di Gabriele Pedullà

 

[E’ uscito il mese scorso per Donzelli Editore Il Principe di Niccolò Machiavelli, in una nuova edizione annotata, con introduzione e commento di Gabriele Pedullà. Proponiamo un estratto dell’introduzione].

 

L’albero

 

Tutti coloro che nell’ultimo secolo hanno studiato lo stile di Machiavelli si sono trovati a riconoscere la sua tendenza a organizzare il discorso attorno a una serie di alternative secche (Luigi Russo, Federico Chabod, Fredi Chiappelli, Jean-Jacques Marchand): una vera e propria costante della sua prosa per cui si parla in genere di «procedimento dilemmatico». Agli occhi di Machiavelli la politica richiede scelte tempestive, ma raramente nelle sue opere le opzioni prese in considerazione sono più di due – con un netto scarto rispetto agli umanisti, che invece adottavano di preferenza la scansione ternaria caratteristica degli scritti morali e politici di Aristotele, dove a una aurea mediocritas, nel mezzo, si contrappone una coppia di eccessi altrettanto viziosi. Marchand, lo studioso che probabilmente ha indagato più in dettaglio questo modo di procedere, ha mostrato come già negli scritti cancellereschi Machiavelli imposti le questioni sempre attorno ad antitesi assolute, anche se talvolta i diversi bracci del ragionamento tendono poi a suddividersi a loro volta in ulteriori alternative binarie, in modo da seguire le conseguenze di ogni scelta sino al loro esito estremo (per queste costruzioni più articolate Marchand ha parlato di «schema multipolare propagginato»).

 

Si tratta di una caratteristica dello stile del Principe e dei Discorsi ormai ben nota e sulla quale, dopo tante ricerche, non resta molto da aggiungere, tanto evidente e diffusa essa appare nella prosa di Machiavelli, dalla prima giovinezza agli scritti della piena maturità. Gli storici della lingua che ne hanno descritto approfonditamente i tratti più caratteristici non si sono interessati però a ricostruire l’origine di tale «procedimento dilemmatico», lasciando intendere che esso dipenda dalla scarsa simpatia dell’autore per le soluzioni di compromesso. Secondo il loro approccio lo stile, semplicemente, non farebbe in questo caso che rivelare le inclinazioni più profonde e irriflesse dell’autore, senza che sulla questione ci sia bisogno di interrogarsi oltre. Uomo dei contrasti netti, Machiavelli si limiterebbe a esprimere sulla pagina una predilezione tutta personale per le antitesi che non ammettono mezze misure.

 

Tutto risolto, dunque? Le ricerche sui curricula pedagogici medievali e rinascimentali suggeriscono però che dietro alle alternative secche del Principe e dei Discorsi ci possa essere qualcosa in più di una semplice idiosincrasia. Al tempo di Machiavelli ogni studente principiante doveva confrontarsi anzitutto con le discipline del Trivio, muovendo dalla grammatica alla logica per approdare infine allo studio della retorica, e tra le varie tecniche alle quali le ultime due erano chiamate a familiarizzarlo già in tenera età c’era il metodo della divisio (chiamata anche distinctio o partitio). Con questo nome si alludeva al procedimento grazie al quale, attraverso l’individuazione di un carattere discriminante, un concetto più generale (chiamato genus) veniva scisso in una coppia di concetti antitetici di minore estensione (chiamati species o partes). Gli insegnanti assegnavano la massima importanza a tale tecnica dicotomica perché per mezzo di essa si diceva fosse possibile acquisire una conoscenza più dettagliata e precisa dei vari elementi costitutivi di qualsiasi genus, secondo un procedimento inaugurato da Platone nel Sofista ma che ancora all’inizio del Cinquecento era considerato il presupposto dell’attività dialettica, oltre che uno degli “attrezzi di base” dell’attività scientifica, per così dire propedeutico a qualsiasi studio superiore.

