di Rino Genovese
Che Oscar avesse avuto una moglie, pare sia sfuggito ai più, soprattutto a quelli che di Wilde hanno fatto un’“icona gay”, come si dice con miserabile espressione. E che questa signora – scomparsa a quarant’anni a Genova, nel 1898, per le conseguenze di un’operazione perpetrata da un chirurgo folle di nome Bossi – sia stata a sua volta una intellettuale impegnata almeno quanto il marito, finora non aveva interessato proprio nessuno. Entrambi politicamente progressisti e filosocialisti (lei protofemminista, e lui quello che scrisse: “una mappa del mondo che non include il paese dell’Utopia non vale neppure un’occhiata”), finirono travolti dal loro anticonformismo. Non va dimenticato che Oscar si cacciò con le sue stesse mani nella vicenda anche giudiziaria che lo condusse a farsi due anni di lavori forzati. Per quale ragione? Per una sfida alla società puritana del tempo. Quando si dice “dandy” non ci si sbaglia – ma si dovrebbe sempre sottolineare che il dandysmo di Oscar fu molto di più che un mero estetismo: fu una forma di engagement portata fino alle sue estreme conseguenze.
Sono questi i pensieri che vengono in mente leggendo il bel libro di Laura Guglielmi – Lady Constance Lloyd. L’importanza di chiamarsi Wilde, edito da Morellini –, un’autobiografia romanzata del personaggio, scritta sulla base di una solida ricerca sui dati di fatto. Dicevo dell’anticonformismo di entrambi: sarebbe difficile misurare quanta consapevole sfida ci sia stata nella dublinese Constance nello sposare quel concittadino poco più grande di lei, già noto per le sue eccentricità, anche se nessuno in quel momento era ancora al corrente della sua omosessualità, forse neppure lo stesso Oscar. Perché questo è il punto: l’omosessualità è “una declinazione dell’esistente” (come sentii dire da Nico Naldini in un convegno su Pasolini) che si scopre un po’ alla volta. E sotto la pressione dell’ambiente sociale, soprattutto a quell’epoca, anche relativamente tardi, come sembrerebbe essere accaduto a Wilde. Omosessualità poi è un sostantivo che andrebbe volto al plurale: ci sono le omosessualità, non una sola. Quella di Wilde consisteva, probabilmente, in una forma di “pederastia” (termine ormai pressoché fuori uso) estrinsecantesi nel desiderio di “giovinetti” o “giovanotti” (anche queste sono espressioni alquanto desuete), finché finì col trovare quello fatale, “Bosie” Douglas.
Avrebbero magari potuto andare avanti in un discreto ménage à trois, i Wilde e Douglas – ma niente da fare: troppo dirompente la voglia di rottura con l’ambiente sociale da parte di Oscar. E qui si può osservare la distanza che separa lo scrittore irlandese da un altro celebre gay come André Gide (che, tra parentesi, ebbe modo di fare la sua conoscenza e di scrivere su di lui). Mentre Oscar arrivò a distruggere il matrimonio e la famiglia – e, soprattutto, ad autodistruggersi –, il più furbo e borghese André si sposò con una cugina che pose su un altare (con lei non ebbe mai il benché minimo rapporto sessuale), arrivando perfino, in tarda età, a prendersi un’amante al solo scopo di concepire con lei una figlia. Questo per dire della differenza tra le omosessualità anche sul piano dei diversi destini di alcuni dei loro più insigni paladini e grandi scrittori.
Oggi tutto ciò appartiene al passato. Nessuno più dovrebbe avere a soffrire, e neppure fare la vita del topo che si nasconde, perché gay. La questione è piuttosto: ora che la maledizione omosessuale è in via di completo superamento, esiste ancora una specificità della “condizione gay” (ai nostri tempi è perfino possibile essere gay e avere una prole per procura, grazie alla tecnica dell’“utero in affitto”, senza dover sottomettere una povera ragazza, attirata magari dalla notorietà del personaggio)? Si direbbe di no, e, per conseguenza, anche una letteratura improntata all’omosessualità – com’è quella di tanti scrittori amati o meno amati – ci appare ormai irrimediabilmente datata.
Resiste, al di là della tragedia personale che gli toccò di vivere, la figura di Wilde. La ragione è semplice: non si tratta solo dell’alto livello di opere come il De profundis, quanto piuttosto del ritorno del dandysmo come cifra, più o meno palese o latente, di qualsiasi impegno intellettuale. Chi intende sfidare oggi il sistema della comunicazione-informazione – con forme di intervento che, muovendosi tra più registri comunicativi, volessero nuovamente proporsi il compito di una libertà a trecentosessanta gradi, infischiandone delle convenzioni istituzionali – si trova a essere risospinto verso il dandysmo o lo snobismo (in questo contesto, i due termini possono essere assunti pressoché come sinonimi). Ho cercato di mostrarlo con un ardito paragone tra Wilde e Brecht, che compare nelle pagine finali di un mio saggio – Il destino dell’intellettuale, edito da Manifestolibri –, che si possono leggere anche qui, essendo apparse su “le parole e le cose” il 15 aprile 2013.
Molto curioso di saperne di più sulla Signora Wilde