di Gianluigi Simonetti

 

[Questo articolo è uscito domenica 10 luglio sulla «Domenica» del «Sole 24 Ore», in una versione più breve].

 

La finale del premio Strega, giovedì scorso a Roma, ha regalato agli appassionati una sorpresa e una conferma. La sorpresa è stata la pioggia, dopo settimane canicolari e senza una nuvola; la conferma, la vena sempre più performativa dei finalisti, in gran parte disposti, per la riuscita dello spettacolo, a indossare una maschera e a recitare a soggetto, come nella commedia dell’arte. Al ninfeo di Villa Giulia abbiamo così visto esibirsi la ragazzaccia un po’ punk (Veronica Raimo), l’assistente sociale (Alessandra Carati), il sociologo smart (Marco Amerighi), il paladino della fluidità sessuale (Mario Desiati). Nessuno più vuole essere uno scrittore e basta – mentre tutti vogliono essere anche scrittori. Ed ecco infatti che lo Strega si trasforma e cresce, emigra dai salotti culturali, si mediatizza e sincronizza con la società non letteraria; fino forse a somigliare al Festival di Sanremo – non quello storico, della canzone italiana, ma quello attuale, lo psicodramma televisivo e social in cui il Paese si guarda allo specchio e la musica è solo un pretesto. Vedere Desiati col collare da slave, la pochette arcobaleno, il fard sulle palpebre e il ventaglio rosa mi ha fatto pensare ad Achille Lauro (del resto anche lui ha scritto un libro), e più ancora a Damiano dei Maneskin (lo scriverà): provocazioni innocenti, cordiali e tutto sommato innocue; trasgressioni paradossalmente consensuali, perché si scandalizzano solo i cattivi, mentre i buoni si sentiranno nel giusto. Se in molti apprezzeranno la studiata miscela di glamour e impegno civile con cui stiamo rimpiazzando ciò che una volta si chiamava poetica, altri noteranno che questo succede perché – proprio come a Sanremo – chi sposta l’accento dalla propria opera alla propria persona, o personaggio, sembra temere in cuor suo che l’opera stessa non sia sufficiente. Che non basti a dire quel che aveva da dire; che non possa ‘passare’, e restare, da sola.

 

A chi però si ostina a credere che alla fine della fiera (è proprio il caso di dirlo) è soltanto la letteratura che conta, lo Strega appena concluso lascia in pegno tre libri, interessanti per ragioni diverse. Da una parte Quel maledetto Vronskij, di Claudio Piersanti, garbata e malinconica tranche de vie di una coppia borghese, scritta con eleganza e sinuosità novecentesche da un autore indifferente alle mode, fedele a un’idea di romanzo come svelamento esistenziale. Dall’altra due significativi prototipi della narrativa che verrà, anzi che già occupa il centro della scena. Spatriati e Niente di vero hanno un pregio strutturale in comune, la velocità (e felicità) del racconto, somministrato attraverso capitoli brevi, costruiti intorno a una scena madre o un aneddoto o un motto di spirito, depurati comunque da ogni lungaggine; per cui niente paura, la noia è bandita. In comune anche il taglio generazionale e didattico che innerva la parabola narrativa dei due protagonisti. In Spatriati, un ragazzo del sud più machista e binario – un «brodo patriarcale» – ripudia la famiglia tradizionale e trova la sua patria più vera, sperimentando «un altro essere maschio», in una giovane compaesana androgina, punk e eternamente figlia trapiantata prima a Milano e poi nella Berlino dei club techno e della cultura transgender. In Niente di vero una giovane romana androgina, punk e eternamente figlia sputtana la famiglia tradizionale (col fratello cocco-di-mamma) e coltiva la sua natura di scrittrice, dopo essersi trapiantata a scrivere…nella Berlino dei club techno e della cultura transgender. Entrambi i protagonisti lamentano un riconoscimento insufficiente (lui da parte del padre, lei da parte della madre); entrambi manifestano pulsioni edipiche (lui bacia la madre sulla bocca, lei è attratta da uomini bassi perché era basso suo padre). Entrambi politicamente avversi alla stirpe dei genitori, di cui si sentono vittime; affascinati invece dal piccolo mondo antico dei nonni, umili contadini e artigiani esenti da nevrosi. Entrambi macchine celibi, troppo figli per fare figli, immersi in una precarietà antropologica, lavorativa e sentimentale che è insieme un fardello e una medaglia al valore.

