di Barbara Carnevali

 

[Una versione ridotta di questo articolo è uscita sull’ultimo numero di WestEnd. Neue Zeitschrift für Sozialforschung, la rivista legata alla Scuola di Francoforte, che ha dedicato all’autofiction contemporanea un dossier a cura di Johannes Voelz, intitolato L’autofiction et la poetica della singolarità. La presentazione e l’indice del numero sono consultabili qui[1]].

 

When the recorded voice came to the part about the oxygen masks, the hush remained unbroken: no one protested, or spoke up to disagree with this commandment that one should take care of others only after taking care of oneself. Yet I wasn’t sure it was altogether true[2].

 

Outline

 

Una donna si imbarca su un aereo, e risuona un motivo ancestrale: il motivo del viaggio, metafora assoluta secondo la definizione di Hans Blumenberg, perché capace di cogliere in una sola e densa immagine un’intuizione totalizzante, irriducibile in termini logici, troppo vasta per poter essere compresa dagli strumenti concettuali della filosofia[3]. Almeno dai tempi dell’Odissea, la letteratura occidentale ha rappresentato come un viaggio la forma elementare dell’esperienza umana, percepita dal soggetto vivente come un passaggio nel mondo, un transito effimero e inquieto, afflitto dalla ricerca di senso. Le culture segnate più profondamente dalla religione cristiana accentuano la dimensione teleologica della metafora, rappresentando il viaggio della vita come un percorso orientato verso una meta.

 

Rachel Cusk è un’abile creatrice di metafore, tanto assolute quanto derivate. E oltre che nel titolo del secondo volume del suo ciclo romanzesco, Transit, torna su immagini legate alla mobilità e alla circolazione in molti luoghi della sua opera. In Driving as Metaphor, il saggio di apertura della raccolta Coventry[4], incontriamo alcune delle immagini più significative: l’automobile, armatura viaggiante, che fa sentire protetti e allo stesso tempo scioglie i freni inibitori dell’aggressività e della competizione; la guida e il trasporto, allusioni al delicato equilibrio tra autonomia ed eteronomia in cui si gioca ogni esistenza individuale: anche chi tiene il volante e non ama sedere al posto del passeggero deve comunque affidarsi a condizionamenti indipendenti dalla sua scelta, come l’automazione del mezzo di locomozione e i tracciati preesistenti di un sistema viario[5]; e infine il traffico, ossia il flusso in cui i percorsi individuali di viaggiatori e pedoni devono accordarsi in uno schema ordinato. Affascinata dai sistemi che organizzano la vita collettiva articolando gli individui al tutto, e mediando tra le loro esigenze e le norme sociali – circuiti stradali, alberghi, aeroporti, servizi di catering[6] – Cusk rappresenta la difficoltà ma anche la necessità di vivere in relazione con gli altri. Nessuno viaggia realmente da solo e su strade isolate. Le traiettorie delle persone si intrecciano, si sfiorano, a volte si scontrano con esiti mortali. Per arrivare sani e salvi a destinazione bisogna imparare a moderare la velocità mirando a quel ritmo e a quella giusta distanza che permettono di muoversi agevolmente insieme evitando ingorghi e incidenti.

 

Come nel più celebre dei viaggi letterari insieme a quello di Ulisse, la Commedia di Dante, l’itinerario romanzesco di Cusk procede attraverso tre tappe ordinate in una sequenza (almeno in parte) ascendente; nel percorrerle, la scrittrice-pellegrina fa una serie di incontri con altre persone e si intrattiene conversando con loro. Non visita regni oltremondani, tuttavia, ma città terrene – Atene, Londra, e due località senza nome in cui si possono facilmente indovinare Francoforte e i dintorni di Lisbona. Ma più che riferimenti geografici queste città sono luoghi dello spirito, spazi che circoscrivono e definiscono simbolicamente stadi esistenziali e forme di relazione[7]: lo smarrimento e lo sconforto, la trasformazione e il passaggio, gli onori e il riconoscimento pubblico. Ognuno si distingue per una caratteristica Stimmung, un’atmosfera sensibile che è allo stesso tempo clima esterno e stato d’animo soggettivo, e per il fatto di offrire a chi lo attraversa una diversa tipologia di esperienza.

 

Apprendiamo visitando il primo luogo, la torrida “città dolente”, che la protagonista e voce narrante Faye è sconvolta da un recente divorzio. Ha visto lacerarsi la sua famiglia e ha perso la casa, un’altra metafora assoluta della condizione umana, che evoca la prossimità con se stessi e le persone amate: intimità, pace, fiducia e protezione reciproca. Cercando di risollevarsi, la donna intraprende un percorso di conoscenza e rigenerazione che comincia, quasi suo malgrado, da una posizione inizialmente passiva. Nel secondo volume la ritroviamo in condizione purgatoriale, come anima in transito. È capace di iniziative, trova una nuova abitazione in un buon quartiere di Londra e la ristruttura, si fa tingere per la prima volta i capelli grigi, riprende a frequentare amici e conoscenti; ma la sua condizione resta incerta e sospesa, minacciata da un indefinito pericolo incarnato dall’ostilità manifesta degli abitanti del seminterrato – il lato oscuro di quella figura del «neighbour» che nel mondo di Cusk incarna la presenza sempre incombente e inaggirabile dell’alterità. Questo senso di precarietà sembra esasperato dai comportamenti nervosi di bambini e adolescenti che scatenano esplosioni di violenza nei momenti più inaspettati. Un ruolo importante nella fase di passaggio è svolto da mediatori – l’agente immobiliare, l’imprenditore, l’ex fidanzato, il parrucchiere, il moderatore dell’incontro letterario, a sua volta destinato a diventare un ex – figure terze che facilitano o rendono possibili i processi di purificazione e transizione.

