di Camilla Marchisotti
Tra i primi racconti dei Sillabari di Goffredo Parise (Adelphi, 1984), ce n’è uno intitolato «Amicizia». È la storia di dieci persone che passano una giornata insieme sugli sci, il resoconto di una gita in montagna che è anche – come sempre in Parise – la metafora di qualcos’altro. Forse, in questo caso, la lunga discesa sulla neve con le sue varie tappe è “figura” della vita nell’alternarsi delle sue fasi. Scrive Parise che
La terza parte della discesa presentò “notevoli difficoltà”: c’era un passaggio obbligato che dava su un’apparente voragine, in ombra, perciò gelato, che finiva in una vasta conca di nuovo al sole, con una piccola baita. Avendo coraggio si sarebbe potuto scendere senza paura dritti sul ghiaccio […] Le donne, salvo Pupa, non l’ebbero, gli uomini, pochi (Guido, non si sa come, era già arrivato in fondo), Silvia si fermò chiamando aiuto, accorse Filippo ma lei pianse, batté i piedi (con gli sci) e non volle scendere; l’uomo con foulard scivolò in una piccola valle ignota tra neve vergine, capitombolò due volte senza riuscire a fermarsi e pensando al destino, infatti si fermò contro un cespuglio, vide due scoiattoli neri tutti raspanti e pieni di paura e rimase un po’ solo a riposare e a pensare. Ma tutto andò bene e quando arrivò alla baita dove Filippo voleva organizzare una spedizione di soccorso, Silvia sorrideva con gli occhi ancora pieni di lacrime.
Via da qui è l’ultimo libro di Alessandra Sarchi: un ritorno ai racconti dell’esordio (Segni sottili e clandestini, Diabasis, 2008), che arriva dopo quattro romanzi (Violazione, 2012; L’amore normale, 2014; La notte ha la mia voce, 2017; Il dono di Antonia, 2020), pubblicato in febbraio per Minimum Fax, dopo la pluriennale fedeltà dell’autrice per gli Einaudi Stile Libero Big. Una doppia “crisi”, dunque; tripla, se pensiamo che i cinque racconti e i personaggi che li popolano tematizzano proprio quella «terza parte della discesa» (leggi: della vita) che presenta «notevoli difficoltà». In ordine di apparizione: Monica si ritrova a dover affrontare, dopo tre anni di convivenza nella loro «tana», la morte improvvisa della compagna; Ines, tradita dal marito, torna dall’America per passare l’estate con sua sorella Rossella (ugualmente in crisi) e i suoi due bambini, su quell’«argine» della pianura padana che aveva fatto da sfondo alla sua infanzia e che ora è solo una «statale che collega due regioni e tre province a cavallo del grande fiume, lontano dalle metropoli e vicino ai capannoni di eternit»; Melissa e Filippo, una coppia di spiantati, giocano al gioco della sopravvivenza in «un luogo precario e bellissimo», «il palazzo della principessa»; Annamaria litiga con Giovanni, ma soprattutto con Los Angeles, che non è certo Parma («Credi che la tua infelicità sia anche colpa di questo posto, di come si vive qui», le dice l’amica Monty in «Cherry Street»); sulle «Fondamenta della Misericordia», un gruppo di amici dei tempi dell’università si ritrova di nuovo insieme a bere spritz alle soglie dei quarant’anni, oscillando su un mare di precarietà e fallimenti, proprio come fa Venezia sull’acqua attorno a loro.
Cinque racconti della crisi come cinque pezzi di teatro, con Sarchi che muove i fili e dirige, praticamente mai indugiando nella prima persona, nel ruolo che Parise attribuiva al decimo componente del gruppo in «Amicizia», l’alter-ego dichiarato del narratore:
E infine un altro uomo che sapeva fare una cosa sola nella vita, cioè osservare nei particolari (sempre mutevoli) gli altri nove e il tempo, sperando e studiando il modo, senza che nessuno se ne accorgesse, che tutte queste cose fossero in armonia tra di loro.
Osservazione e armonia tra personaggi, particolari e tempo compongono la “ricetta” di Parise, a cui in questo caso bisogna aggiungere almeno un altro elemento, davvero centrale: per Sarchi (ma non è una novità, si pensi soltanto a Violazione) la più grande preoccupazione è lo spazio, a cui rimandano i cinque titoli dei racconti e quello complessivo della raccolta. Spazializzare la crisi è il gesto per eccellenza di questo libro, un gesto da pittore o da architetto, a comporre una psicogeografia che oscilla tra le due soluzioni del restare e del fuggire, ma che è incapace di risolversi completamente per l’una o per l’altra, come già testimoniava quell’Orazio che viene infatti citato.
