[In occasione del centenario della morte di Guido Gozzano, a complemento dell’intervento di Elena Santagata, riprendiamo un capitolo di Vite negate (FVE Edizioni 2021) di Franco Buffoni]

 

Non mi è facile parlare della vita di Guido Gozzano come di una vita negata secondo i parametri di questo libro. Stando ai manuali, la sua vita fu “negata” dalla tisi, che lo uccise a trentuno anni, impedendogli di coronare il sogno d’amore con Amalia Guglielminetti.

La biografia di Gozzano è dunque trasparente, risolta, oppure occorre ripulirla da una secolare patina di neutro grigiore eterosessuale?

Ricordo che in seconda media un timido supplente – che per qualche settimana si limitò a leggere in classe le poesie più celebri – mi diede la chiave d’accesso, non solo al mondo di Gozzano ma anche al suo orientamento sessuale: tutto sotto pelle e sotto traccia, ovviamente, nulla di esplicito, solo quella voce gentile e piuttosto effeminata che nel 1960 leggeva La signorina Felicita. Allora Gozzano era morto da quarant’anni. Poi crebbi e mi interessai maggiormente alla signorina Richmond. Ma la mostruosa abilità versificatoria gozzaniana a sostegno d’una poetica intensa e originale si era ormai radicata nella mia crescita.

Oggi, a più di un secolo dalla morte, il dato nuovo che ha rimesso in moto la mia curiosità nei confronti di Gozzano è costituito dalla ferrea determinazione del poeta nel costruirsi una ben precisa immagine pubblica, pur mantenendo l’apparenza esteriore svagata del dandy.

Ossuto, gentile, pallido, raffinato, dai modi affabili ma contratti, facile agli scatti di nervi. Così appariva Gozzano ai contemporanei nel primo lustro del Novecento, quando pubblicava recensioni firmandosi g.g.g.: Guido Gustavo Gozzano. Ma anche versi, naturalmente: i primi che si ricordino li aveva dedicati all’amico Ettore Colla già nel 1897, all’età di quattordici anni.

Dieci anni dopo l’amico del cuore è Carlo Vallini. Tra gli autografi gozzaniani si è conservata la versione definitiva manoscritta di La via del rifugio, recante sul frontespizio la seguente dedica: “A Carlo Vallini, con la stessa sua fraterna malinconia, Guido Gozzano”. Sotto è segnata la data del 16 marzo 1907. Saremmo dunque nel periodo del massimo trasporto amoroso per Amalia Guglielminetti.

Il libro apparve meno di un mese dopo presso l’editore Streglio, grazie al finanziamento della nobile madre di Guido, Diodata Mautino. In quelle poche settimane, dalla stesura manoscritta, pronta per la stampa, oltre alla dedica furono espunti ben dieci componimenti. Il che dimostra un grande senso critico, e per l’appunto una forte attenzione da parte di Gozzano all’immagine complessiva che avrebbe proiettato di sé come artista e come uomo. L’obiettivo apertamente dichiarato era di eliminare quanto di dannunziano ancora faceva capolino tra i suoi versi. Espungendo anche la dedica a Vallini che cosa si proponeva (o si imponeva) Guido?

La via del rifugio fu bene accolto e presto si cominciò a parlare di ristampa. La lettera con cui in luglio Gozzano affida a Vallini l’incarico di seguire concretamente tutte le fasi della ristampa, oltre a porre in luce nuovamente il legame tra i due, dimostra che la strenua attenzione alla propria immagine pubblica sta ormai prendendo il sopravvento in Guido: “Pèrora – ordina Guido a Carlo – perché sulla copertina e sui fogli d’annuncio ci sia terza invece che seconda edizione. È meglio assai e la mia dignità non è compromessa. Rifiuta ancora una volta, la prefazione e i soffietti a mosaico. Fa che le 50 copie mi siano date subito e digli che queste copie le disseminerò in Isvizzera dove andrò fra poco e vi farò grande réclame”.

Un atteggiamento – che potremmo definire “nobile-legale” (nobile per appartenenza familiare; legale per via degli studi di giurisprudenza: si mente, persino sulle ristampe, se la menzogna è utile) – di attenzione maniacale all’immagine, che l’anno successivo Guido confermerà inequivocabilmente, rifiutando all’editore Treves di procedere con un’ulteriore edizione accresciuta (con ben altra tiratura e diffusione) della Via del rifugio. Il timore di Guido venticinquenne era che l’uscita del libro con Treves avrebbe potuto – in cambio di qualche guadagno – sporcare la sua immagine di autore raffinato e d’élite (Treves era l’editore di D’Annunzio), proprio nel periodo in cui andava concependo la svolta fondamentale nella sua poetica: quella che in breve lo avrebbe portato a pubblicare Le farfalle e a concepire L’AssenzaCocotte e L’ipotesi (prima versione di La Signorina Felicita).

