di Luca Cirese e Filippo La Porta

 

There are more things in heaven and earth, Horatio,

than are dreamt of in your philosophy.

William Shakespeare

 

Laspetto più desolante dei talk show televisivi sulla guerra in Ucraina è la radicalizzazione delle posizioni: una rappresentazione caricaturale, in cui bellicisti con elmetto si scontrano con pacifisti irenici. Per ampliare lorizzonte della discussione proviamo ad offrire ulteriori elementi di riflessione, rileggendo alcuni classici della letteratura e ricordando alcune tappe recenti del pacifismo italiano. Benché entrambi del secolo scorso, apparteniamo però a due generazioni diverse (luno nato nel 1952 e laltro nel 1988): insieme abbiamo voluto dialogare recentemente trovando sostanziali convergenze su un tema che ci appassiona, la non-violenza, assunta come esito di una maturazione degli individui e movimenti del nostro tempo e come possibilità inedita per la nostra stessa civiltà di gestire i conflitti in modo evoluto (Non possiamo non dirci nonviolenti, Castelvecchi).

 

“Senza violenza non si ottiene nulla, recitava un adagio. Vero e falso insieme, con la violenza qualcosa si ottiene sempre, ma solo nellimmediato: chi la usa però ne verrà irrimediabilmente modificato, qualsiasi cosa vorrà creare in seguito. E chi di solito pensava, magari in buona fede, di realizzare il Bene ha commesso crimini spaventosi per raddrizzare il legno storto dellumanità: anzi, in nome della futura Città del Bene di uno scopo infinitamente alto, di una utopia definitiva si è sentito moralmente legittimato a compiere quei crimini e a passare qualsiasi misura. È dunque fondamentale sapere che chi si trova nella necessità storica di combattere il male come i partigiani nella guerra di Resistenza non può presumere di incarnare il Bene, ma qualcosa che in questo mondo sublunare è sempre impastata di bene e male. E così, se a volte non vi si può sottrarre e si deve combattere una guerra, diviene cruciale come la si combatte: perché, se non resisti ai violenti e agli “scellerati”, questi prevarranno, ma se li vinci con mezzi “scellerati”, chi vince davvero?

 

Una consapevolezza difficile e necessaria per dare alla propria lotta una misura, questione su cui ci è stato maestro il grande intellettuale italiano – eppure così poco ricordato – Nicola Chiaromonte: controcorrente, fin dagli anni Sessanta tornò alla cultura greca e al “conosci te stesso” di socratica memoria, per riscoprirvi e imparare un senso del limite che il tempo presente fatto di egomania e culto della forza aveva e ha purtroppo dimenticato.

L’Ucraina e le dolorose contraddizioni del nostro presente

A proposito della guerra in Ucraina, a seguito dellinvasione russa, dichiariamo la nostra posizione: siamo favorevoli allinvio di armi e al sostegno concreto alla resistenza ucraina come manifestazione di incondizionata solidarietà, nonostante i suoi costi, a chi è stato aggredito. Non crediamo nella guerra giusta (sarebbe come dire stupro giusto) ma ancora oggi esistono guerre necessarie, assumendo la scelta del conflitto come dolorosa, responsabile e umile ricerca del male minore. Il male, infatti, non si può espungere dalla Storia dove, al contrario, come ci ha insegnato l’Adelchi, non si può che far torto o subirlo, né dalla stessa natura umana, come sanno bene i teologi quando parlano del peccato originale. Non sempre però ci si può sottrarre al male, pur sapendo l’alto prezzo che si paga con una scelta del genere, cioè esserne stravolti per sempre, al di là di ogni buona intenzione e pur sforzandosi di contenere la violenza.

