di Alberto Comparini
Barcellona, 6 agosto 1992: la neonata Repubblica di Lituania affronta nella semifinale del torneo olimpico di pallacanestro gli Stati Uniti d’America.
A circa otto minuti dalla fine, il punteggio recita 92 a 58 per la formazione statunitense: Gintaras Krapikas batte dal palleggio Clyde Drexler e si prende un tiro dalla media, la palla va sul primo ferro per poi scheggiare malamente il secondo; rimbalzo perentorio di Patrick Ewing, Larry Bird conduce, a fatica (problemi alla schiena), la transizione offensiva, vede libero e serve John Stockton, il quale finta, tira, segna, subisce fallo da Valdemaras Chomičius, e va in lunetta per il tiro libero supplementare (che realizza). Nel frattempo, un giovanissimo Artūras Karnišovas ne approfitta per immortalare con la sua macchina fotografica alcuni scatti dell’incontro, non tanto per la partita in sé, che poco aveva da dire sul piano sportivo (la Lituania perderà di ben 51 punti), quanto per il fenomeno paranormale che si stava verificando sul parquet del Pabellón Olímpico di Badalona.
Il risultato della partita è facilmente intuibile da due fotogrammi che ho ricavato (ri)guardando la partita su youtube (https://www.youtube.com/watch?v=K7I3PvJk8_Y), e che ritraggono, in maniera piuttosto esemplare, i due aspetti che meglio contraddistinguono l’esperienza individuale e collettiva di chi affrontò ciò che è stato chiamato ‘Dream Team’ ai giochi olimpici del 1992: nel primo scatto, possiamo osservare l’ammirazione del numero 12, Karnišovas, autore tutto sommato di una buona prestazione (10 punti in 13 minuti con ottime percentuali dal campo), mentre nel secondo possiamo percepire tutta la rassegnazione del numero 11, il leggendario gigante (221 centimetri) Arvydas Sabonis, il cui talento (di cristallo) si infranse senza colpo ferire (11 punti, ma 4/17 dal campo) contro lo strapotere fisico e tecnico della batteria di lunghi di Team USA (Karl Malone, David Robinson, Charles Barkley, Patrick Ewing).
Tra il 1988 e il 1992, l’assetto politico del mondo cambiò, e con esso quello sportivo. Alle Olimpiadi di Seul, fu l’Unione Sovietica infatti a sconfiggere gli Stati Uniti in semifinale, schierando nel proprio quintetto i ‘futuri’ lituani Arvydas Sabonis, Šarūnas Marčiulionis, Valdemaras Chomičius e Rimas Kurtinaitis. Dall’altra parte, come sempre gli Stati Uniti avevano convocato dei giocatori non professionisti che militavano ancora al college (l’equivalente degli studenti iscritti a una laurea quadriennale del vecchio ordinamento in Italia), dato che fino al 1989 la FIBA (Fédération Internationale de Basketball Amateur) aveva proibito ai cestisti NBA statunitensi di partecipare alle Olimpiadi; il che, tuttavia, non aveva impedito a Team USA di vincere l’oro in tutte le precedenti competizioni a cui aveva partecipato, con l’unica, controversa, eccezione dell’edizione 1972 (https://www.youtube.com/watch?v=m2rteY6ldNM). E se nel 1992 fu la Croazia di Dražen Petrović e Toni Kukoč ad arrivare seconda, perdendo di ‘soli’ 32 punti contro il Dream Team, nel 1988 fu la Jugoslavia – che al tempo poteva schierare, tra i molti, i ‘futuri’ croati Petrović e Kukoč, ma anche i lunghi Dino Rađa e Stojko Vranković – a cedere di misura (76-63) contro i giocatori sovietici.