 

L’ultimo romanzo, infine, può essere letto come una forma di redenzione personale (veniamo a sapere quasi per caso del nuovo matrimonio di Faye, menzionato en passant da una sua intervistatrice, e indoviniamo che la scrittrice abbia ritrovato la stabilità di una “casa”) ma anche e soprattutto come una critica dell’Empireo letterario – un paradiso malsano che si presenta dunque in negativo, come oggetto di satira. Nel turbine di festival e interviste che dovrebbero sancire la consacrazione artistica, attorniata da beati narcisisti del successo, Faye prende apertamente le distanze dalla corsa hobbesiana alla gloria. Alla fine del suo viaggio, per quanto solo per allusioni vaghe e ancora una volta metaforiche, sembrano delinearsi un bilancio morale, una concezione alternativa del riconoscimento e una diversa idea di giustizia[8]. Questi valori hanno a che fare con un particolare modo di intendere il rapporto tra l’io e gli altri, e con un’originale concezione dell’individualità.

 

Quando incontra qualcuno nel corso del suo pellegrinaggio, Faye comincia a interrogarlo con gentilezza. Non usa formule di cortesia, quelle frasi da ascensore che servono a oliare il rituale goffmaniano dell’interazione e cui, per definizione, non si è tenuti a rispondere. Le sue sono domande vere, brevi, semplici e dirette, motivate da una reale volontà di conoscere le altre persone e di sapere qualcosa della loro vita. Le persone interrogate, a loro volta, non replicano evasivamente o infastidite dall’indiscrezione, ma offrono racconti lucidi, articolati, che toccano aspetti o episodi decisivi della loro esistenza.

 

La scena primaria inaugura Outline come l’esposizione tematica di un ciclo di variazioni musicali: è il colloquio con l’“Ur-vicino”, l’armatore greco seduttivo e vitalista che, seduto accanto a Faye durante il volo tra Londra e Atene, le narra l’intero romanzo della sua vita sentimentale. Nel corso della trilogia il tema viene ripreso indefinite volte: ritorna quasi identico alla fine di Outline (una nuova scrittrice inglese arriva nella casa di Atene e, prendendo il posto di Faye, le racconta della conversazione avuta con un vicino durante il volo da Londra), così come all’inizio e a metà di Kudos (un nuovo vicino di aereo di Faye, il padrone che ha seppellito il cane Pilot, e poi, variazione minore in forma di racconto nel racconto, una coppia di viaggiatrici, Lidia e la sciatrice che subisce un terribile incidente); in altri episodi, il tema si trasforma conservando tuttavia sempre due riconoscibili elementi strutturali: l’incontro occasionale, limitato nello spazio e nel tempo (la durata di un tragitto, di una cena, di un caffè, della coda per ottenere un pasto) e la conversazione tra la scrittrice e un personaggio che le racconta la sua “storia”. Il viaggio letterario consiste dunque in un flusso narrativo dove quasi nulla accade dal punto di vista dell’azione.

 

Le storie raccolte da Faye sono di lunghezza e sostanza variabili. Alcune riguardano avvenimenti o situazioni cruciali in cui si è deciso un destino individuale, e tra le più memorabili della trilogia vi sono quelle che riguardano la perdita – uno smarrimento e un’agonia – di due cani. Altre coprono un’intera esistenza, come nel caso dell’armatore greco e della sua collezione di matrimoni; molte riassumono le parabole di relazioni amorose o affettive (la serata tra amici alla fine di Transit, l’elegia di Sophie verso la conclusione di Kudos); altre condensano in un lungo monologo la visione del mondo e il carattere di un personaggio (spesso uno scrittore o una scrittrice –  l’opportunista Ryan, la vanitosa Angeliki, il burbero e sfuggente Luís, ma anche un agente immobiliare, un operaio, un giovane matematico dai tratti autistici); altre ancora sono suggerite dall’interpretazione delle cose, di ambienti e di oggetti (la descrizione della casa di Clelia) o dal racconto di un evento o dettaglio della giornata, come l’aver notato qualcosa per strada.