 

È l’insegnamento – questo sì complesso e sfaccettato – della filosofa Simone Weil: perché se è vero – come ha lucidamente sostenuto – che “tutto ciò che esercita o subisce la forza è parimenti e in eguale misura sottoposto al suo imperio degradante: si maneggi la forza o se ne sia feriti, in ogni modo il suo contatto pietrifica e trasforma un uomo in cosa”, il suo esempio ci ricorda che la guerra può rivelarsi un male necessario, a cui è impossibile sottrarsi. Se la pensatrice fu infatti una pacifista integrale, non mancarono però evoluzioni e contraddizioni nel suo percorso: nel 1931, quando comincia a insegnare nei Licei, considera la guerra un male assoluto (anche perché colpisce più di tutti gli oppressi, i lavoratori sfruttati), ma già pochi anni dopo, con lo scoppio della Guerra Civile spagnola, il suo pacifismo ha una prima incrinatura e si arruola in un gruppo vicino all’anarchico Buenaventura Durruti: a lungo andare, però, anche quel conflitto le appare solo una scontro tra potenze per legemonia, in cui si può uccidere senza biasimo né castigo. È poi l’invasione della Francia – che cade subito, finendo sotto occupazione nazista già nel 1940 – a produrre un nuovo mutamento di rotta: se fuggendo, pensa di aver compiuto una negligenza criminale nei confronti della patria”, coglie negli ex sodali pacifisti una inclinazione al tradimento e aderisce alla Resistenza antinazista.

 

Occorre dunque riconoscere che ogni azione che si svolga nella complessità della vita e delle relazioni umane rientra inevitabilmente nellambito del male minore” (Stefano Levi Della Torre). Esemplare su questo fu Jovan Divjak, generale serbo che durante l’assedio di Sarajevo degli anni Novanta scelse il territorio invece del sangue e si fece uomo di pace, usando la sua arte militare per difendere la città e la sua bella convivenza. Un maestro senza dubbio paradossale, ma d’altronde la nonviolenza non è un insieme di dogmi e di pensieri preconfezionati, ma il misurarsi con la situazione concreta per adoperarsi contro l’orrore. Dolorosamente necessario tornare a quella guerra, che fu alle porte di casa, perché se ci sembrò un passato lontano e distante aveva invece in sé molte avvisaglie del futuro che stiamo vivendo: una lezione di cui è necessario fare tesoro, a partire dai rischi di conflitti etnici causati – denunciò lo stesso Gorbačëv – dalla dissoluzione di spazi multietnici come l’Unione Sovietica.

 

Oggi che la guerra torna prepotentemente in Europa, si mostra infatti quanto sia stato gravido di conseguenze sottovalutare la lezione jugoslava, che ci ricorda anche i limiti e i rischi di un pacifismo che mostri il suo volto solo gridato e incapace di misurarsi davvero con la riduzione del danno. Se negli anni Novanta forte e significativa fu la solidarietà nei confronti delle vittime, il movimento pacifista non si limitò certo solo a manifestare ma provò anche a fare la differenza: non pochi furono infatti gli sforzi per “fare la pace”, portando i metodi nonviolenti nei luoghi del conflitto, dalle azioni simboliche nelle città in guerra alla tessitura di reti tra gli oppositori degli opposti nazionalismi con il Verona Forum per la pace e la riconciliazione nell’ex Jugoslavia, fino alla grande azione della Marcia dei Cinquecento, con cui – ha ricordato il promotore Don Albino Bizzotto – i Beati costruttori di pace, in collaborazione con la Rete nonviolenta, riuscirono a “rompere” l’assedio di Sarajevo e farvi così penetrare beni necessari alla popolazione.