Le storie e le sotto storie che compongono questo mosaico geopolitico della pallacanestro mondiale hanno trovato all’inizio del nuovo millennio la propria voce: il 10 ottobre 2010 ESPN trasmette il documentario Once Brothers all’interno degli ESPN’s 30 for 30 series, dove il regista Michael Tolajian ripercorre le tappe storiche, sportive e politiche che avevano portato i due giocatori-amici più rappresentativi del basket balcano di quegli anni – il croato Dražen Petrović e il serbo Vlade Divac – a non parlarsi più dopo la conquista del Campionato mondiale maschile di pallacanestro 1990 in Argentina e dopo l’indipendenza della Croazia; durante i festeggiamenti (contro l’Unione Sovietica), Divac allontanò malamente un tifoso indipendentista che portava per il campo una bandiera croata, il che scatenò la rabbia, e il dolore, di Petrović (qui, nello splendido aneddoto di Federico Buffa: https://www.youtube.com/watch?v=Wp6_G95pXqs). Negli anni successivi, al silenzio politico si aggiunge il silenzio biologico: Dražen Petrović morì tragicamente in un incidente stradale il 7 giugno 1993.
Due anni più tardi, il regista e produttore lituano-americano Marius Markevičius termina il suo ultimo progetto: The Other Dream Team è un film documentario del 2012 che racconta l’emancipazione lituana dal controllo culturale (e politico) dell’Unione Sovietica attraverso l’avventura olimpica del 1992 (https://www.youtube.com/watch?v=ZYgeqoJ4B4Q), il cui viaggio a Barcellona fu finanziato grazie a un’operazione di marketing promossa dalla rockband americana Grateful Dead e dall’artista Greg Speirs. Senza eccedere in letture eccessive e unilaterali – vale la pena ricordare, però, che la Lituania è una nazione che ad oggi non conta nemmeno tre milioni di abitanti e che dal 1992 al 2016 non ha mai saltato un torneo olimpico di basket (il che, per esempio, non si può dire per Italia e Francia) –, tutto ciò permise ai giocatori lituani di ottenere un importante riconoscimento politico e sportivo a livello internazionale, dato che ottennero il bronzo olimpico battendo nella finale per il terzo posto la nazionale della Squadra Unificata (una selezione dei giocatori di Russia e delle ex-repubbliche sovietiche).
Il quinto episodio del documentario The Last Dance affronta, tra i molti temi della serie, il delicato rapporto tra basket americano e basket europeo attraverso la partita USA-Croazia (103-70) del girone eliminatorio delle Olimpiadi spagnole. In un’epoca senza internet e di connessioni precarie, al tempo solamente i giocatori americani erano a conoscenza del conflitto sportivo di cui questa partita era espressione; bisognerò aspettare una pandemia e il 3 maggio 2020, su Netflix, per divulgare anche nel mondo dei non addetti ai lavori perché la marcatura di Scottie Pippen e Michael Jordan su Toni Kukoč fu così spietata, ai limiti del fallo, e condotta con un trash talking totalmente gratuito. Nell’episodio in questione si scopre finalmente l’antefatto: il General Manager dei Chicago Bulls, Jerry Krause, voleva portare nella squadra di Jordan e Pippen il croato Kukoč, facendogli firmare un contratto nettamente più ricco di quello che Pippen aveva firmato nel 1991. Non potendo risolvere la questione in un altro modo, Jordan e Pippen mostrarono all’inconsapevole Kukoč di chi erano i Chicago Bulls e di chi era il basket («I would like to thank Michael Jordan for kicking my butt», disse Kukoč il 12 settembre 2021 quando fu introdotto nella Basketball Hall of Fame). Va da sé che Kukoč in seguito divenne compagno di squadra di Jordan e Pippen, e vinse insieme a loro tre titoli NBA.