Gozzano ormai sa che avrà vita breve per via della tubercolosi. Ma proprio per questo è ferrea la determinazione a sversare sul pubblico un’immagine cristallina di sé: una signora incombe, lo sta aspettando, e gli impedisce di amare come vorrebbe un’altra più concreta e terrena signora: “Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia / se già la Signora vestita di nulla, non fosse per via…/ E penso pur quale Signora m’avrei dalla sorte per moglie, / se quella tutt’altra Signora non già s’affacciasse alle soglie”. Signora Morte e Signora Amalia: la triangolazione con Guido è perfetta. E la “giustificazione” per un secolo di grigiore accademico eterosessuale è confezionata.

Amalia Guglielminetti, di due anni maggiore di Gozzano, fu un’autodidatta in poesia e suscitò scandalo nel primo decennio del Novecento per la sua spiccata predilezione per le tematiche intimistico-sentimental-sensuali, all’epoca impensabili se espresse da una donna. Fu in seguito alla pubblicazione delle Vergini folli, nel 1907, che ebbe inizio un intenso scambio epistolare con Guido. Il quale, con l’acume interpretativo che lo distingueva, colse subito nel libro il tratto fondamentale di un’indagine sfrontata sulle verginità insoddisfatte delle malmonacate, e vi si tuffò con genuino entusiasmo sia per la tematica stuzzicante in sé, sia perché proveniente da una donna sensuale e coraggiosa.

Per la mentalità del secolo scorso il carteggio Gozzano-Guglielminetti manifestava l’esistenza d’una peccaminosa liaison tra i due poeti. Lette con l’occhio di questo secolo e alla luce delle conoscenze ormai acquisite su Gozzano, tali lettere dimostrano essenzialmente due cose:

 

a) l’estrema determinazione della bellissima Amalia ad emergere dall’anonimato e a reggere lo scandalo, grazie anche al “legame” con Guido, appartenente a una classe sociale ben superiore alla sua;

b) la paura di Gozzano di dover trascorrere dalla “teoria” alla pratica d’una relazione carnale che non aveva alcuna intenzione, né possibilità, di intrattenere con Amalia.

 

Poiché quest’ultimo dato era già palese anche nel secolo scorso, il neutro accademico eterosessuale attribuì la ritrosia di Guido alla malattia che lo avrebbe ucciso nove anni dopo.

Amalia interpretò il rifiuto di Guido a modo suo, e in un articolo intitolato Aridità sentimentale, apparso sul quotidiano “La Stampa” l’11 luglio del 1912, si scagliò contro i “giovani vati contemporanei” torinesi, cioè contro Gozzano e i suoi amici (in particolare Carlo Vallini), capaci soltanto di manifestazioni di mascolinità non virile. E nel canzoniere L’insonne, apparso a Milano nel 1913, Amalia reitera l’attacco esaltando la bellezza dell’amore che non scambia i ruoli tra uomo e donna. Tenendo tuttavia per sé, almeno come potentia, la chance di incarnare entrambi i ruoli, concedendosi la libertà di giostrarsi tra amori saffici e legami eterosessuali.

Anche qui due considerazioni a margine: la prima riguardante la disinvoltura di Amalia nel trattare tematiche “scottanti”. Occorre ricordare che siamo nel decennio più libero e laico che l’Italia abbia mai conosciuto. La guerra incombente e poi il fascismo (in particolare il fascismo concordatario) avrebbero presto soffocato ogni istanza anticonformistica.

La seconda considerazione concerne Carlo Vallini, ma anche un altro amico intimo di Gozzano, Giulio Gianelli: entrambi omosessuali dichiarati, liberi e disinvolti in quella Torino decadente e blasée.

Ha senso a questo punto citare un passo da una lettera di Guido Gozzano dal sanatorio a Carlo Vallini: “Colomba! eccomi ai tuoi piedi, anima mia, non per farti un pompino – mi sarebbe impossibile, perché ho la maschera inalatrice – ma per dirti che le cose vanno meglio…”.

Aveva forse capito tutto di Guido, Vincenzo Cardarelli, che nel 1911 quando apparvero da Treves I colloqui, pubblicò su l’”Avanti!” un pezzo intitolato “L’arte di fingersi”. Ricordiamo che all’epoca Guido si definisce anche “avvocato”, pur non avendo mai conseguito la laurea, e che non può più permettersi d’essere schizzinoso con l’editore “commerciale” Treves, dato il forte declino economico della famiglia.