 

Fu però sufficiente? Di fronte alla pulizia etnica e ai massacri dei civili (che arrivarono fino al genocidio di oltre ottomila bosniaci musulmani a Srebrenica), l’ecologista e costruttore di pace Alex Langer ritenne di no, arrivando a chiedere – lui in persona, ma non solo lui – un intervento militare, lo stesso che poi alla fine avverrà in occasione della crisi umanitaria in Kosovo con il bombardamento di Belgrado, a cui oggi si fa spesso riferimento malamente: «Si può decidere che nel mondo un diritto deve esistere, che un ordine vincolante per tutti deve farsi rispettare – scrisse nel maggio del 1995 di fronte al massacro dei giovani della città bosniaca di Tuzla – sarebbe preferibile che ciò potesse essere fatto da quei corpi multinazionali di “soldati di pace” dell’ONU, che Boutros Ghali [all’epoca Segretario generale delle Nazioni Unite, NdR] ormai da anni invoca, ma non riceve. Nelle condizioni attuali, tuttavia, l’ONU dovrà chiedere a chi può (alla NATO, in buona sostanza) di svolgere tale compito». Richiesta assai controcorrente, ovviamente, che gli causò non poche critiche all’interno del mondo non solo pacifista, ma che ancora ci interroga su quali siano le necessarie forme di aiuto e contrasto al male, di fronte agli orrendi crimini di guerra come quelli avvenuti a Bucha e di fronte a uno squilibrio di forze tra un aggressore e un aggredito che – oggi come allora – non possono in alcun modo essere messi sullo stesso piano.

 

Nodi e irrisolti che vengono al pettine? Per chi, come noi, è cresciuto con il faro della Resistenza, alla base della nostra Repubblica, per chi, come noi, viene da una storia che ha dato solidarietà e appoggio sempre e comunque alle lotte di liberazione in ogni parte del mondo, è straniante veder invitare alla resa chi intende resistere, avendo una mattina trovato linvasor”. Legittimo distaccarsene – con una positiva riscoperta della nonviolenza e dei grandi metodi della resistenza civile – ma a patto di segnare il passo, mostrando con chiarezza discontinuità e cortocircuiti del proprio percorso. Questo in generale, anche se a volte non manca affatto la sensazione di già sentito e il retrogusto di alcune mancate soluzioni di continuità che sanno di corsi e ricorsi storici: «Anche quella fu una rivolta eroica contro la Russia, l’Urss allora, in un divario di forze incomparabilmente più smisurato; anche quella guardò a Occidente, ascoltò Radio Europa Libera, e credette di trovarvi un appoggio che allora mancò del tutto; anche quella fu designata dalla invasione carrista sovietica come una controrivoluzione fomentata dall’esterno e da schiacciare nel sangue», ha scritto Adriano Sofri in riferimento alla rivolta d’Ungheria, prima ancora che fossero le parole stesse a rincorrersi e che su un giornale comunista leggessimo “Fatti d’Ucraina”, lo stesso stilema riguardante il grande dramma della sinistra italiana nel 1956.

 

Il bene nella Storia non esiste, ma esiste la bontà

 

Resta però ancora importante e meritevole di indagine approfondita e profonda riflessione sulle nostre possibilità e responsabilità la nobile scelta – strettamente individuale e impolitica di resistenza al male, che si richiama all’evangelico “ama il tuo nemico” del Discorso della Montagna, che ha i suoi teorici moderni in Henry David Thoreau e Tolstoj, e che è volontà di separarsi nettamente dal malvagio, preservando così una certa integrità. Volutamente altra rispetto alla grande Storia, è una scelta morale che non si misura tanto sul piano dell’efficacia quanto su quello della testimonianza “scandalosa” di unaltra realtà dentro di sé, perfino estranea allordine naturale fondato sulla forza. Tornano in mente le parole in Vita e destino di un prigioniero del Gulag, seguace del tolstojsmo evangelico e poi rinchiuso in manicomio, dopo aver visto “uccidere nel nome di un ideale bello e umano e della grande, luminosa idea del bene sociale”: “Non ci credo, io, nel bene. Io credo nella bontà”, sentimento del tutto gratuito che si manifesta almeno una volta nella vita di ogni persona.