 

Un tratto saliente della situazione messa in scena nella trilogia è che, pur essendo rivolte da un’estranea, le domande di Faye non incontrano reticenze ma suscitano immediate e a volte torrenziali confessioni. Lo rileva il giornalista portoghese di Kudos venuto a intervistare la scrittrice al festival: «Aveva notato, per esempio, che i miei personaggi venivano spesso indotti a gesti di autorivelazione da una semplice domanda, e ciò l’aveva ovviamente spinto a riflettere sul proprio lavoro, dove il porre domande era questione cruciale. Eppure accadeva di rado che le sue domande suscitassero cosí melodiose risposte»[9]. Alcune persone, addirittura, sbottano senza essere state interpellate, come se non aspettassero altro che raccontare la loro storia alla prima che capita. Tanta spontaneità nell’autorivelazione sembra stridere coi criteri della verosimiglianza psicologica e sociale adottati da Cusk, scrittrice “realistica” da altri punti di vista. Nella nostra forma di vita, segnata dalla massificazione e dall’anonimato, i sempre più frequenti rapporti con gli estranei sono mediati dalla riserva e dalla distanza: solo con gli “altri significativi” è lecito condividere la sacralità delle confidenze personali. Questa norma ha tuttavia delle importanti eccezioni: nelle sue riflessioni sulla figura della «Reisebekanntschaft», e in brani equivalenti sulla sociologia dello straniero, Georg Simmel nota con acutezza come alcune persone confessino i loro più esclusivi segreti proprio a sconosciuti incontrati casualmente in viaggio[10]. Il fatto di essere distanti da casa, e quindi meno soggetti alle dinamiche di fedeltà e appartenenza che regolano le soglie del dicibile; la complicità suscitata dal condividere un’effimera esperienza extra-ordinaria e le relative impressioni; la consapevolezza dell’imminente e definitiva separazione: tutte queste circostanze particolari rendono possibile lasciarsi andare con un perfetto estraneo e svuotare il sacco della propria intimità. La conversazione di viaggio ha allora il fascino irripetibile di un’avventura: l’equivalente spirituale di una “one night stand” .

 

La situazione della trilogia, tuttavia, ha ben poco di avventuroso. E i personaggi si aprono a Faye in modo talmente meccanico che il loro atteggiamento va interpretato come un sicuro indice di finzionalità, la mise en abyme di un gesto letterario. Cusk sembra dirci che ogni vita produce una storia, o una pluralità di storie che aspettano il momento di venire alla luce grazie all’attitudine maieutica di una persona capace di ascoltarle e di ri-raccontarle. E sembra altresì suggerire che il rapporto tra la vita e la letteratura consista in un’ininterrotta affabulazione esistenziale, in cui tutti sono potenziali narratori e ascoltatori, e non sembra darsi separazione netta tra professionisti e dilettanti. La trilogia di Outline, d’altra parte, gioca apertamente con la dimensione metaletteraria, non solo rappresentando conversazioni tra autori che illustrano la loro poetica ma offrendo numerose lezioni di scrittura. Faye istruisce e consiglia i suoi studenti nelle scuole di creative writing e non risparmia commenti di tipo tecnico nemmeno ai suoi interlocutori profani, che tratta alla stregua di veri e propri romanzieri: ad esempio quando rimprovera al primo vicino di aereo di aver descritto con troppa parzialità il carattere della seconda moglie, o quando si complimenta con la giornalista tedesca per il suo talento di affabulatrice, facendole altresì notare come la sua tendenza ad applicare le leggi della finzione alla vita reale la porti a estendervi abusivamente anche i principi della giustizia poetica. Questi e altri momenti di esplicita rottura dell’illusio romanzesca sono spie di una tensione contante, la tendenza della vita a convergere con la letteratura: la vita si presta naturalmente a essere messa in forma dal racconto, mentre la vocazione del romanzo è quella di raccontare storie di vita. L’ossessione di Cusk per la verità – uno dei tre valori-cardine della sua poetica, insieme alla bellezza e alla giustizia[11] – fa sì tuttavia che il confine tra finzione e realtà non sia mai interamente cancellato.

 

Il fatto che quelle raccontate da Faye siano “vite che non sono la mia”, in un senso solo apparentemente affine al libro omonimo di Emmanuel Carrère, pone il problema di come la forma-romanzo si articoli con quella dell’autofiction, il genere in cui viene catalogata la produzione di Cusk quando esposta in libreria. Il titolo scelto per la traduzione italiana di Outline – «resoconto» – ci aiuta ad avvicinarci alla tecnica raffinatissima con cui un genere per definizione vocato all’egotismo e all’autoespressione viene trasformato dalla scrittrice in qualcosa di molto diverso, se non di virtualmente opposto: un “dire io” per raccontare gli altri. Faye, infatti, fin dall’inizio, prende la parola non per parlare di sé, dei propri pensieri, degli eventi piccoli o grandi della sua esistenza, ma per riferirci i dialoghi che ha avuto con altre persone nel modo più particolareggiato possibile, neutro e referenziale. Nei suoi rapporti, frammenti di discorso diretto, intervallati da incisi come “ho detto”, “ha detto”, si articolano a lunghi brani di discorso indiretto libero. La voce degli altri viene dunque a sovrapporsi completamente a quella della narratrice che fa da cassa di risonanza della loro storia e del loro punto di vista.

