di Romano Luperini

1.

Guido Guglielmi ha dedicato il saggio Una scienza del possibile alla resistenza della critica. Uscito sul «Verri» nel 1996, esso chiude ora  un volume leopardiano che ne riprende il titolo alquanto enigmatico, destinato a sorprendere il lettore (Guido Guglielmi, Una scienza del possibile. Studi su Leopardi e la modernità, a cura di N. Lorenzini,  Manni, San Cesario d Lecce, 2011). Non fa specie solo la seconda parte del sintagma che evoca un qualche «possibile», ma anche, e forse più, la prima: perché «scienza»? Il saggio muove infatti dalla risoluta negazione che la critica possa essere scienza. Vi si sente la forza di un dilemma gadameriano: verità e metodo, o meglio: verità  o metodo. Guglielmi, pur senza citarlo,  accetta la tesi di Gadamer. «La critica – scrive all’inizio del saggio – non è una scienza. Non è un metodo, governato da regole e procedure, da applicare alle opere. Altra cosa è, per esempio, la scienza della letteratura. La scienza è acronica, apersonale, onnicontestuale. La critica è storica, occasionale, mai neutrale. Si scrive in prima persona. E’ essa stessa un genere letterario». Il discorso è ripreso alla fine, con moto circolare consueto in Guglielmi saggista: «[La critica] comprende la scienza [e cioè «filologia, linguistica, semiotica ecc.»], ma è di natura completamente diversa. E’ una scienza del possibile». Quanto al concetto di «possibile», proprio in conclusione si legge: «Il dominio del presente ha oscurato l’orizzonte storico. La storia, per altro, intesa non metafisicamente, ma come orizzonte di possibilità, resta il rimosso della post-storia. Ed è al possibile che è interessata la critica». Per rispondere alla domanda “perché «scienza»?” e capire in cosa consista questa scienza-non scienza (una disciplina dunque che  si dà solo come contraddizione), è utile individuare intanto lo spazio di questa possibilità e il legame concettuale, non necessariamente esplicito, che Guglielmi istituisce fra le due parti del sintagma.

Guglielmi mette in scena la radicale estraneità fra arte e critica da un lato e modernità dall’altro. L’autonomia dell’arte è il debole risarcimento concesso alla sua  marginalità nell’epoca della scienza e della tecnologia. La nascita dell’estetica e la proclamazione dell’autonomia dell’arte indicano una loro «relazione negativa con il mondo». Sono il segno dell’avvenuta perdita di centralità da parte dell’arte, divenuta disorganica rispetto al contesto da cui pure nasce. In questa situazione la connessione fra significante e significato non è più «promessa», perché non è più pensabile il tempo del compimento. Benjaminianamente il moderno è l’età dell’allegoria, dello iato sempre più profondo fra il significante e un significato sempre più problematico e relativo. La cultura di consumo travolge nella insignificanza ogni messaggio, gli toglie spessore storico, lo uniforma al presente e alla lingua  della comunicazione. La resistenza dell’arte e della critica non si piega del tutto, ma viene comunque seriamente minacciata. Il conflitto non è annullato, ma reso irriconoscibile. Su questo margine esiguo la critica erige i suoi ultimi bastioni. Per questo – contro la tirannia dell’eterno presente – si interessa al possibile.

2

Il saggio è rigorosamente benjaminiano. In certi punti è addirittura una parafrasi di luoghi di Benjamin. Da un lato la critica è descrizione filologica e storica, indagine scientifica sul “contenuto di fatto” delle opere e loro mortificazione, dall’altro è elaborazione del loro contenuto attuale di verità, scommessa sul loro senso che nasce da una attribuzione allegorica del significato: «Parlando d’arte sempre il saggista parla d’altro», scrive Guglielmi. Dare senso è un evento della lettura, è la scintilla  che si sprigiona dalla combustione fra le prospettive storiche della cultura interpretante e quelle diversamente storiche della cultura interpretata. Il critico per scoprire il “contenuto di verità” delle opere «deve saper investirsi della propria condizione storica», deve cioè interpretare, insieme alle opere, il proprio tempo. La lettura critica è dunque l’incontro non semplicemente fra l’orizzonte del lettore e quello del testo, come voleva Gadamer, bensì fra due diverse culture. Come per Benjamin, anche per Guglielmi, il rapporto fra queste due operazioni – definizione del “contenuto di realtà” ed elaborazione del “contenuto di verità” – è di natura dialettica: fra l’uno e l’altro c’è una relazione stretta, anzi obbligata (è questo il “realismo” della interpretazione, si direbbe oggi che il realismo è tornato di moda: ma meglio sarebbe dire il “realismo” dell’allegoria), ma essa non implica affatto una deducibilità del secondo dal primo: dallo stesso commento possono derivare interpretazioni diverse. E infatti il proprio della critica, la sua specificità, ci avverte Guglielmi, sta particolarmente nella evidenziazione del contenuto attuale di verità. Per questo la sua forma è il saggio; e la sua procedura, adornianamente, è una metodica non metodicità.

Ma su un punto Benjamin non può più soccorrerci. E il punto riguarda un interrogativo posto dalla drammatica situazione attuale: come possa la critica resistere nell’epoca del trionfo dell’eterno presente e della invasiva unidimensionalità della cultura di consumo e di intrattenimento. Paradossalmente, però, per Guglielmi, dove non aiuta Benjamin, può soccorrere un grande pensatore vissuto all’inizio della modernità, Leopardi.