 

Eppure, contrariamente a quanto si pensi, non sono stati pochi gli esempi in cui scelte e metodi nonviolenti hanno inciso in modo considerevole nella Storia: a ricordarcelo è stata Anna Bravo che nelle sue ricostruzioni ha reso giustamente omaggio ai tanti eroi semisconosciuti che nel Novecento sono riusciti a “risparmiare il sangue”, evitando guerre e conflitti. Esempi altissimi di umanità che sono stati a volte addirittura capaci di contagiare l’oppressore ma che non si possono prescrivere né pretendere da nessuno: dalla fraternizzazione tra nemici nelle trincee della Grande Guerra alle esperienze politiche di Gandhi, del Dalai Lama, e di Mandela, dalla protezione degli ebrei in Danimarca alla resistenza disarmata in Kosovo, passando per le esperienze dei Giusti del mondo che, in tempi di orrore, hanno teso la mano a chi aveva bisogno.

 

Persone eroiche e casi isolati? Nient’affatto, e non solo per il loro numero: se sono molti a essere celebrati nei vari giardini dei Giusti tra le Nazioni, come lo Yad Vashem a Gerusalemme, si può trovargli perfino un “capostipite”, una figura mitologica a rappresentarli tutti dall’inizio dei tempi: è Antenore, guerriero che durante la Guerra di Troia si fece mediatore tra eserciti nemici tanto da passare alla Storia come traditore e finendo così per dare il nome alla parte dell’inferno dantesco in cui finiscono coloro che hanno tradito la patria. Tante storie ammirevoli che costellano il lungo e tragico Novecento, dallo sterminio degli armeni alla Shoah fino al genocidio di Srebrenica, e che sempre ci richiamano alla nostra responsabilità, ricordandoci che “si può sempre dire un sì o un no”. «I “Giusti” delle guerre balcaniche sono quelli che hanno avuto il coraggio di dire no: quelli che hanno avuto il coraggio di essere delle persone», ha raccontato a “Osservatorio Balcani e Caucaso” Svetlana Broz, autrice dell’imponente I giusti nel tempo del male, in cui racconta molte storie di un’umanità controcorrente, come quella di un serbo (addetto al trasporto dei maschi bosgnacchi per il genocidio) che scelse di disobbedire agli ordini dei militari suoi connazionali, mettendo a rischio la sua stessa vita, pur di non consegnarli ai loro assassini.

 

Si tratta di grandi esempi che possono a volte prendere anche caratteristiche di massa, come durante la Seconda Guerra Mondiale con la mobilitazione dei danesi durante l’occupazione dei Nazisti. La popolazione danese non aveva reagito all’invasione con le armi, ma non potrebbe perdonarsi la viltà di assistere inerte a un massacro: e così, grazie alla pratica della disobbedienza civile, trasportò nella neutrale Svezia con inventiva e denaro gli ebrei locali, riuscendo a ridurne al minimo il numero di deportati e uccisi nei campi di sterminio, fino a ottenere per il suo Stato l’onorificenza più unica che rara di “Giusto tra le nazioni”. Tra i primi a riscostruire questa vicenda fu Jaques Sémelin nel suo Senz’armi di fronte a Hitler, opera fondamentale in cui ha riscostruito con dovizia di particolari le forme di resistenza civile in un’Europa occupata dal Terzo Reich: dalla creazione dell’università clandestina in Polonia alle coccarde francesi appuntate sul petto nella Francia occupata e collaborazionista, fino alla scelta in Norvegia di indossare la stella gialla tutti e tutte, fino al Re. Storie che ancora oggi difficilmente sono entrate nell’immaginario dell’eroica Resistenza europea, perché – ha ben scritto Anna Bravo – «il racconto della guerra al mortifero Hitler è ancora ipnotizzato dal sangue», con le armi come prova principe, se non unica, di lotta e impegno.