 

A ben vedere, le conversazioni riportate da Faye non dovrebbero essere definite dialoghi. Sono interviste – ed è questo, forse, l’aspetto più squisitamente dantesco della poetica cuskiana, in cui, come rivelato per via allusiva da Vittorio Sereni nella sua Intervista a un suicida, si schiude il mistero dell’autorivelazione epifanica dei personaggi della Commedia. Certo, l’intervista dantesca si rivolge a morti, anime che parlano dall’al di là, e questo costituisce un’immane differenza tanto sul piano etico quanto su quello retorico. Faye non deve confrontarsi con esistenze concluse, già giudicate da Dio, né con il pathos di chi rimpiange la vita terrena e deve accettare l’irreversibilità del destino; le storie che incontra sono ancora aperte, e il loro significato, enigmatico e inafferrabile perché svincolato da un qualunque quadro interpretativo teologico-morale, mette incessantemente alla prova il giudizio di chi le narra, le ascolta e le legge. Il paragone tuttavia coglie con esattezza la natura del particolare patto narrativo che si instaura tra i personaggi e la figura depositaria delle loro confessioni. La forma-intervista è la chiave della scrittura di Cusk, come rivela il giornalista portoghese che vorrebbe sperimentare su Faye la stessa formula utilizzata dalla scrittrice: «Aveva letto il mio libro, ha detto, e aveva pensato di intervistarmi per il suo giornale, ma riflettendo su ciò che voleva dirmi gli era venuta un’altra idea, ovvero di trattarmi come se fossi uno dei miei personaggi, arrogandosi il ruolo del narratore. Non era il tipo di approccio che adottava di solito per le interviste letterarie»[12]. Il fatto che l’osservazione sia messa in bocca a un esperto di letteratura sembra lanciare una sfida ai professionisti del genere. Soffermiamoci dunque più attentamente sulle sue caratteristiche.

 

L’intervista è un genere apparentato al dialogo ma che presenta una struttura più sbilanciata. Il dialogo presuppone una certa simmetria tra le parti (simmetria che è all’origine dell’idea diffusa, benché ingannevole, secondo cui il dialogo sarebbe la forma di interlocuzione più democratica); nell’intervista, invece, una persona interroga, interessandosi all’altra, e una persona risponde, parlando di sé. I due ruoli presuppongono una gerarchia e soprattutto non sono interscambiabili, perché si presuppone che solo la persona intervistata abbia cose importanti e interessanti da dire. Chi intervista è il medium delle parole che trasmette: riceve e amplifica la voce intervistata a scopo informativo, di gossip o di réclame.

 

Nella cultura contemporanea, si sono affermate due declinazioni molto diverse di questa forma interlocutoria. La prima è l’intervista alla persona celebre, ad esempio una star del cinema, un’artista o un atleta di successo: consacrata come genere pop dalla rivista Interview fondata nel 1969 da Andy Warhol, è uno dei generi più emblematici della società dello spettacolo e della singolarità. L’individuo famoso si confessa ai comuni mortali per via di una figura mediatrice che lo interroga ad hoc per carpire e rivelare al pubblico i segreti della sua vita privata. La celebrità si racconta da una posizione esemplare, superiore, mentre le persone che ne leggono o ascoltano l’intervista sono a un tempo stesso sedotte e potenzialmente invidiose.

 

Il secondo genere di intervista è idealmente opposto al primo. Nelle inchieste condotte da chi fa ricerca in scienze sociali, le persone intervistate non valgono come individualità eccezionali da cui ci si attende un racconto originale, ma come numeri, campioni di fenomeni e processi di cui sono solo esempi equivalenti e intercambiabili. L’esemplarità non è intesa allora in senso eroico, eccezionalmente singolare – la vita individuale si distingue dalla media, e per questo merita di essere resa nota e divulgata –, ma in senso statistico: la sua testimonianza interessa come illustrazione di una legge o di una regolarità sociale. Condotta da personale specializzato, l’intervista scientifica non mira all’unicità di una storia e del suo significato ma a raccogliere dati riconducibili a determinate categorie di persone.

 

Lo stile di Cusk stravolge queste convenzioni, rimescolandole e fondendole in una configurazione nuova. Il primo détournement è il più sottile e straniante: la scrittrice non risponde alle domande ma le fa, trasformandosi in più occasioni nell’intervistatrice di chi dovrebbe intervistarla. Un rovesciamento plateale è quello con la giornalista della piccola città tedesca che, venuta a incontrare Faye per la seconda volta dopo dieci anni, si lancia in un complicato racconto a scatole cinesi che rappresenta una delle sequenze più rivelatorie e inquietanti della trilogia. La donna confessa di aver mentito durante il precedente incontro – aveva raccontato una versione altamente idealizzata della propria vita per provocare Faye: «–Devo ammettere, – ha detto infine, – che mi dava piacere raccontarle la mia vita e farla sentire invidiosa di me. Ne ero orgogliosa»[13]. La giornalista si corregge ulteriormente durante l’incontro di Kudos, rivelando che l’amica con cui ha ingaggiato la torbida lotta di rivalità e gelosia al centro della nuova storia è in realtà la propria sorella. La sua confessione ha un ruolo importante nel disvelamento tanto dell’antropologia quanto della poetica del ciclo romanzesco: rivela infatti il lato oscuro, girardiano, che cova nella pratica di confrontare le vite, insinuando un impulso mimetico nel rapporto tra intervistatrice e intervistata, tra chi ascolta e chi racconta la propria storia. L’accesso alla vita altrui può avere effetti deleteri sulla psiche, può scatenare passioni comparative, complessi di inferiorità, la costruzione di esemplarità fittizie:

 

– Però lei ha creduto alla mia storia per tutti questi anni, – ha detto lei, – anche se io non me l’aspettavo e probabilmente volevo solo rendere invidiabile la mia vita così da poterla a mia volta accettare. Ho dedicato tutta la mia vita professionale a intervistare donne – politiche, femministe, artiste – che avevano scelto di mettere in pubblico la loro esperienza femminile e volevano essere sincere su questo o quell’aspetto della propria vita. Spettava a me dar voce alla loro sincerità, – ha detto, – benché io sia decisamente troppo timida per vivere come loro, coerenti con ideali femministi e principi politici. Era più facile pensare, – ha aggiunto, – che il mio stesso modo di vivere implicasse un proprio coraggio, il coraggio della stabilità. E, pur facendo mostra di simpatizzare per loro, sono arrivata a godere delle difficoltà che quelle donne sperimentavano[14].

