di Federico Zuolo
Giorgio Agamben è considerato una delle più importanti voci di critica nel panorama filosofico italiano e internazionale. Assurto alla ribalta negli ultimi anni per le sue controverse posizioni sul presunto allarme pandemico e vaccinale come dispositivo di potere, in realtà non ha mai smesso la sua attività pienamente teorica. Infatti, il suo ultimo libro (L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia, Einaudi 2022) promette di ricostruire alle sue radici metafisiche il problema della realizzazione e della realtà. Non è chiaro, però, se questo libro abbia una dimensione politica e se Agamben si possa considerare un pensatore, in un qualche senso, critico.
Per indagare la dimensione propriamente critica del pensiero agambeniano cercherò di effettuare una mossa propriamente agambeniana: estrarre da un lungo ragionamento un piccolo frammento e farne l’emblema definitivo di una realtà più complessa. Metodo antimetodico che in altre opere Agamben attribuisce a Walter Benjamin, l’estrapolazione del passaggio si basa sull’idea che certi frammenti siano isomorfi rispetto al tutto, ovvero capaci di riflettere nel dettaglio una verità presente in generale ma difficile da carpire globalmente.
Il frammento in questione è l’unica porzione del suo ultimo libro che ha una portata esplicitamente critica, all’interno di un mosaico di natura prettamente metafisica. Infatti, nonostante un titolo che sembra promettere una dimensione politica e pratica, l’ultimo libro di Agamben è una cavalcata metafisica sul rapporto bimillenario tra atto e potenza, realtà e realizzazione, forma e materia. La tesi generale è che l’occidente si sia fatto dominare da un’impostazione aristotelica della questione, che ci condanna però a pensare “possibilità e realtà, essenza ed esistenza” (p. 60) come irrelati inevitabilmente scissi. Problema conoscitivo (come facciamo a conoscere la cosa in sé?), ma anche pratico (la realizzazione sfugge sempre), è per Agamben innanzitutto un problema metafisico nel modo in cui concepiamo, viviamo e siamo strutturati dalle categorie fondamentali dell’essere. La plausibilità della soluzione accennata da Agamben, che combina elementi kantiani e platonici in una chiave generale heideggeriana, non è qui in questione. Ciò che è più interessante è cercare di capire, invece, l’implicazione pratica e sociale di questo discorso.
Secondo Agamben la concezione prevalente, sottaciuta ma determinante, nella struttura del linguaggio ci fa concepire una scissione nelle cose “in potenza e atto, essenza e esistenza, su cui si fonda l’idea di un passaggio necessario dalla potenza all’atto” (p. 85). Questa concezione ci porta a considerare la realtà come un processo incessante di realizzazione che, però, è aporetica perché incapace di avere un luogo di sintesi e riconciliazione. Quindi “finisce col distruggere teoricamente e praticamente, metafisicamente e politicamente la realtà che voleva comprendere. La realtà è oggi in ogni ambito disfatta dai processi di realizzazione che dovrebbero assicurarne la consistenza” (ibid.). Questa dinamica strutturale, lungi dall’essere solo un lontano carattere della struttura profonda, avrebbe implicazioni sociali e politiche poiché “una realtà scissa in una possibilità irreale e in una effettività ogni volta da realizzare si presta al controllo e alla manipolazione” (ibid.). Un processo che sarebbe tanto soggetto al controllo, quanto al suo scacco poiché presupponendosi la realizzazione “continua e interminabile, la stessa possibilità di un governo della realtà si rivela illusoria” (ibid.).
In che senso questo frammento può essere considerato critico? Una teoria critica, in qualsiasi senso si possa intendere, ha un intento emancipativo. Cerca, infatti, di liberare la comprensione della realtà o i rapporti sociali da un gioco conoscitivo o pratico messo in campo da una parte dominante sulla parte dominata. Sia essa in salsa marxiana, foucaultiana, femminista, post-coloniale o post-critica, ha un intento conoscitivo e pratico allo stesso tempo. Nel mostrare un dispositivo di falsificazione del reale, la critica cerca anche di liberare i rapporti sociali. Anche quando è scettica sulla possibilità di una piena liberazione o più umilmente non cerca di porsi su un piedistallo di superiorità, la critica è un’operazione cognitiva che serve a fare qualcosa praticamente. E per esserlo deve, avere a che fare con la forma in cui si danno le cose socialmente. Ovvero, deve misurarsi con le forme conoscitive e pratiche di dominio, e quindi, ad esempio, criticare l’economia politica (Marx) o i saperi e le tecniche disciplinari (Foucault). Deve quindi avere una relazione con i campi conoscitivi e le relazioni sociali che determinano dominio. E la critica svolge il suo ruolo proprio nello smontare e mettere in discussione l’apparente necessità di ciò che esperiamo come prossimo e normale, ma che in realtà è un costrutto.