Interessante – con riferimento a questa nuova uscita di Gozzano – rilevare l’acume critico di Giuseppe Antonio Borgese (del quale ci siamo occupati nel precedente capitolo), che sul “Corriere della Sera” subito si produsse in un’approfondita disamina stilistica del capolavoro gozzaniano. Con Guido sempre attentissimo a non mettere il piede in fallo pubblicamente. Fino alla distruzione di gran parte dei “canti” composti durante il viaggio in nave verso Bombay e Ceylon nel 1912, ritenuti – al ritorno, per certe “mollezze” levantine – troppo disinvolti e compromettenti. Fino a rispondere con disinvoltura a una fatua inchiesta del periodico “La donna” sul suo tipo ideale di bellezza femminile.

Se un paragone a questo punto è lecito azzardare, è col contemporaneo Rodolfo Valentino, anch’egli omosessuale, anch’egli idolo delle donne. “La sua poesia ha fatto fortuna presso le signore di tutta Italia”, si scrisse di Guido, con una punta di acredine, su “Il Giornale del mattino” nel 1914, aggiungendo che il poeta “era carino come un bibelot di antico gusto settecentesco, cincischiato e velato di tinte evanescenti”.

Negli ultimi decenni qualche critico ha adombrato la verità sull’orientamento sessuale di Guido (Niva Lorenzini accenna a “una latente omosessualità di cui la vicenda umana di Gozzano offre vari indizi”); e mi sarei fermato qui, alla confessione schermata di continua menzogna (“e vedevo Pinocchio, e il mio destino”), se un brillante dottorando – Francesco Ottonello – recentemente non mi avesse messo la pulce nell’orecchio con un intrigante riscontro testuale.

Nei Colloqui infatti appare il verso “ma un più sereno e maschio sollazzarsi”, in un contesto di amore carnale apparentemente eterosessuale, se riferito alle “cameriste”. Maschio sollazzarsi come sfoggio di virilità, o sotto c’è qualcosa di criptato? Il dettaglio non da poco scoperto da Ottonello è che la stessa espressione “maschio sollazzarsi” appare nel commento di Domenico De Robertis al sonetto di Lapo Farinata degli Uberti, che risponde alla ballata di Cavalcanti “In un boschetto trova’ pasturella” (XLVI). La poesia di Lapo parla chiaro ed è divertentissima. Lapo si rivolge infatti direttamente a Cavalcanti, invitandolo (scherzosamente?) a non mentire: “quando dicesti pasturella / vorre’ ch’avessi dett’ un bel pastore”. Molte espressioni qui contengono un chiaro doppio senso: si potrebbe parlare di motivi omoerotici velati (ma nemmeno troppo): “verghett’ avea piacente e bella”, “un valletto / che cavalcava ed era biondetto / ed avea li suo’ panni corterelli”.

Due considerazioni a margine: la prima, che il verso “ma un più sereno e maschio sollazzarsi” non entra certo casualmente nella poesia di Gozzano; la seconda, che D’Arco Silvio Avalle cita il commento di De Robertis proprio nello studio in cui tratta dell’amore omoerotico nella poesia del Medioevo.

Pensiamo dunque a Guido che maliziosamente legge a Carlo e a Giulio i versi di Lapo, intercalandoli ai propri, mentre in un altro angolo di Piemonte Amalia crede finalmente di aver trovato nello scrittore di consumo Pitigrilli il “vero” uomo adatto a sé stessa e ai tempi nuovi.

3 thoughts on “Il maschio sollazzarsi di Gozzano

  1. Possiedo una prima copia che mi fu ceduta da una persona gradevolissima, è rinchiusa al buio, ora è il momento giusto per rileggere parole che mi sono dimenticato!

  2. Nelle splendide poesie di Gozzano
    si percepisce una evidente misoginia velata di ironia . La signorina Felicità è il ritratto impietoso di una giovane donna vittima dei costumi di quel tempo e, per sua sfortuna, attratta dal giovane Guido. Non è difficile immaginare, di fronte a certi atteggiamenti del poeta, l’esistenza di una più o meno latente omosessualità abilmente coperta da un linguaggio poetico fintamente benevolo.

  3. Non amo che le rose che non colsi…I versi di Guido mi ricordano l’infanzia…unici, nostalgici, dolcemente eloquenti come per me son sempre state e sempre saranno “Le buone cose…di pessimo gusto…”/

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