 

È un monito contro la sindrome bovaristica che minaccia ogni identificazione immediata tra vita e finzione: non a caso, viene enunciato proprio dalla migliore storyteller tra tutti i personaggi della trilogia, ammonita da Faye per la sua incapacità di spezzare l’illusione letteraria e di accettare l’irriducibilità del reale alla giustizia poetica. Uno dei sensi in cui può essere interpretato il percorso morale proposto da Cusk consiste allora nello smascheramento di questi e altri angoscianti meccanismi comunicativi e psicologici: le trappole in cui rischia di cadere il soggetto quando viene a contatto con la rappresentazione della vita degli altri, e, senza mediazioni o filtri, si vuole semplicemente come loro. Paradossalmente, il fatto che i social media siano del tutto assenti dal mondo di Rachel Cusk rende queste analisi ancora più attuali: l’origine del problema, come aveva visto già René Girard, consiste infatti nella doppia valenza, sociale ed estetica, della mimesi. Grazie alla loro accessibilità e diffusione globale, i nuovi mezzi di comunicazione non fanno che intensificare l’andirivieni mimetico tra vita e  letteratura, portando al parossismo le ambivalenze del desiderio umano.

 

Ma c’è un brano di Outline, speculare a questo di Kudos, in cui l’esperienza di confrontarsi con la vita degli altri produce l’effetto contrario, non di imitazione-identificazione competitiva e invidiosa ma di rispecchiamento negativo, mediato e decentrante. Qui a parlare è la narratrice, Faye, ancora scossa dal trauma del divorzio. Si trova in barca con il vicino greco, e il suo sguardo viene attratto dalla scena di una famiglia apparentemente felice, intravista su una barca ormeggiata poco lontano:

 

stavo cominciando a vedere le mie paure e i miei desideri manifestarsi fuori da me, a vedere nella vita degli altri un commento (commentary) della mia. Guardando la famiglia sulla barca, vedevo ciò che non avevo piú: in altre parole, vedevo qualcosa che non c’era[15].

 

L’antidoto al mimetismo è dunque nel commentary – il commento come esercizio di analisi letteraria e di riflessività critica – che spezza l’identificazione ingenua, agendo prima di riflesso e poi di scarto.

 

Faye, inizialmente, parla molto poco di sé. Quello che veniamo a sapere di lei lo raccogliamo per via indiziaria dai suoi commenti su quanto detto dagli interlocutori e, in questo incessante ascoltare e commentare, la sua individualità emerge in progressione crescente. Quasi impercepibile all’inizio del racconto, l’io che dovrebbe costituire il centro gravitazionale della scrittura di sé comincia a delinearsi solo per un effetto di ritorno, e più precisamente di eco, dal momento che, più ancora della vista, l’esperienza fondatrice della conoscenza riflessiva è quella dell’ascolto (e dunque anche della lettura).

 

In un episodio del primo volume, l’alter ego di Faye, la scrittrice che la sostituisce nella casa ad Atene, esplicita la poetica dell’«outline», ossia della figurazione di sé in negativo:

 

In altre parole andava disegnando la figura (outline) di ciò che lei non era: di ogni cosa che diceva di se stesso, lei riscontrava nella propria natura l’equivalente negativo. Tale antidescrizione, non avrebbe saputo come definirla altrimenti, le aveva chiarito qualcosa grazie a un tipo di narrazione rovesciato: mentre lo ascoltava, aveva cominciato a vedersi come una sagoma, un abbozzo, i cui contorni erano completi in ogni dettaglio mentre l’interno restava in bianco. Ma per quanto il contenuto rimanesse ignoto, quella sagoma le dava, per la prima volta dopo l’incidente, un’idea della persona che era adesso[16].

 

 

Lungi dall’essere frutto di un’espressione immediata della soggettività, della pressione di un io profondo, presociale e autentico, che vuole esteriorizzarsi alla maniera dell’autobiografia romantica e della confessione alla Rousseau, la conoscenza di sé si produce per commento, confronto e contrasto con i racconti altrui.  È la percezione esterna, l’immagine dell’altro che provoca il ritorno dell’io su se stesso, sfatando così il mito dell’interiorità e del linguaggio privato[17]. Non esiste un io precedente alla conversazione sociale. E la vita degli altri non va considerata come un esempio da invidiare ed emulare ma come uno specchio in cui riflettersi ed esaminarsi. Il che spiega il sapore hegeliano di questa autofiction paradossale, in cui un soggetto “si trova” viaggiando attraverso la vita altrui. 