3

Il primo saggio inserito nel volume da cui abbiamo preso le mosse si intitola Negazioni leopardiane, e originariamente è uscito anch’esso sul «Verri», ma otto anni dopo quello appena considerato, nel 2002. Anche in questo caso il titolo è problematico. Perché «negazioni»? Infatti il saggio non ci parla solo di negazioni, ma anche di «possibilità». Ecco di nuovo questa parola, che compare alla fine di questo saggio come del precedente. Il fatto è che, proprio là dove scorge l’impossibilità della beatitudine, Leopardi «s’inventa dei potenti surrogati, nella impossibilità s’inventa la propria possibilità». Di nuovo la conclusione chiude il cerchio e rimanda all’inizio. Dove si leggeva che, preso atto della fine della immaginazione e dello sviluppo unilaterale dell’intelletto e della scienza, Leopardi ipotizza una possibilità: che l’arte dia vita a una immaginazione diversa da quella classica, una immaginazione interiorizzata, espressione del sentimento e  dell’animo. «Occorrerà ridare consistenza – osserva Guglielmi – all’errore della immaginazione, dopo averlo distrutto. E trasformare la disperazione in energia di disperazione». Energia di disperazione: la possibilità può nascere da questo sentimento. Attraverso la letteratura, e nonostante la sua crescente marginalità, secondo Leopardi è possibile fondare uno spazio antagonistico costruendo dei miti moderni, dei miti per un’età affrancata dal mito. Quando, arrivato alla fine della sua lettura del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, Leopardi sembra pervenuto al fondo del suo nichilismo, scatta una contraddizione vitale. Leopardi – scrive Guglielmi – «dà alla speranza la forma della non speranza»: «mentre approda al nichilismo, con lo stesso movimento se ne allontana». Sembra di rileggere De Sanctis quando osservava che più Leopardi distrugge le illusioni e le speranze, più ce le fa amare, più le ricrea. Per questo l’arte leopardiana e più in generale l’arte moderna è un’arte ironica. Afferma negando, nega affermando.

4.

Dunque Una scienza del possibile è un titolo ironico. Integralmente leopardiano. Nell’età della scienza non si può che essere scientifici. Non possiamo, scrive Guglielmi, prescindere dal dominio della cultura del consumo e della tecnologia, dalla prepotenza della loro coazione. Dunque non possiamo non accettarla, ma nello stesso tempo dobbiamo saperla negare. Si tratta di stare dentro a questo effetto di double bind impostoci dai tempi moderni. La critica nell’epoca della scienza non può che essere una scienza, ma lo sarà ironicamente. E non indicherà il certo, ma il possibile. Sarà una critica militante e cioè «appassionata e tendenziosa, in senso largo politica» (sono ancora parole di Guglielmi). Dovrà accettare il terreno dell’avversario per sfidarlo con l’ironia e riaprire così lo spazio del possibile in un orizzonte che vuole chiuderlo per sempre. La sua stessa esistenza  sarà un paradosso vitale. Esercitare la critica come una scommessa nell’epoca in cui l’arte e la critica vengono negate, raccontare delle narrazioni nell’epoca della loro impossibilità, ridonare senso, storicità. mito e destino quando destino, mito, storicità e senso sono diventati improbabili: in questo arte e critica sono alleate, e per questo resistono.

I due saggi, Negazioni leopardiane e Una scienza del possibile, sono complementari. Non sono uniti semplicemente dal fatto che il nome di Leopardi compare anche nel secondo (Leopardi vi viene citato, insieme a Vico e a Hegel, come teorico dell’incompatibilità organica fra arte e modernità), quanto perché è la lezione da lui appresa a percorrerlo dall’inizio alla fine. L’intelligenza della curatrice sta nell’averli posti rispettivamente ad apertura e a chiusura del volume. E anche questa metodica non metodicità, che ripete la misura saggistica del cerchio, è un lascito di Guido.

[Immagine: Guido Guglielmi. Foto di Giovanni Giovannetti (particolare)].

1 thought on “Guido Guglielmi e la resistenza della critica

  1. Mi piace notare come da una prospettiva non dissimile sia partita una mia breve riflessione sul medesimo libro, uscita sul ”Manifesto” lo scorso febbraio: la segnalo qui come contributo alla discussione e sperando di rendere un minimo servizio a un libro che ritengo fondamentale, soprattutto per le nuove generazioni, che si formano nella distanza ormai epocale di metodi e di linguaggio da un orizzonte culturale in cui la lettura di Benjamin, e del saggio sulle “Affinità elettive” cui fa riferimento la distinzione tra “contenuto di fatto” e “contenuto di verità” ripresa da Romano Luperini, fungeva da punto di partenza ineludibile per un discorso sull’attualità dei classici e sul loro “significato per noi”. Il mio pezzo si concentra maggiormente sulla teoresi leopardiana, ma credo di aver dato risalto, esattamente come Luperini, al ”metodo non metodico” e alla definizione della critica come ”scienza” (ambiguamente, ironicamente tale) ”del possibile”. Come le stesse scienze pure o esatte, del resto, da Heisenberg in poi.

    http://www.mannieditori.it/sites/default/files/manifesto%2024%20febbr%2012.PDF

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