenico sigillato nel cranio à la Beckett (Richiami). C’è L’inquieta freccia. 45 giri, con una ‘facciata’ dedicata a Góngora (traduzione di un sonetto) e l’altra a Robert Wyatt. Curioso smottamento storico, quest’ultimo, se il song di Wyatt dice «io sono il song e adesso inizio, ecco, ora c’è il bridge ecc. ed ecco ora continuo, ancora il bridge e adesso finisco…» fa il paio con una tradizione ‘metasonettistica’ autoriflessiva tutta interna al genere.
C’è poi una grande fascia centrale occupata dalle canzoni alte (già in parte presenti in Lame) della già citata Quarantena, che si aprono con un tema, proprio in senso musicale, dylanthomasiano (Where Have the Old Words Got Me)?23. Oggetti metrici complessi, che abbandonano addirittura l’endecasillabo ‘assoluto’ per combinarlo a movenze barbare, esse sono comunque attraversate da un vento, da un turbine squisitamente dantesco. Vedi Dell’altre cose scorte a enumerarne il conto, fondata sui versi 7-8 della Comedìa, canto I. Tali cantiones maggiori retoricamente si inquadrerebbero nella figura dell’epanadiplosi, o inclusio, poiché il primo verso vi figura ‘uguale’ all’ultimo. Un’ennesima sigillata forma fraschiana, in cui tanto l’Io o altro pronome poetante quanto il Lettore si ritrovino rinchiusi tra alte soffocanti mura? Mica tanto, se è proprio il titolo a inserire quella variazione che dirompe lo stampo dell’uguale, la crepa famosa nella perfetta giada cinese (oltre al fatto che incipit ed explicit talvolta non corrispondono perfettamente).
Inoltre, i componimenti di Quarantena si pongono sí come forme ‘alte’, ma nelle quali sono inseriti i più diversi flussi linguistici, e saliscendi di tono, con punte di stylus comico e infracomico da non sdegnarne Malebolge, né il degré zéro. Ma vi possiamo delibare anche la canzone dottrinale scientifica, dove si mette in versi nientemeno che la nascita della vita, lo sfregarsi dell’acciarino originario che ci distaccò dalla materia: con un certo aggiornamento peraltro alle ultime teorie, in Se quell’inezia della pietra avesse un senso24.
«Pietra» è parola che riporta ancora a Dante. È come se Frasca utilizzasse dei relitti, dei frammenti di Dante in modo non feticistico, quasi fossero reliquie a cui aggrapparsi, da cui sperare miracoli. In questo senso è una volta di più against the grain, e non c’è bisogno di spiegare il perché.
7.
Nel ‘resto delle Lettere’, chiamiamolo così, circola anche un certo autobiografismo, che è cosa inaudita per un autore che ha sempre parlato di sé in forme traslate e a dir poco antiliriche (in un periodo poi come l’attuale, in cui il ritorno della confessione liricheggiante, a stento nutrita di un mazzetto di omogeneizzati -eni e -ini ha fatto in questo paese, per dir così, un nuovo salto quantico…).
Frasca vi oppone un vero e proprio antipetrarchismo, prendendo Petrarca evidentemente come emblema, o auerbachiana figura, del culto dell’Io, del ripiegamento ombelicale, del coccolare la propria ferita. Usando magari i topoi stilnovistici per degli ‘esausti’ beckettiani, ad esempio vecchi o vecchie. Frasca bene le rappresenta qui nel dittico Lauretta-Fiammetta, raccolte sotto il boccacciano titolo comune Quando tempo lor parve25. Laddove, a dispetto del nome-senhal boccacciano un poco di petrarchismo (ma perché invece non di proustismo, magari lievemente parodizzato?), casomai, si potrà trovare nel secondo ritratto, uno struggente dagherrotipo settantasettino di ‘ciò che sarebbe potuto essere e non fu’ (profilo di ragazza stampata nella memoria e lì ghiacciata in un particolare gesto, poi rivista, a distanza di decenni, letteralmente per strada), e che riesce tuttavia a non essere strappalacrime. Eppure la fatale «discesa» di un tempo dell’eros, che è sempre un ‘controtempo’, porta con sé, a cuore notomizzato, risonanze elegiache, se non meramente drammatiche.