 

Nel gioco di rispecchiamenti continui tra l’io e gli altri, Cusk ci guida in una ridefinizione della soggettività contemporanea, la cui meta potrebbe essere definita, interpretando liberamente una formula di Giorgio Agamben, la conquista di una singolarità qualunque[18]: un io che non reclama la propria distinzione, differenza o superiorità, che non può e non vuole essere originale e diverso da tutti gli altri, ma che accetta di decentrarsi e relativizzarsi, favorendo un superamento dell’amor proprio, nella convinzione pascaliana che «l’io è odioso». Nella linea dei moralisti classici, Cusk affronta la critica del narcisismo singolarista anche attraverso rappresentazioni satiriche, gli incontri con lo scrittore e i festival letterari, incarnazioni contemporanee di quella fiera delle vanità attraverso cui passa un altro dei grandi viaggi morali della letteratura occidentale, il Pilgrim’s Progress di John Bunyan. La satira di Outline è a un tempo elegante e crudele, leggera e trasversale. Non accusa direttamente, salvo in alcuni casi di condanna esplicita, come nei dialoghi con lo scrittore irlandese Ryan e con l’editore tedesco. Per lo più, lascia che siano i personaggi a denunciarsi da soli, attraverso il modo in cui raccontano la loro storia e i loro pensieri.

 

Ma, per comprendere pienamente in cosa consista la nuova concezione della singolarità, dobbiamo tornare alla forma-intervista, e al modo in cui quella adottata nella trilogia riesce a fondere la dimensione statistica e quella celebrativa. Gli intervistati di Faye comprendono sia scrittori e scrittrici che si presuppongono abbastanza famosi da meritare un invito a un festival o a una residenza per artisti, sia persone comuni, “des anonymes”, come si dice in francese per designare chi è privo di fama. Ma sia chi ha un “nome”, secondo i canoni della notorietà contemporanea, sia chi non lo possiede viene ugualmente indicato con il nome di battesimo: fanno eccezione, significativamente, i vari «neighbours», i rappresentanti dell’individualità qualunque, campioni di quell’umanità onnipresente che ci siede accanto e che incrociamo tutti i giorni nel traffico della vita, i vicini con cui siamo sempre in relazione anche senza esserne pienamente coscienti. A sancire ulteriormente questa pari dignità, tutti i personaggi intervistati vengono trattati con la stessa cortesia realmente interessata e sottoposti allo stesso tipo di domande. Ma il dettaglio forse più rilevante è che quasi tutti finiscono per raccontare lo stesso tipo di storia. Outline è infatti un disco che si ripete con voluti effetti di ridondanza: famiglia, lavoro, casa, matrimonio, separazioni e divorzi, rapporti coi figli, con gli amici, coi pets…

 

Alcune storie si somigliano tanto che tendono a confondersi nell’impressione di chi legge. L’effetto, complice della poetica del rispecchiamento, è ottenuto grazie a un virtuosistico gioco di sdoppiamenti e moltiplicazioni (cinque vicini di aereo, due direttrici di residenze per artisti, due donne che ristrutturano casa e hanno a che fare con imprenditori edili, due intervistatori-intervistati, molti scrittori e scrittrici, innumerevoli animali) che finiscono per comporre una grande storia allo stesso tempo individuale e collettiva, impersonale [19], per topoi e variazioni. Transitando indefinite volte per questi “luoghi comuni” – famiglia, lavoro, casa, matrimonio, separazioni e divorzi, rapporti coi figli, con gli amici, coi pets… – si delinea un’analisi della condizione umana contemporanea, o, più precisamente, della sua eticità borghese. Ad animare la trilogia è un gruppo sociale uniforme e omogeneo, per quanto cosmopolita. I personaggi parlano tutti la stessa improbabile lingua – semplice, precisa, purissima e artificiale – che funge da koinè, e fluttuano in una specie di astrazione rarefatta, lontana dalla storia (a parte due riferimenti quasi impercettibili alla Brexit, che spezzano la congruenza stilistica per ragioni politiche[20]) e da ogni contesto sociale determinato. In ogni città, sia essa greca, britannica, tedesca, portoghese, si incontrano le stesse tipologie di persone e lo stesso tipo di storie. L’imprenditore greco e l’operaio polacco – i soli interlocutori il cui inglese imperfetto venga corretto amabilmente da Faye – raccontano entrambi i propri problemi familiari, e con lo stesso coinvolgimento emotivo. Al di là delle differenze nazionali e di classe sociale (solo le differenze di genere contano davvero, ma la questione meriterebbe un saggio a parte), sembra che la sostanza comune dell’esistenza sia la dimensione privata, incentrata sulla famiglia e sugli affetti. La somiglianza tra le storie di vita, tuttavia, non dà luogo a un’inchiesta di tonalità sociologica o psicologica. I personaggi conservano, insieme a un nome proprio, una vita propria, singolarmente qualunque, perché anche se i luoghi di passaggio sono comuni, il percorso in cui si combinano è unico e irripetibile.

 

«“One is not only a little individual, living a little individual life [… ] One is in oneself the whole of mankind, and one’s fate is the fate of the whole of mankind”», afferma Rachel Cusk citando con ammirazione una lettera di D.H. Lawrence in cui sembra che la scrittrice riconosca la sua stessa concezione del rapporto che le vite individuali intrattengono con la letteratura[21]. Ed è grazie a questa duplice capacità di salvare l’individuale senza dissolverlo negli estremi dell’eccezionalità eroica o dell’anonimato statistico che la sua trilogia realizza una delle più importanti vocazioni del romanzo moderno[22].

