di Linnio Accorroni

 

Vocali, rubrica a cura di Linnio Accorroni

 

Caro M.,

 

a pensarci bene in fondo, l’universo libresco tutto può essere circoscritto all’interno di una brutale, ma efficace bipartizione, da lavagna di prima elementare: i libri buoni ed i libri cattivi. I libri buoni sono i libri gentili, educati, pettinati e profumati, affabili, rispettosi, libri che non turbano, né inquietano, libri che placano e consolano, libri perfetti per quei talk televisivi dove l’autore, opportunamente titillato dalla conduttrice di turno, si darà bel tempo a concionare, partendo dal giardinetto angusto e miserrimo della sua oper-ina piccina picciò, su Covid e guerre e Draghi e TikTok e Manneskin e sorti del genere umano e del pianeta e dell’universo tutto. Insomma, quei libri che il grande Ripellino stigmatizzava perché « contrassegnati da un’insormontabile mediocrità erariale, da un’abulia pretenziosa e da un inerte vegetare». Poi, per fortuna, ci sono anche i libri cattivi, libri grassi ed unti, poco adusi all’igiene e al decoro, politicamente scorretti e torbidamente pretestuosi, colmi di veleno e rabbia e furore, gaglioffeschi e ribelli, che tracimano invettiva e livore da ogni pagina, libri deliranti ed espressionistici, oltraggiosi, malati, eccessivi, libri che richiedono urgentemente una seconda lettura, per godere ancora ancora ed ancora di tanta lussuriosa dépense, di tanta buffoneria, di tanto estro e di tanto vitalismo che ci dispiace abbandonarli. Questi sono i libri che amo, quelli che mi riconciliano con quel masochistico vizio impunito che è la lettura.

 

La carne tonda  di Franco Branciaroli, uscito qualche mese fa per Aragno, rientra a pieno diritto nella gloriosamente malsana categoria dei libri ‘cattivi’. Tardivo, ma deflagrante esordio nella scrittura il suo — alla Theodore Fontane, alla Gesualdo Bufalino — perché il settantacinquenne Branciaroli era senz’altro conosciuto, ma esclusivamente come grande attore di teatro e di cinema. Il teatro con la ‘benedizione’ di Giovanni Testori che gli aveva dedicato espressamente la serie delle Branciatrilogie, e in seguito non banali collaborazioni con Ronconi, Lavia, Aldo Trionfo, Carmelo Bene. Poi quest’anno, insieme al ‘giovane’ Orsini— ma quello vero, per dirla con i Baustelle—, classe 1934, i due hanno calcato le scene di tanti teatri italiani con quel piccolo capolavoro sarrautiano che è Pour un oui ou pour un non. Il cinema, poi, con cinque film, tutti con Tinto Brass: quelli che Branciaroli definisce, con una punta di sarcasmo, la Brasseide. Questo suo libro, tra il Rabelais gargantuesco ed il Ferreri de La grande bouffe, è un formidabile monologo a più voci, delirante ed oltraggioso, priapesco e petroniano, pencolante, ad ogni pagina, tra buffoneria e dolore, tra pianto e riso, tra comico e tragico. Un vero e proprio Hors Catégorie, come si dice di particolari e non banali Gran Premi della Montagna al Tour de France. Un ‘romanzo’ scorretto e ribelle nella deformazione espressionistica e materica della lingua, ma anche nel suo deliberato abbandono di una trama vera e propria, sostituita da una debordante sequela di digressioni e di ‘a parte’, che culminano in scene capitali (una avvincente scopata in Jaguar, le trame ed i maneggi di Mezzera, amico ambiguo e münchhausiano del protagonista, un prestigioso avvocato milanese sodomizzato dal proprio alano, una performance artistica la cui velleitaria dimensione escatologica viene clamorosamente ribaltata dalla perfida incursione scatologica del personaggio che in questo ‘romanzo’ dice io e che scopriamo chiamarsi Davide solo nel finale— evidente pare qui il richiamo a quel film bellissimo che è stato The Square di Ruben Östlund(2017), anche se Branciaroli sostiene, in un’intervista, che si tratta di filologica ‘citazione rabelaisiana’—, l’ossessione alla Humbert Humbert per la « carne tonda » e quindi cosmicamente perfetta di una donna incinta—era proprio nella Lolita ronconiana che Branciaroli interpretò magnificamente l’HH del romanzo di Nabokov—). Tutto raccontato e stravolto e affabulato da una specie di Falstaff ancora più bigger than life dell’originale shakespeariano, un agit-prop osceno e dionisiaco, smisurato e tenerissimo, che agisce esclusivamente pro carne sua. Un racconto che assume, a tratti, la cadenza di un sabba metropolitano, nella Milano navigliesca e figaiola dei cocktail, della moda e del design, inerpicandosi tra grottesco e sublime in ogni pagina. Il ritmo della pagina di Branciaroli incanta e travolge, con un linguaggio che rimanda sia al Dossi delle Note Azzurre che all’Adalgisa gaddiana o al Manzoni più cupo ed ‘infernale’ ( Renzo che si salva dalla folla, saltando sul carro dei monatti, tra gli appestati). E poi, a tratti, squarci di una imprevedibile, e per questo ancora più commovente e straziante, pietas nei confronti di vittime sacrificali di quello Stato violento che è la vita stessa: un coniuge alle prese con la sclerosi multipla della moglie o la mano monca di un gorilla imbalsato, unico ‘luogo’ in cui si placa, almeno per un po’, la furia vitalistica del protagonista.

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