 

Purtroppo, Raimo e Desiati hanno in comune anche i limiti. Tra questi, un trasporto solo intermittente per quello che s’intende comunemente per stile: attenti ai picchi della propria scrittura, ma distratti davanti alla forma come costruzione coerente e organica (Desiati sa scrivere ma non ama rileggersi – «lo sgarro che le aveva fatto sua madre non doveva essere rimosso, ma doveva scrollarselo di dosso» – Raimo sa organizzare bei segmenti come quello dell’incidente stradale ma è capace di ripetere «a dirla tutta» sei volte in centotrenta cartelle). Soprattutto li lega l’incapacità, o il disinteresse, ad andare fino in fondo nei propri personaggi – e in concreto a organizzare i finali dei rispettivi romanzi. Non sapremo mai cosa c’è veramente dietro questo angoscioso desiderio di libertà (Spatriati), questo ironico bisogno di mentire (Niente di vero); non sapremo soprattutto in che consiste il lato meno tenero e ancillare, meno simpatico e vittimario di questi giovani outsider. E non lo sapremo perché purtroppo neanche loro lo sanno o lo vogliono sapere.

 

Alla fine ha vinto Desiati, guarda caso il meno outsider dei finalisti, il meno spatriato nella repubblica delle Lettere. Dev’esserci un rapporto tra questa presenza centrale e questo proiettarsi nei margini: e non sarebbe male come materia romanzesca. Al di là di quanto suggerisce un breve inciso («Claudia era cresciuta nel candore») la giovane co-protagonista di Spatriati sembra davvero nata dalle ceneri del precedente romanzo di Desiati (intitolato appunto Candore, e a sua volta incentrato su un giovane che si sente e si vuole fallito): un libro che come questo ‘non chiudeva’, non andava in fondo, ma più di questo affrontava le proprie pulsioni regressive, tenendo a distanza furbizia e ideologia. L’impressione è che Desiati debba darci ancora il suo libro migliore: magari succederà quando la curiosità voyeuristica, in lui così vera e potente quando si avvicina a uno specchio, diventerà più forte della paura di attraversarlo, quello stesso specchio; e magari di scoprirsi peggiore.

11 thoughts on “Attraverso lo specchio. Lo «Strega» di quest’anno

  1. “Distratti davanti alla forma come costruzione coerente e organica”… Ma non è un difetto un tantino grande per uno scrittore? Tanto più se additato come il migliore d’Italia…

  2. Che Desiati non sappia scrivere è cosa evidente. Si tratta di un testo “realista” e non di sicuro sperimentale. Ebbene l’errore suo più grande è quello di ignorare la struttura stessa di un romanzo tradizionale. Da un lato un io narrante, più o meno intimo, una sorta di sé peraltro mal definito. Dall’altro l’onniscienza del narratore realista, che emerge a tratti senza che la dimensione realista e quella intima abbiano punti di contatto. Il che rende tutto sghembo, approssimativo e, addirittura, a mala pena credibile. Insomma, qui, chi narra? Un adolescente, un quarantenne, un signor x ogni tanto piovuto dal cielo a raddrizzare il destino di due storie parallele? È un po’ come fare un film e ignorare la legge implacabile del campo e controcampo, la cui violazione ci restituisce sguardi privi di senso. È ciò che accade qui su un terreno strutturale. Né c’è da dire che l’autore sia un giovincello, cosa che appunto non è. Non abbiamo un bildungsroman né una prospettiva esistenziale robusta. Resta un senso di aridità generale che non è in grado di esprimere alcun zeitgeist, cosa che un riuscito romanzo dovrebbe centrare. Quanto alla tematica, trattasi di materiale già stagionato, visto che, coi tempi accelerati che corrono, il motivo gender etc. mi pare ormai digerito a sufficienza e non scandalizza più nessuno se non qualche politicante bollito. Altro impegno, altra macerazione, anche linguistica, si sarebbero dovuti manifestare, ma qui non si vedono.

  3. La diluizione del letterario in forme marketabili viene da lontano, Simonetti ne ha vista la penultima fase dall’osservatorio di questo stesso sito, che co-dirigeva. Del resto, anche il bastione della scrittura accademica e’ stato oramai espugnato dalle mode culturali, da tesine una volta buone per la secondaria superiore, e infine definitivamente dall’associazionismo libero o casuale di idee, rimandi e conseguenze. Vale tutto, insomma, l’importante e’ esserci (al Premio, al convegno, alla lettura, al Forum, nell’antologia, ecc. ecc. ecc.).

  4. Caro Ennio, Non so, dovresti forse chiedere a chi mette la faccia ai suddetti premi, convegni, ecceccecc. : cosa e chi pensa di rappresentare, spendendosi per un sostanziale…. ….nulla?! Ma sono un boomer con tutti gli attributi errati, intendo poco del presente e ancora meno di quel che verra’. Simonetti intende meglio. Ciao!