 

Note

[1] www.ifs.uni-frankfurt.de/publikationsdetails/ifs-autofiktion-und-die-poetiken-der-singularit%C3%A4t.html

[2] «Quando la voce registrata è passata alla parte relativa alle maschere ad ossigeno, il silenzio non si è interrotto: nessuno ha protestato o espresso il proprio disaccordo con la disposizione di occuparsi degli altri solo dopo essersi occupati di sé. E della cui fondatezza io dubitavo», Rachel Cusk, Resoconto (2014), traduzione di Anna Nadotti, Torino, Einaudi, 2018.

[3] Hans Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Milano, Cortina, 2009.

[4] Rachel Cusk, Driving as Metaphor, in Coventry: Essays, New York, Straus and Giroux, 2020, pp. 3-22. I saggi di Cusk, spesso bellissimi, offrono preziose introduzioni alla sua produzione letteraria.

[5] Per queste stessa ragione la metafora della guida è amata da altre scrittrici, come Simone de Beauvoir e Annie Ernaux, che hanno riflettuto sulla condizione femminile in epoche e situazioni diverse, facendo del rapporto con l’automobile il simbolo della libertà o sottomissione di genere.

[6] In Kudos, ad esempio, l’anziana Gerta si dilunga sul sistema dei coupon alimentari del festival, che diventa metafora dei limiti e delle contraddizioni dei sistemi di giustizia distributiva. Un’altra metafora ricorrente nella trilogia è quella degli edifici e della loro architettura, come l’hotel circolare in cui si tiene il convegno a Francoforte. Alle valenze metaforiche dell’hotel come forma di vita, infine, vengono dedicate le riflessioni di un altro saggio di Coventry.

[7] Cusk apprende il mondo attraverso il trascendentale dello spazio. La “forma a priori del sociale” si impone su quella del tempo all’interno della sua poetica romanzesca. La struttura della trilogia non è scandita tanto dall’evoluzione temporale quanto da movimenti spaziali e da relazioni di distanza e prossimità – prima tra tutte la vicinanza.

[8] Il tema della giustizia, intesa come riconoscimento del merito ed equa distribuzione delle risorse (ad esempio il valore della «authentic literature», o il lascito di un’eredità ai figli, entrambe preoccupazioni del personaggio di Gerta), è centrale in Kudos. Forse non è un caso che Dante sia citato in uno dei rari brani metaletterari dello stesso romanzo. Il cinico editore tedesco, che ha svenduto al marketing la letteratura di qualità, confessa a Faye di frequentare i bassifondi di internet per divertirsi a leggere recensioni in cui il sommo poeta viene liquidato dagli utenti come «pura merda». Faye risponde indignata: «La giustizia, in altre parole, andava onorata per il suo stesso bene, e anche se lui pensava che Dante sapesse badare a se stesso, a me sembrava che lo si dovesse difendere sempre e comunque», Rachel Cusk, Onori (2018), traduzione di Anna Nadotti, Torino, Einaudi, 2020, p. 37.

[9]  Onori, cit., pp. 114-115.

[10] Per queste analisi simmeliane, si vedano in particolare la quarta parte della Filosofia del denaro (1900), i capitoli dedicati allo spazio, allo straniero e al segreto nella grande Sociologia (1908), il saggio Filosofia dell’avventura (1910).

[11] «I valori della letteratura e i valori della vita sono per il romanziere ciò che lo scalpello e il blocco di pietra sono per lo scultore. Il primo cerca di imporre una forma al secondo. Verità, giustizia, bellezza: sono queste le qualità a cui aspira un’opera di finzione, che deve crearle a partire dall’esperienza umana», Rachel Cusk, Il lavoro di una vita (2001), traduzione di Anna Nadotti, Torino, Einaudi, 2021.

[12] Onori, cit., pp. 113.

[13] Onori, cit., p. 55.

[14] Onori, cit., p. 60.

[15] Resoconto, cit., p. 58 (ho modificato la traduzione italiana che rende commentary con cronaca).

[16] Resoconto, cit., p. 178 (ho modificato la traduzione italiana che rende outline con resoconto).

[17] Si tratta dell’idea, tipica del solipsismo cartesiano e poi romantico, secondo cui viene prima il mondo interiore esperito dalla coscienza, carico di intensi significati personali: solo in un secondo momento questo mondo viene elaborato dal linguaggio per esprimersi e comunicarsi socialmente. Nella concezione di Wittgenstein, ripresa da filosofi come Jacques Bouveresse o Vincent Descombes, l’io non precede la conversazione sociale ma ne è il prodotto. Cfr. Jacques Bouveresse, Le mythe de l’intériorité: expérience, signification et langage privé chez Wittgenstein, Paris, Minuit, 1976.

[18] Giorgio Agamben, La comunità che viene, Torino, Einaudi, 1990. In questo senso normativo e positivo, la nozione di singolarità qualunque è la risposta critica a quella tipologia di soggettività contemporanea, la singolarità narcisista, che si vuole originale e unica: la delinea Andreas Reckwitz nel suo importante studio sulla «società delle singolarità», Die Gesellschaft der Singularitäten, Berlin, Suhrkamp, 2018.