A distanza di trent’anni, ciò che lega, ancora, le vicende di Stati Uniti, Croazia, Serbia, Russia e Lituania, in un rapporto transtorico e generazionale che non sembra destinato a spegnersi (si spera, invece, che lo sia almeno per il conflitto politico), è il fenomeno paranormale del sintagma performativo ‘Dream Team’. La paranormalità risiede nel grado di unicità e irripetibilità del gesto sportivo e dell’effetto mediatico che la presenza di quei giocatori americani aveva generato nell’intero villaggio olimpico e nelle successive spedizioni (spesso, anche tra gli addetti ai lavori, ci si dimentica dei Dream Team II e III che dominarono i mondiali del 1994 e le Olimpiadi del 1996). In seguito ad alcune debacle olimpiche (il ‘Nightmare Team’ di Atene 2004, che l’Italbasket sconfisse in una indimenticabile amichevole a Colonia il 4 agosto dello stesso anno, https://www.youtube.com/watch?v=sGL1WG9eclw&t=2s) e mondiali (bronzo nel 2006, senza contare l’imbarazzante sesto posto ai mondiali giocati in casa nel 2002), dovute tanto alla svogliatezza del team americano quanto al progressivo sviluppo atletico delle altre nazionali (su tutte, la Spagna), gli Stati Uniti mandarono il ‘Redeem Team’ alle Olimpiadi del 2008 e altre nazionali para-oniriche alle successive competizioni – competizioni che Team USA ha sempre vinto in maniera piuttosto agevole (con l’eccezione, forse, delle Olimpiadi di Tokyo 2020), senza però generare quel sentimento di alterità (nel senso di totalmente altro rispetto al conosciuto e al conoscibile) negli avversari. Dopo il 1992, non c’è stata più alcuna traccia di giocatori americani appartenenti al mondo onirico e accompagnati da un’aura (quasi) mistica, o percepiti come tali dai propri avversari; del resto, pure gli alieni dovettero arrendersi al talento onirico di Michael Jordan nel celebre film Space Jam (1996).
Provo a portare un termine di paragone con il mondo del calcio. Tornato dagli Stati Uniti, era l’estate del 2014, ero andato a Venezia per uscire con una ragazza. L’appuntamento non andò benissimo – in realtà non avevo capito niente, ma tanto – e tornandomene in albergo mi fermai in un ristorante a cenare. In televisione c’erano i mondiali di calcio, era l’8 luglio 2014, la Germania giocava contro il Brasile e aveva appena fatto il quinto goal con Sami Khedira; la partita sarebbe finita 7-1. Se per il calcio un evento di questo tipo rappresenta l’eccezione – anzi: si tratta(va) di un’eccezionalità carica di soli elementi negativi –, lo scarto medio di 43.8 punti, con le vittorie nette contro alcune delle nazionali più forti nella storia della pallacanestro (la Croazia, in particolare), era la norma performativa di una squadra che non poteva essere nemmeno affrontata. Del resto, nel celebre documentario The Dream Team del 2012, i giocatori intervistati affermano che le migliori partite da loro affrontate erano gli allenamenti (https://www.youtube.com/watch?v=IraymSUdK0M).
Le foto di Karnišovas appartengono alla generazione entrante degli anni Settanta, cresciuta nel mito di Magic Johnson e Larry Bird, nell’era dei Bad Boys (i Detroit Pistons) e nell’ascesi incontrastata del dominio di Michael Jordan e dei Chicago Bulls, che tra il 1991 e il 1998 avrebbero vinto 6 titoli NBA senza mai perdere una finale (nei due anni di mezzo, il 1994 e il 1995, Jordan abbandonò il basket per giocare a baseball). Mentre per Sabonis e Petrović, nati entrambi nel 1964, gli americani erano gli invincibili avversari da battere, per Karnišovas, che era sì nato in Unione Sovietica nel 1971 ma si era formato cestisticamente negli Stati Uniti (frequentò il college di Seton Hall tra il 1990 al 1994), il Dream Team era un inarrivabile modello performativo da osservare, l’espressione estetica, nel suo significato di sensazione, percezione, sentimento, più alta della pallacanestro mondiale. Per usare la bellissima traduzione di Luca Canali di un passo del De rerum natura («nos exaequat victoria caelo»), è «la vittoria [che] ci rende simili agli dèi».