 

In Occidente il metodo della partitio era stato conosciuto soprattutto grazie a un breve trattato di logica di straordinaria fortuna: l’Isagoge di Porfirio di Tiro, filosofo neoplatonico vissuto nel III secolo d.C. Discepolo di Plotino, Porfirio aveva composto il suo opuscolo con l’intento di offrire ai lettori una concisa introduzione alle Categorie di Aristotele che mettesse in luce le affinità di quest’ultimo con il pensiero di Platone; per la sua estrema chiarezza l’opera aveva riscosso subito un incredibile successo, e nella traduzione latina di Boezio era venuto a formare il cuore della così detta Logica vetus, vale a dire della logica insegnata nelle scuole e nelle università di tutto il continente. Tra gli elementi di forza dell’Isagoge spiccava anzitutto un elementare schema esplicativo che sarebbe in seguito stato universalmente noto come arbor Porphyrii. Sottoponendo le iniziali distinctiones a ulteriori divisioni per produrre subdistinctiones sempre più dettagliate, Porfirio aveva mostrato infatti come fosse possibile tracciare una vera e propria mappa dell’Essere: dai concetti più universali ai più particolari, ovvero, per usare la sua terminologia, dal genus generalissimum alle species specialissimae o infimae, sino agli individui. Soprattutto, il suo albero poteva essere usato per disporre gerarchicamente qualsiasi tipo di oggetto, offrendosi come prezioso sussidio nelle più diverse operazioni concettuali. Per la sua riconosciuta utilità ancora al tempo di Machiavelli era dunque del tutto normale che i manuali di logica discutessero nelle prime pagine la distinctio per genera et species per poi affrontare solo dopo le questioni più complesse.

 

Massima duttilità; possibilità di articolare un gran numero di concetti senza rassegnarsi alla loro mera elencazione; sicura efficacia mnemonica grazie alle opposizioni binarie e alla struttura gerarchica… Non è difficile comprendere le ragioni del successo dell’albero che prende il nome da Porfirio. Così, persino quando nel XII secolo avevano ricominciato a circolare i testi dell’Organon aristotelico sino a quel momento sconosciuti in Occidente e il sillogismo era divenuto rapidamente il principale strumento di argomentazione filosofica, la tecnica della distinctio era rimasta saldamente al centro dell’insegnamento logico-retorico anche grazie alla speciale importanza a essa attribuita da Cicerone e da Quintiliano. Ai contemporanei di Machiavelli imparare a maneggiare correttamente l’albero di Porfirio appariva anzi così essenziale che la maggior parte dei manuali di avviamento allo studio del diritto allora in uso nelle università si apre con una succinta ricapitolazione del suo funzionamento a beneficio degli studenti provvisti di basi meno solide: quasi che senza di esso fosse impossibile accostarsi ai codici.

 

Bisogna insomma sbarazzarsi dei troppo facili automatismi con cui la storiografia ha a lungo associato Porfirio e i suoi insegnamenti alla filosofia medievale, della quale l’albero avrebbe costituito l’essenza più vera ma anche più caduca. In realtà invece, come si è visto, ci sono ottimi motivi per riconoscere come ancora all’inizio del Cinquecento la tecnica della distinctio fosse tutto meno che un vecchio arnese inservibile.

 

E Machiavelli? È inevitabile che, collocato su un simile sfondo, il suo «procedimento dilemmatico» assuma di colpo un significato diverso e che non possa essere più ridotto a mero fenomeno psicologico-stilistico.

Una precisa influenza dell’arbor Porphyrii appare con particolare chiarezza soprattutto nella struttura della prima metà del Principe, allorché due oggetti complessi – i principati e gli eserciti – vengono inquadrati in tutte le loro possibili articolazioni (e dunque definiti) applicando a essi proprio il metodo dialettico della partitio. Non è strano peraltro che si tratti delle sezioni del trattato per Lorenzo per cui Machiavelli disponeva di meno modelli negli specula precedenti. La costruzione ad albero consente infatti tanto di mettere ordine nel già noto (al livello di struttura del discorso, cioè di quella che si definiva correntemente la dispositio) quanto di elaborare ex nihilo concetti originali attraverso lo studio delle differenze specifiche (al livello di inventio, ovvero della elaborazione degli argomenti): ed e proprio questa seconda cosa che Machiavelli fa nel suo trattato. Tutta la sezione di apertura del Principe assume così la forma di un grande albero carico di rami e di foglie. Ai livelli più alti si incontrano i concetti «generali», che Machiavelli attinge senza difficolta dal pensiero politico precedente: gli stati si dividono in repubbliche e principati (I); i principati in principati ereditari (II) e nuovi (come aveva insegnato Egidio Colonna). Da qui in poi cominciano invece le classi originali: i principati nuovi possono essere distinti infatti in principati misti (III-V) e in principati interamente nuovi; i principati interamente nuovi in principati conseguiti per virtù o fortuna (VI, VII e XI) e in principati ottenuti con altri strumenti (VIIIIX-X); e così via, sino ai casi individuali (le “foglie”): la Francia e la Turchia, Francesco Sforza e Cesare Borgia, Agatocle e Oliverotto. Una perfetta applicazione dell’insegnamento di Porfirio.