[19] Sarebbe interessante confrontare lo stile della trilogia con quello dell’autobiografia impersonale Les Années di Annie Ernaux. Le due scrittrici tendono in modo analogo all’autocancellazione del soggetto femminile narrante. L’interesse di Ernaux, tuttavia, è incentrato sulla storia del Novecento e sulla questione sociale, mentre le sue tecniche di spersonalizzazione lavorano sui pronomi (on, nous, elle, al posto di je, moi) e sui tempi verbali (l’uso dell’imperfetto iterativo, ad esempio). Inoltre, il soggetto di Ernaux è portatore di un habitus generazionale e di classe, mentre quello di Cusk incarna una condizione umana astratta e indifferenziata.

[20] In polemica contro la Brexit, Rachel Cusk ha deciso di abbandonare la Gran Bretagna per trasferirsi in Francia.

[21] Rachel Cusk, D.H. Lawrence, in Coventry: Essays, cit., p. 201.

[22] Cfr. Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011. Ringrazio Giulia Oskian, Sylvia Greenup, Katie Ebner-Landy, Paola Cantù e Matteo Residori per le conversazioni che hanno ispirato questo saggio.

1 thought on “Sé come altri. Sulla trilogia “Outline” di Rachel Cusk

  1. Buongiorno,
    Sperando che possano essere di qualche utilità, condivido alcune impressioni generate dalla lettura del saggio su Rachel Cusk, che ho trovato molto interessante e di cui condivido in larga parte le argomentazioni.

    – Un’osservazione sulla «Reisebekanntschaft» di Simmel: è vero che il viaggiatore è portato a volte a sentire confessioni sorprendenti quanto casuali, tutti ne hanno fatto almeno qualche esperienza. Proprio alcune di queste esperienze di viaggio recenti mi hanno condotto anche a riflettere sull’importanza che hanno oggi quegli strumenti di difesa della nostra intimità in contesto pubblico che sono le cuffiette per la musica: le chiacchierate effimere come quelle che racconta Rachel Cusk sono completamente fuori questione o quasi per le generazioni più giovani, perché in aereo, in treno, in metro si tengono gli auricolari.
    In effetti, se non sbaglio, gli scambi di Cusk avvengono tutti con persone di età più avanzata, eccezion fatta per i suoi figli: mi sembra interessante notare questo salto generazionale, che di fatto rende tecnicamente impossibile l’esperienza dell’altro e di sé stessa che Cusk racconta.
    Mi sembra che quest’impossibilità non sia tale solo perché con le cuffiette non si possono sentire gli altri e l’esterno è escluso dal nostro raggio sensoriale: facendo ricorso ad un’altra nozione simmeliana, quella di Wechselwirkung (reciprocità), mi pare vero anche l’inverso, cioè che si mettono perché non si vuole sentire, avere interazioni, perché si rifiuta a monte quell’esperienza di un’alterità potenzialmente fastidiosa. Interessante che questo atteggiamento non trovi un parallelo analogo in altri incontri con l’alterità, soprattutto virtuali: social network e blog attirano gli utenti nella discussione nonostante le noie che ne possono venire. Ciò indica forse che, più che percepire una differenza generazionale, sarebbe corretto pensare semplicemente a una mutazione di costumi, che non cessa tuttavia di rispondere alla stessa esigenza di confronto con l’altro, pur in forme del tutto diverse.

    – Un pensiero sull’impiego di Agamben e Mazzoni: si tratta di due perplessità intersecate, più intellettuali che critiche, a dire il vero.
    Ho qualche dubbio sulla conclusione, in cui si fa riferimento alla singolarità qualunque di Agamben: mi chiedo, è veramente questa la singolarità che ci piace e che cerchiamo nella letteratura? Io penso piuttosto che sia quella che ci deprime.
    Quella che cerchiamo nell’elaborazione estetica è una forma possibile del “we can be heroes just for one day” di David Bowie (ben più che i 15 min di Warhol), se mi è concesso un riferimento pop: anche nella nostra singolarità qualunque viene il momento eccezionale, speciale, e il racconto letterario mostra la genesi della scoperta di questa straordinarietà (sia essa pure banale o senza qualità), senza nulla togliere all’odiosità dell’io d’ispirazione moralista.
    Personalmente, percepisco una dialettica complessa e molto problematica a questo riguardo nel romanzo, di cui mi sembra che l’opera di Rachel Cusk costituisca un buon esempio. L’io è spregevole, meglio relativizzarlo e dissolverlo nella pluralità delle interazioni; eppure, allo stesso tempo, cosa è più attirante e affascinante di quell’io misterioso che non può mai davvero definirsi? È il nocciolo, il punto cieco intorno a cui si sviluppa tutto: in questo senso potrebbe essere interessante far riferimento a Montaigne per contestualizzare e relativizzare l’opera di costruzione dell’io attraverso il confronto con l’altro, che Cusk ricerca nella forma dell’intervista come Montaigne faceva in quella dell’essai.
    È d’altronde in quest’ottica che ho sempre letto anche Mazzoni, citato in conclusione: romanzo non come salvataggio dell’individuale lontano dagli estremi, ma come fusione degli estremi (eccezionalità eroica nel banale del quotidiano, singolarità di un’esperienza potenzialmente universalizzabile).
    Motivo per cui forse non userei la nozione di Agamben per far luce su Cusk e sulla sua attività di scrittrice e la rimpiazzerei a maggior ragione, eventualmente, con il paragone con Montaigne.

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