Notiamo però anche che Frasca amplia in Lettere a Valentinov la sua esperienza traduttiva dei sonetti shakesperiani, dai tre excerpta dei Versi rispersi di Lame, (nn. 42, 49, 90)26, qui riportati senza modfiche sostanziali, con l’aggiunta di 9, 31, 71, 129, 138, 15527. Non a caso la forma prescelta è quella italiana, non all’inglese. In omaggio all’enorme lavoro che Frasca ha fatto sul sonetto, da una vita, affrontando la traduzione sempre nell’ottica dell’imitazione ‘foscoliana’. Qui, nuove e vecchie traduzioni tralucono con una limpidezza esemplare. Qui si concentra, uguale e diverso, anche il lavoro fatto altrove su Quevedo e su Góngora. Ma si sospetta esserci di più, quasi delegata fosse al Bardo l’idea d’una resurrezione del Desiderio sempre possibile, nonostante l’atmosfera comprensibilmente apocalittica che pervade la raccolta, e nonostante il carattere di poeta già ampiamente vòlto alla conversio, alla mutatio animi con cui vi si rappresenta, ironica ma non troppo, l’istanza poetante.
Agli sgoccioli porta invece all’estremo massimo possibile la tensione tra la forma metrica e il suo inveramento tipografico-vocale. L’immagine della pagina è quella tipica della cosiddetta ‘poesia visiva’. Si tratta, a cercàrvelo, sempre del solito endecasillabo, in cui va e viene l’eterna zàngola accentuativa. Conscio di fare una violenza al testo, provo a ‘rimettere insieme’ i versi:
[1]
perché c’eravamo spersi nemmeno
ci siamo ritrovati sparsi intatti
in troppi infetti finanche tra i fossi
i sentieri le selve a volte a frotte
a coppie oppure spaiati da sempre
sarà la sorte o al contrario la colpa
di cui è gravida persino l’erba
che infesta il suolo rodendo la roccia
ma il fatto che non c’è festa di vita
che non sia già di suo omicida segna
la rotta incerta in continuo squilibrio
[2]
di quante e troppe morti sto vivendo
di tante vite stesse sto morendo28
Ma i membretti del verso ‘regolare’ sono sparsi, lanciati nella pagina come soldati sperduti in un territorio minato, distrutto, non previsto dalle carte. Perché agli sgòccioli siamo noi, abitanti estremi di un sistema che rischia ad ogni momento di precipitare, e sono i soldati di ogni guerra, dispersi su un territorio che il caso, nella sua faccia più terribile, traccia come mappa. In questa mappa-pagina vuota le parole sono uomini, uomini che si spargono sul territorio deserto.
Per il resto, non mancano frammenti di una autobiografia (ad esempio, con fantasmi materni circolanti per il libro). In Baco di sé29 , il baco da seta di Lubrano (anticipato nelle sue «minutissime gocciole d’istanti» di Agli sgoccioli), che ha occupato il Frasca critico, diventa figura dello scrittore inviluppato da tutto ciò che ha vissuto ma soprattutto da tutto ciò che ha scritto, dalle «old words», tanto da chiamarne aiuto, «che qui dentro ci soffoco»30. E dunque:
[…] me lo sono meritato questo sottile ordito che mi strangola e tanto vale che concluda l’opera infilandomi ancora più nel cappio.
In tal senso il simbolo, o concetto barocco è rovesciato, se davvero la scrittura, intesa come raddoppiamento del mondo e dei suoi incidenti, ha anche la funzione di protezione (si ricordi la «lingua-pelle» con cui Zublena, arieggiando Anzieu, definiva la lingua di Landolfi31) dalle perdite, dalle trafitture della trama del mondo che ogni venir meno d’affetti, ogni lutto grande o piccolo, ogni trauma ci impone. Tuttavia nel finale, l’anelito all’«angelica farfalla» è rappresentato come un tentativo sisifeo.