 

La trasformazione dei metodi e dei programmi di insegnamento verificatasi un poco dappertutto in Europa nel corso del XIX secolo ha reso invece sempre più difficile da cogliere questo elemento per i lettori del Principe. Solo negli ultimissimi anni, così, alcuni studiosi hanno cominciato a rendersi conto dell’affinità tra la struttura di certe sezioni del trattato per Lorenzo e i metodi tassonomici degli antichi.

Si tratta di indicazioni preziose, anche se si limitano a sfiorare soltanto il vero problema. Il magistero di Porfirio non si manifesta unicamente nella scansione binaria di alcune parti del Principe, né può essere ridotta al rango di mero sussidio ai processi astrattivi con cui l’empirista Machiavelli estrarrebbe regole generali dagli esempi particolari. In gioco, qui, c’è qualcosa di enormemente più importante. Le costruzioni ad albero costituiscono infatti niente meno che l’ossatura concettuale del Principe, la legge segreta che ritma il movimento del pensiero dell’intero trattato: capitolo dopo capitolo e pagina dopo pagina.

 

Nel Principe, per prima cosa, gli alberi sono ovunque. Con la sola eccezione del IV e del XXVI, non c’è capitolo che non sia interamente o in parte rappresentabile attraverso uno o più schemi porfiriani. In tutto se ne contano una quarantina, dai più semplici (quando l’albero serve a definire i rapporti tra tre elementi soltanto) ai più complessi (quando entrano in gioco un gran numero di fattori diversi, e tutti e due i rami principali in cui il tronco si è biforcato all’inizio danno vita a loro volta a ulteriori propaggini). Basta insomma leggere con la dovuta attenzione, e il Principe assume la forma di una piccola foresta, ora più densa, ora più rada, a seconda delle diverse parti. Si tratta però, appunto, di andare alla ricerca delle articolazioni profonde del testo, che non sempre sono immediatamente visibili. Se nel capitolo I, a proposito dei tipi di principati, il ricorso alla lezione dell’Isagoge risulta evidente (e per questo e stata riconosciuta), più spesso l’organizzazione gerarchica degli argomenti e accennata così rapidamente che il lettore può farsela sfuggire. Alle volte, anzi, proprio questa rapidità ha reso problematica l’interpretazione di alcuni capitoli chiave come il IX, il XVIII e il XXV, dove per cogliere in maniera corretta il pensiero di Machiavelli e indispensabile seguire attentamente tutte le diramazioni e le sottodiramazioni del suo discorso, e basta mancare uno soltanto di questi snodi per trovarsi davanti a quelle che a prima vista sembrano aporie insolubili. Questo pero vuol dire pure che, una volta riconosciuti i debiti di Machiavelli verso il metodo della distinctio, il suo testo parla con più chiarezza di quanto non abbia mai fatto in passato: senza possibilità di fraintendimenti ulteriori. In questa prospettiva i numerosi diagrammi che accompagnano questa introduzione sono stati concepiti appositamente per aiutare i lettori a orientarsi passo dopo passo tra i rami del Principe anche quando il ragionamento procede in maniera ellittica o troppo veloce, mettendo in pericolo la stessa intelligenza del testo.