  5. Ormai da anni la letteratura italiana è un fatto di moda. Si scrive narrativa che parla di temi che vanno per la maggiore, in modo da sperare di attrarre un pubblico più numeroso. Proprio come nelle fiction televisive. Ma preparare un romanzo in base alle indicazioni del proprio editore, o delle mode del momento, impoverisce la capacità dell’autore di ascoltarsi e trovare qualcosa da dire, ammesso e non concesso che l’autore abbia qualcosa da dire.
    Sarebbe bello fare un’analisi critica dei romanzi che hanno vinto lo Strega, o altri premi noti, per capire se ci sia della qualità letteraria tale da meritare non tanto la vittoria rispetto agli altri, ma proprio di essere tra i finalisti di un premio importante. Credo che ne vedremmo delle belle.
    Ma del resto, cosa attendersi dai concorsi letterari in Italia? Un paese in cui si truccano i concorsi a tutti i livelli per dare posti di lavoro anche di rilievo, è ben capace di produrre premi letterari decisi in anticipo in base a logiche estranee al discorso letterario. Sarebbe più intelligente ignorarli questi premi, perché il solo parlarne in qualche modo sancisce la loro rilevanza, dando visibilità, anche solo in negativo, alle banalità che producono.

  6. Aggiungo e chiudo con un minimo di pars construens, sempre dovuta quando si critica l’esistente. Mi limito alla poesia: andrebbe concordato a tutte le latitudini un impulso a selezionare / auto-selezionare dieci poesie pubbliche (e non piu’ di dieci) per ogni scrivente desideroso di “emergere” o di vedersi riconosciuto come voce. Sfido infatti chiunque a ricordare non dico i versi, ma almeno il titolo di dieci poesie importanti di… Leopardi? Figuriamoci gli altri. Chiamiamolo pure passaporto poetico: digeribile, agonistico, comparabile. Un sito messi in piedi e curato da profili autorevoli nel settore, che censisca e raccolga tali dieci poesie pubbliche di svariati scriventi, aperto ai commenti, avrebbe essenzialmente una utilita’ pedagogica diretta rispetto alle millemila rivistine-blog piene di contributi sciolti, ininfluenti nel marasma di questi tempi ormai virati al tiktok.

  7. “Un sito mess[o] in piedi e curato da profili autorevoli nel settore […] avrebbe essenzialmente una utilita’ pedagogica diretta rispetto alle millemila rivistine-blog ” (Il fu GiusCo)

    Ah, questa tua mai scalfita fiducia nel “profili autorevoli”! Ma se la loro (residua) autorevolezza la salvano proprio tenendosi alla larga da ogni critica pedagogica diretta “rispetto alle millemila rivistine-blog” (come si è visto anche nella ormai decennale attività di LPLC e non solo)?

  8. I profili autorevoli del settore, oggi influencer e non come li intendi forse tu, Ennio (ossia: custodi della cittadella, gatekeeper con le stellette), possono attirare e convogliare i contributi. Se ci prova Mr Pinco Pallo #nofollowerz, la scatola rimane eroicamente vuota. Sull’impeto di generosita’ necessario a far partire tale aggregatore, sarei d’accordo col tuo: campa cavallo ma, ad esempio, PordenoneLegge https://www.pordenonelegge.it/tuttolanno/poesia avrebbe gia’ la struttura in nuce (censimento dei poeti del 2014 https://www.pordenonelegge.it/tuttolanno/censimento-poeti ) e l’autorevole esperienza necessaria (iniziative, festival, curatele, ampio raggio) a sostenere il #diecipoesie con ragionevole probabilita’ di richiamo. E visto che qui, su questo stesso sito, intervengono molti che collaborano e hanno contatto diretto con PordenoneLegge, chissa’… hai visto mai che l’eterogenesi dei fini s’immischi anche queste robe derelitte……

  9. @ Il fu GiusCo
    Probabilmente parliamo di cose diverse e le petizioni ai “profili autorevoli del settore ” o a PordenoneLegge non sono nelle mie corde. Buona fortuna.

    SEGNALAZIONE

    Inebetita rassegnazione alla catastrofe
    Come la crisi del capitalismo, la crisi ecologica, e perfino una crisi di governo, siano legate tra loro
    di Mario Pezzella -28 Luglio 2022

    https://www.terzogiornale.it/2022/07/28/inebetita-rassegnazione-alla-catastrofe/

    Stralcio:

    Non c’è davvero nessuno che si ponga almeno il problema di rallentare la rovina che ci minaccia, di rappresentare la paura inespressa, di sottrarla alle tentazioni fasciste? Sia pure per ragioni elettorali i punti che Conte aveva sottoposto all’attenzione del Grande Mario meritavano attenzione: niente di sconvolgente ma almeno un sussulto di riformismo socialdemocratico, che coglieva l’allarme ecologico e sociale profondo che rischia di travolgerci. Intollerabile anche questo, a quanto pare, perché il detto oggi diffuso, tra quelli che si autodefiniscono democratici, pare essere: “Così e non altrimenti si deve andare avanti” – che a me sembra perfino peggio di quello del piccolo borghese tedesco, definito da Benjamin stupido e vile. Con quali parole dovremo noi commentare questa inebetita rassegnazione alla catastrofe?

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