Un po‘ diversamente Prossime postume, complice una citazione senecana, invitano il Lettore ad un colloquio amicale sulle grandi questioni dell’esistenza, prospettando però in un finale quasi leopardiano un ritorno dell’esistente alla ‘pietra’.
Ma il richiamo al baco da seta, dunque alla fertilità spirituale del ‘simbolo’ nell’emblematica barocca, non può che riportarci al problema iniziale. Letteralmente ‘agganciati’ al nome dell’autore sono, nella copertina del libro, falce e martello. Riagganciarsi, dunque, alla tradizione degli oppressi non per nascondervisi dietro, né per richiamarsi alla fedeltà a una ‘linea’ (!) ormai da quanti evi dispersa. Il simbolo è spesso vuoto, calcificato, o vivo della perniciosa vita dell’amfibologia, della cattiva ambiguità. Può anche, come avverte S. Paolo per la littera, uccidere. Bisogna riempirlo di tutte le proprie potenzialità psichiche, le stesse che si esprimono nel sogno, in cui bisogna ‘vivere’ con altrettanta intensità che nella veglia. (Secondo Derrida, il sogno va ‘rispettato’ innanzitutto poiché ci insegna a credere possibile l’impossibile32). E se il simbolo è condensazione, dunque gomitolo, gliuommero da districare, il messaggio nella bottiglia che questo libro affida a un Occidente giunto allo stremo, o all’estremo, è il seguente: ritroviamo l’ombelico del sogno, le ragioni prime del riscatto dell’umanità oppressa.
Note
1 Lettere a Valentinov, Luca Sossella editore, Roma 2022, d’ora in poi LV.
2 Lev Trockij, Storia della rivoluzione russa, trad. di Livio Maitan, Prefazione di Gabriele Frasca. D’ora in poi: SRR.
3 LV, p. 46.
4 Perché non si dischiuda il giorno più banale, LV, p. 85.
5 Cfr. G. Frasca, Rimi, in Id., Rimi, pp. 31-111.
6 Prima ed. in volume: Dai cancelli d’acciaio, Luca Sossella editore, Roma, 2011.
7 LV, p. 44.
8 Utile elencarli: oltre alla prima, già detta: [2] 9 agosto 1928 («il terzo processo delle cosiddette purghe staliniane»); [3] 20 agosto 1969 («la data, secondo fuso orario, dello sbarco sulla luna»); [4] 12 ottobre 2027 (è una meditazione sul ’77, coinvolgente vari eventi, privati e non, che si svolsero quell’anno); [5] 14 novembre 1974 (data del famoso articolo di Pasolini Io so); [6] 11 marzo 1918 (bombardamento di Napoli da parte dei tedeschi, ma v. infra); [7] 26 giugno 1935 (un sogno di Trockij); [8] 30 Novembre 2021 (malgrado la data ‘contemporanea’, quasi a ridosso della pubblicazione del libro, la lettera rievoca la fatidica notte in cui Lenin e Trockij dormivegliarono insieme: si veda l’esergo di questo articolo).
9 LV, p. 12.
10 E sulla «banda di sognatori ladri e delinquenti», come vedevano gli ‘altri’ i seguaci di Trockij, cfr. in LV la p. 35.
11 Trockij, SRR, p. 559.
12 Mi riferisco alla mancata abilitazione per il Trauerspiel e poi, soprattutto, al rallentamento dei progetti di emigrazione per la necessità di restare a Parigi, essendo la Biblioteca Nazionale indispensabile all’ultimazione del Passagenwerk.
13 Ma un orecchio bisognerebbe peraltro prestarlo al Foucault ancora un poco – ma già quasi non più – esistenzialista, che prefacendo torrenzialmente il Traum und Existenz di Binswanger dichiarava che il contenuto del sogno, anche quello che si presenti sotto la forma dell’incubo, è sempre la libertà. In italiano: cfr. L. Binswanger, Sogno ed esistenza. Introduzione di Michel Foucault, SE, 1993.