 

Anche qui, però, ci sono altri fili, spesso sottovalutati, che legano il nostro Novecento: alla fine del secolo, molti albanesi del Kosovo, guidati da Ibrahim Rugova, praticarono proprio la resistenza nonviolenta per ottenere l’autonomia dalla Serbia di Slobodan Milošević. Tra le forme di conflitto nonviolento più creative ci fu quello della semi-resistenza che – grazie a pratiche come scendere in piazza solo per 5 minuti o fare baccano con clacson e pentole contro gli abusi di governo e forze dell’ordine – furono capaci di ridurre l’avversario a una semi-impotenza. E, più in grande, si riprovò a fare come la Polonia sotto occupazione nazista, con la creazione di un governo e di una società parallela che – grazie a scuole disseminate, centri sanitari e luoghi di cultura – cercò di contrastare una “serbizzazione” del Kosovo fatta di licenziamenti, chiusura delle scuole e cambi di alfabeto e toponomastica.

 

Senso del tragico e risposte letterarie

 

In una situazione presente che ci riporta ancora all’ambivalenza tragica e insondabile dellumano dove sempre si intrecciano bene e male – non ci si può dunque che proporre di battersi umilmente ogni giorno per le sfumature, per il male minore. Bisogna dunque diffidare dei portavoce del Bene, paladini senza macchia e senza contraddizioni, così come dei profeti dei massimi sistemi e di una filosofia originariamente innamorata del sapere e delle essenze immutabili: ed è qui che la letteratura ci viene incontro, occupandosi dei dettagli e delle sfumature di cui propriamente è fatta la realtà e aiutandoci a decifrarla. Nei suoi personaggi terribili e ridicoli, tragici e comici, codardi ed eroici, sospesi tra saggezza e follia, raccontati da grandi autori come William Shakespeare, si specchiano i nostri dilemmi senza soluzione.

 

L’opera shakespeariana illumina due posizioni cardine della nostra modernità, quelle di Machiavelli e di Erasmo da Rotterdam. Allorigine del nostro mondo si staglia Il Principe di Machiavelli, esperto dellarte della guerra e grande figura tragica, che raccomanda ai grandi di eliminare i propri nemici, se non possono indebolirli. La stabilità politica, la sopravvivenza dello stato per consolidare un ordine sociale giustifica qualsiasi mezzo: la guerra diviene modello della politica, dove chi perde non ha salvezza. Negli stessi anni prende però parola anche Erasmo, per il quale (Querela pacis, 1517) una pace ingiusta è meno dannosa di una guerra giusta. Entrambe sono ripercorse dal grande drammaturgo inglese con un passaggio da una visione eroica alla sua parodia: nei drammi storici della prima tetralogia (Enrico VI parte 1, 2, 3 e Riccardo III) sostiene la causa patriottica dei Tudor, in quelli della seconda (Riccardo II, Enrico IV parte 1 e 2 e Enrico V) abbiamo Falstaff che, dopo essersi finto morto in battaglia, sberleffa lonore, paragonandolo all’aria, e infine Troilo e Cressida, che decostruisce lepica omerica all’alba del Seicento, quando sale al trono Giacomo I, sovrano tendenzialmente pacifista.

 

Ma se l’onore è solo aria, qual è veramente la forza che muove gli eserciti e decide le sorti delle battaglie? A questo interrogativo provano a rispondere Tolstoj, e, nel cuore del Novecento, uno scrittore immenso e profondamente tolstojano, Vasilij Grossman che racconta tre anni di guerra con il suo romanzo fluviale Vita e destino. Come in Guerra e pace anche qui epica dellesistenza (celebrata nella sua miseria e nella sua grandezza) e epica della realtà si incontrano nelle sterminate, nebbiose distese russe, in un teatro fitto di umanità, dove si consumano combattimenti furiosi per poi fatalmente concludersi come nella Gerusalemme liberata: Tutto scorre, tutto viene ricompreso nel ciclo eterno della natura e del trascorrere delle stagioni. La risposta di Tolstoj e di Grossman, è lidea di un potere impassibile che si esprime nei movimenti dei popoli, una forza arcana e per niente provvidenziale, espressione di una incomprensibile vita universale, una necessità inesorabile che sovrasta lindividuo e che Napoleone incarnazione moderna del mito della politica si illudeva di governare. Ora, di fronte a questa forza enigmatica che possiamo fare? Arrenderci fatalisticamente alla Necessità? Grossman ritiene di no, anzitutto perché da quella stessa forza misteriosa discende anche lamore gratuito e la carità individuale.