La vita, dunque, come «un pendolo che oscilla tra dolore e noia»? Non proprio o non solo, se il grande merito di Sarchi e del suo approccio alla spazialità è quello di abbracciare i luoghi nella loro complessità, usando per rappresentarli tutti i toni di una ricca e sfumata palette emotiva. Tra scenari spesso topofobici («Ha paura di scivolare ancora di più verso gli anfratti oscuri attorno cui sembra avvolgersi la città, oscuri ma non nascosti, anzi ben visibili a tutti, sotto un cielo di smalto e una luce spietata») l’autrice sa aprire spazi, se non di felicità, perlomeno di quiete: quel fiume padano filtrato dagli occhi dell’infanzia, lungo cui abitare è «una fortuna» perché, come scrive Giorgia, «si può essere liberi»; il giardino di Boboli in cui «Monica riesce a sentire il silenzio, un silenzio assoluto, l’unico luogo dove continua ad abitare con Evelyn».
Così, anche il tema dell’abitare non viene mai declinato in maniera monolitica o scontata, nella sua valenza di rifugio felice o in quella uguale e contraria di casa-prigione, ma si risolve in qualcosa di estremamente più complesso. Attorno all’idea di casa si coagula la ricerca spesso frustrata di un sense of place in perenne movimento, una sorta di applicazione letteraria di quella che Braidotti chiamerebbe una filosofia del nomadismo. Non sorprende, allora, che le più sapienti rappresentati di questa tendenza nel panorama della letteratura contemporanea siano donne. Penso a Sarchi, ma anche a Durastanti e Maini, e – nel mondo anglofono, in modi certo diversi tra loro – a Rachel Cusk, Sally Rooney, Zadie Smith, Maggie Nelson: tutte scrittrici che, più dei loro colleghi maschi, hanno saputo raccogliere – a distanza di decenni e senza lasciarsene schiacciare – l’eredità pesante che ci ha consegnato Natalia Ginzburg ne «Il figlio dell’uomo»:
Non saremo mai più gente serena, gente che pensa e studia e compone la sua vita in pace. Vedete cosa è stato fatto di noi. Non saremo mai più gente tranquilla. […] Ciascuno di noi avrebbe molta voglia di posare il capo da qualche parte, ciascuno avrebbe voglia di una piccola tana asciutta e calda. Ma non c’è pace per i figli degli uomini. Ciascuno di noi una volta nella sua vita si è illuso di potersi addormentare su qualche cosa, impadronirsi di una certezza qualunque, di una fede qualunque e riposarsi le membra. Ma tutte le certezze di allora ci sono state strappate e la fede non è mai qualcosa dove si possa infine prendere sonno.
Non è forse un caso, allora, che proprio “tana” e “misericordia”, due parole fondamentali nel lessico di Ginzburg, ritornino nel primo e ultimo titolo dei racconti di Via da qui. Titolo che diventa un invito, quasi un’ingiunzione: non ripiegarsi in sé stessi, nella letteratura come nella vita, ma andare, muoversi, transitare. Tra più luoghi e anche tra più lingue, come è il caso di molti personaggi del libro, che nei loro legami con l’America (già centrale ne Il dono di Antonia) vivono uno spaesamento tanto spaziale quanto linguistico. Annamaria e Giovanni sono entrambi italiani, ma vivono a Los Angeles, e lui le ha sempre parlato in inglese, anche nei momenti più intimi, tanto che «fra di loro l’italiano era diventato oggetto di una specie di rimozione domestica». Ines sente suo nipote di sette anni chiamare «»cadrega» quella che per lei è ormai soltanto una «armchair» e capisce «che c’è un altro mondo cui appartenevi, e ti domandi che fine abbia fatto». Così, Sarchi riunisce lo spazio e la lingua nel segno comune e doloroso della viandanza.
Antonella Anedda, un’altra poeta che ha fatto dello spazio la sua ossessione, in Residenze invernali scrive che «la casa è ciò da cui si è tolti». «Non è malinconia» chiosa Sarchi «piuttosto nostalgia, non esattamente il mal del ritorno, ma quello stato d’animo che adesso preferisce dirsi in inglese: longing for. Un vuoto, una mancanza che vuole essere colmata». Nel “via da qui” a cui ci invita il titolo, risuona allora l’eco della lezione che già T.S. Eliot fece pronunciare all’uccello in Burnt Norton: «Via, via, via, disse l’uccello: il genere umano / non può reggere troppa realtà». Continuare a spostarsi è forse l’unico modo di colmarla, la mancanza.