14 Mi permetto di rimandare a F. Bondi, Sui due fronti. Appunti per una lettura di Santa Mira di Gabriele Frasca, in A.Baldacci (a cura di), Dal nemico alla coralità. Immagini ed esperienze dell’altronelle rappresentazioni della guerra degli ultimi cento anni, Logisma, Vicchio (Fi), 2017, pp. 299-308.
15 E. Hemingway, A Natural History of the Dead, in: Winner take Nothing (1933), poi ripreso in The Fifht Column and the First Forty-Nine Stories (1938), tradotto in italiano come Quarantanove racconti, a mio parere il meglio della produzione hemingwayana.
16 LV, pp. 32-38.
17 Cfr. LV pp. 30-31.
18 G. Frasca, Lame. Rime + Lime seguite da Quarantena e versi rispersi, l’Orma editore, Roma, 2016.
19 Cfr. G. Frasca, L’infelice-coscienza, in Id. Rive, p. 167.
20 LV, p. 27.
21 LV, p. 85. Cfr. «Semmai procrastinando ancora il conto / che giunge adesso e che non fu saldato / da quando convertito il buon soldato / si rise irresponsabile formica», con quel che segue. Il conto, cioè, è quello «del sangue che l’ha tenuta salda / nei suoi mercati e nella sua purezza / di razza e di istituti di bellezza» (G. Frasca, L’infelice-coscienza, in Id., Rive, Einaudi, Torino, 2001, p. 167).
22 LV, pp. 95-96.
23 «[…]s’aprì una ferita che duole | cui non rimane chi rimi in soccorso | dove mi hanno condotto le vecchie parole». LV, p. 75.
24 LV, p. 97. Da notare che il componimento segue quello intitolato Da qualche tempo si progetta il mio omicidio, che allude forse, oltre al nostro comune destino biologico, a un ‘incidente’ di salute capitato all’autore, e che lo ha costretto a una «svolta austera». Come tema autobiografico, il pensiero della morte ritorna altrove, ad es. in Baco da sé: «Insomma proprio tutto avrei creduto eccetto che lo spreco d’infinito avesse come scopo dichiarato portare intorno a me l’ultimo assedio» (LV, p. 132).
25 G. Boccaccio, Decameron, IV, 1, dove si narra il tragico amore di Guiscardo e Ghismonda, osteggiato dal padre di lei Tancredi che gli presentò il cuore dell’amante in una coppa. Il particolare dell’indugiare a letto nell’amore fisico («quando tempo lor parve discesi dal letto…») è particolarmente struggente nella novella, quasi una sospensione del tempo prima dell’abbattersi del destino.
26 Cfr. G. Frasca, Tre sonetti da Shakespeare, in Id., Lame, l’Orma editore, Roma, pp. 391-395
27 LV, pp. 137-147.
28 LV, pp. 113-128. Una splendida beckettiana mirlitonnade (termine già da Frasca tradotto «filastroccata» nella sua edizione delle poesie, cfr. S. Beckett, Le poesie, Einaudi, Torino, 1999) che è posta in epigrafe alla sezione: «lid eye bid / bye bye», è poi tradotta in exitu a tutto il testo di LV: «schiuso l’occhio dillo / addio», p. 166.
29 In questa sezione il libro ‘guarda in faccia’ per la prima volta il Lettore. Da simili ammiccamenti ne Il rovescio d’autore (Napoli, D’If 2016) Frasca riteneva di poter trarre un metodo indiziario per desumere le ‘regole d’installazione’ del Testo.
30 LV, p. 153. L’assunto ricorda, curiosamente per un autore mai indiziato di esistenzialismo quello sartriano per cui, esaurito il numero di scelte a ciascuno riservato, non ci si possa sostanzialmente più muovere.
31 P. Zublena, La lingua-pelle di Tommaso Landolfi, Firenze, Le Lettere, 2013.
32 Cfr. Umberto Curi, Fedeli al sogno. La sostanza onirica da Omero a Derrida, Torino, Bollati Boringhieri, 2021. Ne ho scritto qui: https://www.doppiozero.com/fedeli-al-sogno.
[Immagine: Foto di Monica Biancardi].
Grande poeta, grande pensatore