Solo una questione privata, dunque? Forse, piuttosto, una questione di responsabilità. Il protagonista del Partigiano Johnny non giudica ma sceglie(Geno Pampaloni). Non occorre infatti giudicare o sforzarsi di capire qualcosa che sempre ci resterà un po estraneo: è sufficiente scegliere, limpidamente e responsabilmente, sapendo altresì che le nostre stesse scelte sono in parte casuali, eppure ineluttabili. Una penna che, nonostante enormi differenze stilistiche e personali, ci ricorda quella di George Orwell, esponente della letteratura tanto amata dallo scrittore delle Langhe. In entrambi cè infatti il primato della morale sulla politica, una profonda onestà verso se stessi, un impegno esistenziale prima che ideologico. Spiriti liberi, al tempo stesso patrioti e inappartenenti, fortemente laici, precipitati nel secolo delle ideologie. Hanno odiato tutti i totalitarismi e obbedito solo alla propria coscienza: se Orwell era uno strano socialista libertario, Fenoglio, monarchico, diventò solo più tardi simpatizzante socialista. Il suo Johnny sente di doversi schierare, inequivocabilmente: quando verso la fine un mugnaio gli consiglia di imboscarsi fino alla fine della guerra, tanto gli Alleati stanno per arrivare, risponde: Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dir di sì. Combattere i fascisti è per lui un dovere che viene prima della politica, un imperativo assoluto senza unapparente motivazione e in ciò ricorda la scena finale di Mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, quando il capo della banda chiede agli altri di salvare il loro compagno prigioniero – ma è una missione palesemente suicida e quelli rispondono: Why not?.

 

Altro grande scrittore italiano e sottotenente degli alpini, Carlo Emilio Gadda partì volenterosamente per la Grande Guerra, elogiandola come “necessaria e santa per la sua ferrea disciplina, amando sinceramente la patria, santa terraa cui sacrificherebbe subito la vita in una morte utile e bella. Ciò che non amò incondizionatamente Gadda fu il popolo italiano: gli italiani “buoni, onesti, intelligenti, sani” sì, ma odi cani opportunisti, corrotti, furbi, prepotenti, inclini a dileggiare il prossimo”. Il suo demone e la sua inguaribile nevrosi fu il bisogno disperato di contrapporre un principio di ordine al disordine, al groviglio irriducibile del mondo: a ventidue anni ritenne che un argine al caos oltraggioso delle cose potessero essere gerarchie, regolamenti e ordini militari, nobilitando così il carnaio della sua guerra: poi la scoperta, raccontata con la consueta verve: «Asini, asini, buoi grassi, pezzi da Grand Hotel, avena, bagni: ma non guerrieri, non pensatori, non costruttori», scrisse a proposito dei generali italiani, dopo la scoperta che un paese di burocrati non può che produrre un esercito di passacarte. E dunque, dopo pagine e pagine in cui elogia leroismo militare e la disciplina, c’è un abbandono a un oblio di se stesso dentro la vita cameratesca del reparto e forse una rivelazione: “Talora vedo in questa guerra un pervertimento di alcuni valori, che sembravano conquiste sicure dellumanità. E così nellultima lettera del 1967 al cugino Piero, ricordando quegli anni terribili, lo scrittore allude a un eroismo diverso, da applicare non tanto alle spericolate imprese militari quanto a un lavoro, non meno spericolato, di continua conoscenza di sé e del male oscuro della nostra condizione: un’autoindagine impietosa verso la propria natura difettiva” e di confronto con i propri inestinguibili rimorsi.