Dati questi caratteri generali ma ovvi, il metodo agambeniano non può evidentemente essere considerato critico. È vero che intende disvelare una realtà invisibile all’occhio comune, ma disvela un qualcosa di irrilevante all’atto pratico, ammesso che sia vero. Inoltre, la mancanza totale di analisi di elementi sociali in questo testo, e sostanzialmente anche in altri (https://www.leparoleelecose.it/?p=39335), rende la liberazione da un presunto dominio del tutto vuota. Anche se fosse vero che intendere l’essere in maniera scissa è un dispositivo paradossale e malefico, chi sta dominando chi e in che senso saremmo bisognosi di liberazione? L’essere come scissione di potenza e atto, esistenza e realtà? Chi sfrutta la manipolabilità dell’essere scisso? Noi stessi ci autodominiamo con una concezione fallace dell’essere? Se così fosse la prospettiva di liberazione offerta dalla teoria, più che una liberazione sociale e pratica sembrerebbe piuttosto configurarsi come una liberazione (lisergicamente metafisica) dalle barriere della percezione.
Potremmo però pensare che pur non essendo critico in senso proprio, il contributo di Agamben sia per lo meno liberatorio nelle soluzioni che propone. La soluzione tratteggiata alla scissione dell’essere in potenza e atto è delineata da Agamben senza cercare ricomposizioni dialettiche. Al contrario, suggestionato alla dottrina della chora platonica, va alla ricerca di una dimensione dell’essere che si situa tra sensibile e intelligibile e, in quanto tale, è un puro darsi delle cose. Inoltre, l’assenza di scissione si può rintracciare nell’idea che facendo esperienza di me stesso, come essere che conosce e percepisce, vado alla radice dell’esperienza del mondo, una radice che viene prima del vivere il mondo distinto in cose materiali e loro essenze, in sostanza e accidenti.
A questo punto, dovrebbe essere chiaro che il presunto elemento critico, se ve ne fosse uno, si ritrova naufragato in un’idea di ritorno all’origine, a una radice mitica di assenza di scissioni, crisi, dualismi. Una posizione ombelicale in cui non vi sono problemi perché nella stasi dell’assenza di determinazioni o nel circolo di un soggetto che percepisce il proprio percepire ci si può solo crogiolare nel ventre dell’indeterminatezza.
Questo modo di praticare filosofia è stato giustamente definito come una forma ieratica e apocalittica di confrontarsi col mondo. Agamben è sicuramente in buona compagnia, sotto l’egida riconosciuta di Heidegger, e in ciò ritrova un’ampia comunità di sostenitori. Ma va chiarito l’equivoco sulla presunta natura critica di tale forma di ragionare. Qualche decennio fa l’avremmo chiamata critica regressiva (https://www.leparoleelecose.it/?p=37978), ora più agevolmente si può pensare al populismo. Si tratta infatti di un populismo teorico non soltanto perché ha portato Agamben a sostenere le note posizioni complottiste e antiscientifiche ma anche perché più in generale produce soluzioni illusorie. È un populismo filosofico perché la soluzione dei più intricati problemi metafisici e pratici viene rintracciata in una mossa tanto semplice quanto oscura, e questa soluzione metafisica sembra essere l’unico antidoto alla manipolazione delle nostre coscienze. Alla fatica delle soluzioni, delle sfumature, e delle mediazioni si preferisce una mossa che, sebbene si presenti con i crismi di una certa raffinatezza intellettuale, consiste in realtà in un ritorno a un’immediatezza mitica. Al posto del popolo unitario come sorgente di ogni bontà, qui ci viene proposto l’essere senza scissioni. Il populismo filosofico, a differenza di quello politico, non fa vincere le elezioni e forse, alla fine, non è dannoso. Ma di certo di critico ha solo la postura (https://www.leparoleelecose.it/?p=34505).
Ogni tanto capita di ascoltare dei discorsi urticanti provenienti da persone stimate, intelligenti, competenti, e più in generale virtuose. Con inalterata stima, ma un piccolo segnale di allarme, ci si chiede come possano così deragliare da se stesse. Non è una questione di semplice diversità di opinione, ma di coerenza all’interno di un mondo di pensiero. Mi pare che il professor Zuolo mi abbia illuminato: parto dalla mia tesi preconcetta e vado a ritroso a giustificarla, finisco nella mia metafisica dove riaggiusto un po’ qua e un po’ là. Anche per me la colla del professor Agamben non tiene.
che “colla”, che metafisica ? E’ il commento di Guolo a essere incompleto e quindi errato. La sua lettura di Agamben manca di approfondimento storico-filosofico – non si tratta tanto di Heidegger quanto di Benjamin e di Platone – mentre il libro di Agamben è anche filologicamente rigorosissimo e preciso, basta leggere
Sottoscrivo quello che scrve qui sopra Nicola Ricciardello. Attribuire ad Agamben di “sostenere le note posizioni complottiste e antiscientifiche”, è gia un travisamento di quello che ha detto. E cioè che l’imposizione dei vaccini e del green pass fossero strumenti giuridicamente discutibili. Non ha mai parlato di inefficacia del vaccino o di suoi presunti effetti collaterali. Per quanto riguarda l’efficacia critica e politica della individuazione di dispositivi che caratterizzano il pensiero occidentale, penso che ce ne sia un grande bisogno. La catastrofe ambientale e sociale reclamano che se ne individui gli attori e sicuramente l’Occidente è in prima linea su questo asse di ricerca. Capire dove sono i nodi che hanno portato l’Occidente in questa posizione credo che sia la cosa che criticamente ci è oggi tra le più indispensabili.