 

Una quarantina di alberi per ventiquattro capitoli. Se i numeri significano qualcosa, non ci vuole molto a concludere che senza di essi – semplicemente – non ci sarebbe il Principe, o che sarebbe molto diverso dal libro che oggi conosciamo. La tramatura logica del trattato ha però verosimilmente parecchio da rivelare anche sulla sua composizione. Steso di getto a partire da riflessioni e letture accumulate nel corso di un’intera vita, il Principe deve tanto al metodo della partitio perché, mentre scrive, Machiavelli ha fretta di concludere e le ramificazioni ad albero gli consentono di costruire in pochissimo tempo, per gemmazioni consecutive, il suo speculum a partire dalla manciata di spunti che, bisogna credere, costituiscono il nucleo (e la vera ragion d’essere) del suo «parere» per Lorenzo: i pericoli del principato nuovo, la necessita della milizia, il rapporto col popolo e coi «grandi», la diversa efficacia dell’amore e del timore, il peso della virtù e della fortuna. Biforcazione dopo biforcazione, i casi da prendere in considerazione aumentano, nuove ipotesi meritano di essere discusse, rispondendo a potenziali avversari e passando in rassegna esempi precedentemente trascurati senza per questo stravolgere la struttura complessiva. Il segreto della straordinaria densità e coesione del Principe va cercato probabilmente anche qui. E insomma sfruttando al meglio le potenzialità euristiche dell’albero che il Niccolò Machiavelli segretario della repubblica (che vanta all’attivo numerose esercitazioni letterarie ma verosimilmente non ha mai composto un testo in prosa più lungo di qualche dozzina di pagine) viene a tramutarsi in poche settimane nel teorico politico Niccolò Machiavelli, autore di uno dei libri più famosi dell’intera tradizione occidentale.

 

Buon discepolo di Porfirio, Machiavelli rischia di apparire assai più tradizionale nei suoi strumenti di quanto la storiografia non abbia sin qui voluto ammettere. Si tratterebbe però di una conclusione affrettata. È sufficiente infatti addentrarsi un poco negli alberi del Principe per rendersi facilmente conto di come la lezione dell’Isagoge vi sia applicata in maniera talmente originale da risultare alla fine quasi irriconoscibile. Porfirio e i suoi discepoli medievali adoperavano la distinctio per definire i diversi enti e le loro caratteristiche attraverso i rapporti di coappartenenza e di esclusione con altri enti (per fare un esempio semplice, nell’uomo la razionalità risulta tratto essenziale perché e essa che lo distingue dagli animali con cui condivide invece la dimensione appetitiva). Occasionalmente anche Machiavelli fa lo stesso, elaborando pure lui elaborate tassonomie (come si è visto a proposito dei principati discussi nei capitoli I-XI); nella grande maggioranza dei casi, però, il Principe presenta al lettore qualcosa di assai diverso: non la trama dell’Essere (o di una particolare branca dell’Essere, come nel caso, poniamo, delle tipologie dei cardinali elettori presentati nel capitolo VII), ma una trama degli infiniti possibili. Il procedimento diadico – per cui A si biforca in B1 e B2, quest’ultimo si separa in C1 e in C2, il quale dà vita a sua volta a una nuova alternativa D1 e D2, e così via – viene ora infatti adoperato prevalentemente da Machiavelli per seguire le ramificazioni degli effetti (e degli effetti degli effetti) di ciascuna scelta, inesorabilmente. La lezione dell’Isagoge aiuta in altre parole Machiavelli a soppesare le varie alternative disponibili, così da calcolare meglio, e con opportuno anticipo, l’esito delle proprie azioni. In ogni caso, qualcosa di completamente diverso da quello che aveva fatto sino a questo momento la tradizione platonico-aristotelica messa a frutto da Cicerone e Quintiliano nei loro scritti di retorica e mirabilmente sintetizzata da Porfirio.

 

Machiavelli ragiona da scacchista. Posto davanti a un’alternativa, si tratta di soppesare il risultato di ciascuna delle diverse opzioni, e possibilmente di anticipare gli avversari di una o di due mosse, non dimenticando mai che grandi mali o grandi beni possono derivare da atti che a un primo sguardo sembrerebbero promettere risultati opposti (come si legge in una sua lettera a Vettori del 20 dicembre 1514: «Quando la fortuna ci vuole cacciare, la ci mette innanzi utilità o presente timore, o l’uno e l’altro insieme»). La prudenza politica consiste nella capacità di antivedere l’esito finale delle diverse risoluzioni, ed è proprio qui che l’albero di Porfirio si rivela tanto prezioso per mettere ordine nel caos attraverso una rigorosa logica binaria (più raramente ternaria). Semplicemente, grazie al metodo della divisio si vede, e dunque si decide, meglio. Nelle mani di Machiavelli l’albero cambia dunque funzione, e da strumento per suddividere i più diversi oggetti in classi e sottoclassi si fa tecnica di orientamento.

 

A dire il vero, molti degli schemi del Principe sono talmente semplici che rischiano di passare inosservati, in particolare quando Machiavelli sviluppa un unico ramo della coppia iniziale e lo segue soltanto per uno o due passaggi. Poiché pero ogni albero e potenzialmente estendibile all’infinito, con nuove alternative che germogliano dalle precedenti non mancano i capitoli in cui gli alberi sono chiamati a fare luce su questioni estremamente elaborate, come le azioni da compiere al momento della conquista di una nuova provincia (nel capitolo V), il comportamento da tenere con un comandante di ventura potenzialmente infedele (nel capitolo XII), la tendenza della liberalitas e della pietas a produrre – in maniera perversa – effetti contrari a quelli che ci si aspetterebbe dal loro esercizio (nei capitoli XVI e XVII), i modi di prevenire le congiure (nel capitolo XIX), i vantaggi e i pericoli della neutralità (nel capitolo XXI), o il peso della fortuna nelle vicende umane (nel capitolo XXV). Qui, allorché la trama si infittisce, il Porfirio di Machiavelli dà il meglio di sé. Di colpo le nubi si dissolvono, ciò che prima appariva imponderabile può essere valutato, le opzioni davvero percorribili si stagliano finalmente con la necessaria chiarezza – tutto grazie all’arte della distinzione. Esattamente quanto, in un contesto diverso, aveva promesso ai suoi lettori Quintiliano: «Chi dividerà bene non potrà mai sbagliarsi nell’ordine degli elementi» (Institutio oratoria XI.2). Anche se, come si è visto, per Machiavelli ormai non si tratta più tanto di classificare un universo di sostanze e forme, quanto di tracciare la mappa del labirinto dei possibili.

 

Sei esempi di alberi

 

 

Ispirato al metodo platonico della diairesis (cosi come viene illustrato nel Sofista), e conosciuto attraverso il commento di Porfirio alle Categorie di Aristotele e attraverso Boezio (ma anche grazie alla teoria retorica di Cicerone e di Quintiliano), l’albero che prende il nome dal filosofo neoplatonico aveva goduto di straordinaria fortuna nella filosofia medievale e offre anche a Machiavelli uno strumento malleabile per organizzare la propria materia e dare rapidamente forma a nuovi concetti. Rispetto agli autori precedenti, Machiavelli userà la struttura ad albero soprattutto per analizzare le alternative davanti alle quali si trova un politico in un determinato momento.

 

Uno degli aspetti più originali del Principe rispetto alla tradizione degli specula e delle institutiones e la classificazione delle forme di governo annunciata in apertura dell’opera. Seguendo la lezione di Porfirio, Machiavelli procede per insiemi e sottoinsiemi sempre piu piccoli, ovvero – secondo il linguaggio della scienza e della filosofia universitaria – per genera et species. Un modello di organizzazione della realtà assolutamente comune al suo tempo viene in tal modo applicato con successo a un problema del tutto inedito: a certificare la pervasività, ma anche la duttilità, del metodo della distinctio e della divisio ancora all’inizio del XVI secolo.

 

Nel Principe «necessità» rima sempre con «crudeltà»: solo misure eccezionali consentono di superare i momenti più difficili. Ma quando la necessita e passata? Anche se l’accenno di Machiavelli alla possibilità di «avere qualche rimedio» agli occhi di Dio e degli uomini e così rapido da apparire ellittico, svolgendolo appena si identificano chiaramente quattro esiti finali. Non ubbidire alla necessita vuol dire condannarsi alla sconfitta immediata: di gran lunga la scelta peggiore (– – –). Come ebbe a commentare Francis Bacon, proprio relativamente alla lezione di Machiavelli: ci sono individui ai quali si adatta il vecchio proverbio italiano (da lui citato in lingua originale) «Tanto buono che val niente», e un politico paralizzato dai troppi scrupoli morali e religiosi sarebbe chiaramente uno di loro (Saggi XIII). Pure quanti accettano di violare la giustizia in nome della necessita non formano però per Machiavelli un’unica categoria di principi. C’è anzitutto chi continua a compiere le stesse azioni crudeli anche una volta superata la fase dell’emergenza, e che per questa strada potrà forse ritardare la crisi inevitabile del proprio «imperio» (anche se non evitarla, dato che, come Machiavelli ribadirà anche nel capitolo XIX, il ricorso indiscriminato alla violenza alla lunga indebolisce la posizione di un principe), ma non raggiungerà mai la vera «gloria» e (dalla prospettiva di un credente) si condannerà alla dannazione eterna (– – +). Accanto a lui ci sono infine coloro che, passata la necessita, si preoccupano di procurare «quanta più utilità de’ sudditi che si può» e che per questo motivo possono sperare di porre rimedio al proprio «stato». Tale esito – la «gloria» e la salvezza dell’anima dopo le iniziali «crudeltà» – non e pero garantito in anticipo a nessuno, e un principe nuovo può tutt’al più augurarsi di avere il tempo e le opportunità di riscattare le violenze che inevitabilmente accompagnano ogni presa di potere e ogni fondazione di uno stato (– + + oppure + + +).

 

 

 

Riconoscere la struttura ad albero del capitolo IX permette di risolvere alcuni problemi interpretativi che hanno a lungo impegnato gli studiosi. Secondo il meccanismo consueto, Machiavelli approfondisce ogni volta una soltanto delle due alternative che ha presentato, sino a mettere a fuoco per esclusione il caso particolare che lo interessa: in questo capitolo IX un principato civile filo-popolare retto direttamente dal signore informale della città, così da metterlo in condizione di accentrare tutti i poteri se costretto a fare ricorso a strumenti eccezionali da un’imprevista situazione di emergenza. Il fatto che Machiavelli non discuta gli assetti del principato civile filo-aristocratico non significa affatto che anche esso non possa articolarsi al suo interno secondo le stesse alternative del principato civile filo-popolare (amministrato direttamente o indirettamente), ma solo che, una volta dimostrata l’inaffidabilità dei «grandi», non serve procedere oltre nell’analisi dei sotto-tipi di questa forma di governo. Se nell’autunno del 1513 il governo di Lorenzo a Firenze poteva caratterizzarsi come un principato civile, Machiavelli cerca di spostarlo dal ramo all’estrema sinistra (principato civile filo-aristocratico) a quello sull’estrema destra (principato civile filo-popolare retto direttamente dal signore informale della città).

 

Lungo tutto il Principe Machiavelli non smette di ripetere che l’efficacia delle più diverse azioni dipende dal momento in cui esse vengono compiute. Proprio la «liberalità» costituisce un ottimo esempio di questo principio: indispensabile in una campagna di conquista (quando si alimenta dei beni sottratti agli avversari sconfitti), altrettanto inevitabile quando si ambisce al principato in una libera repubblica, essa deve invece essere abbandonata non appena si e raggiunto quest’ultimo in modo da evitare che, rapidamente esauritesi le ricchezze, l’eccessiva generosità si rovesci nel suo contrario.

 

Per intendere correttamente il ragionamento di Machiavelli sulla fortuna e indispensabile riconoscere la struttura ad albero del capitolo XXV. Infatti, soltanto dopo aver distinto – rapidamente ma inequivocabilmente – i principi che si affidano unicamente alla fortuna da quelli che pianificano le proprie strategie e preparano in anticipo le difese contro gli imprevisti, Machiavelli loda l’irruenza degli audaci. Da questo punto di vista la conclusione del capitolo va letta come un elogio dell’azzardo dei principi calcolatori, che si sono preparati per tempo e poi hanno deciso di osare, non come un’apologia degli slanci generosi o come il riconoscimento della fondamentale irrazionalità della politica (secondo quella che e stata, ed e ancora, la lettura prevalente). Per quanto dunque, nella tradizione aristotelica, l’impeto sia uno dei caratteri attribuiti tradizionalmente ai fortunati, il tipo del principe ardimentoso di Machiavelli, che piega la Fortuna con le sue mosse decise, e tutto meno che un politico abituato a fare affidamento sulla propria buona sorte piuttosto che sulla propria capacità di previsione e progettazione.

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