 

Una questione di responsabilità

 

Oggi lumanità, specie in Occidente, dopo tanti conflitti necessari ma anche dopo tanti massacri insensati, potrebbe essere abbastanza matura da riconoscere che ha perduto definitivamente l’innocenza, e che in ogni guerra, come in quella di Troia, dopo un pociascuno ne dimentica le motivazioni, come ci ha insegnato Simone Weil. Al disordine irriducibile del mondo si può allora solo, parzialmente, riparare attraverso lumile disciplina della ragione, di un accordo razionale la non-violenza è anche esercizio di immaginazione morale – e di una attenta cognizione del dolore, destino comune degli umani e fondamento di qualsiasi vera fraternità.

 

Eppure, nonostante il rischio atomico che torna – con la guerra che smarrirebbe così del tutto ogni significato razionale, annullando vincitori e vinti – è necessaria oggi la consapevolezza che il ticchettio non se n’è mai davvero andato e che la pace in Europa, costataci gli oltre 50 milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale, non è una conquista che può essere data per scontata. I Fisici per la pace ci avevano messo già in guardia che in un mondo non più diviso in blocchi la bomba nucleare sarebbe passata da arma di deterrenza ad arma di ricatto, con paesi ben poco democratici che rischiano di diventare bombe a orologeria, non dovendo rendere conto alle loro opinioni pubbliche. Scenari irreali? Non tanto se si pensa alla siccità che stiamo vivendo sulla nostra pelle e a un conflitto sul suolo europeo che si fa precedente per le guerre dell’acqua che potrebbero scoppiare tra paesi atomici come l’India e il Pakistan.

E dunque, di nuovo, il male non è eliminabile dalla Storia: a volte si deve resistergli, a volte la guerra ci appare dolorosamente inevitabile. Se maestri di pace e autocontrollo, come il grande monaco buddista Thich Nhat Hanh, parlano di “uso nonviolento della forza” per un mezzo odioso ma a volte necessario, anche secondo Albert Camus, nel 1943, occorreva fare la guerra disprezzandola. Vi sembra un ingegnoso sofisma? O forse solo un’irrilevante sfumatura? Ma il grande scrittore francese difende proprio le sfumature: “Combattiamo per la sfumatura che distingue lo spirito di sacrificio dal misticismo, lenergia dalla violenza, la forza dalla crudeltà, per la sfumatura ancora più tenue che separa il falso dal vero…. Forse solo le donne, verosimilmente, possono fare la guerra odiandola.

3 thoughts on “Non possiamo non dirci nonviolenti. Riflessioni sulla guerra e sulla pace

  1. Vi dite non violenti e appoggiate l’invio di armi all’Ucraina? Si direbbe una tragica contraddizione e lo è se non fosse che il must attuale è dare addosso senza vergogna alla Russia…

  2. IN questa dottissima e certo sensibile dissertazione, a un certo punto invita a diffifare “di una filosofia originariamente innamorata del sapere e delle essenze immutabili”. Sarei grata di sapere a quale filosofia e quali filosofi si riferisce.

    Grazie , e complimenti per la ricchezza dell’argomentazione, di cui non mi è chiarissimo come (o con quale dei suoi molti e fivergenti filoni) supporti la scelta esibita dall’autore, ma che forse non intende affatto giustificarla. E grazie per l’attenzione,

    Roberta De Monticelli

  3. Ogni citazione decontestualizzata si presta facilmente alle manipolazioni.
    Per quanto riguarda Camus invito a rileggere quanto dichiarato e scritto sulla guerra di Algeria, a proposito della quale rifiutò sempre di schierarsi, cosa che gli fece incassare molte e aspre critiche. Camus si batte’ fino all’ultimo per la mediazione, anche se a proposito della miseria e sofferenza in Algeria aveva scritto le pagine mirabili sulla Cabilia. Ricordo che Camus
    in Algeria era nato e cresciuto, da famiglia francese e madrelingua francese. Rappresenta molto bene chi può essere lacerato dall’amore per due paesi in guerra.
    L’unica cosa che mi piace accogliere di questo testo è la chiara presa di posizione dei suoi autori a favore dell’intervento armato: cioè una rispettabile ma semplice opinione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *