di Mario Pezzella
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La Capria diceva di appartenere all’ultima generazione che ha visto la terra «come è sempre stata per millenni»[1], prima della rivoluzione industriale o per lo meno prima che questa cominciasse a far sentire i suoi effetti in modo totalizzante, l’ultima che ha potuto confrontarla con la sua condizione presente, malata e disanimata. Non declina solo la bellezza dei paesaggi e delle città, ma la possibilità stessa di percepirla, perché – anche se ne trovasse una traccia – «una specie di infelicità si frappone tra lei e lo sguardo del visitatore»[2], ci accompagna il sapere della sua prossima scomparsa e dell’incrinatura che la minaccia internamente: «Il paesaggio se ne sta lì semplicemente, muto, non ci parla»[3].
In Capri e non più Capri, La Capria racconta un suo viaggio nella costiera amalfitana; dall’alto della strada il mare e i paesi sembrano apparentemente intatti, ma avvicinandosi si avvertono i segni sensibili di «un disfacimento diffuso, capillare, ostinato, meticoloso»[4], un disincanto che annebbia la percezione, dissolve la memoria, ma col ricordo di ciò che erano un tempo quei luoghi cade una parte di sé, la continuità tra il passato e il futuro, la possibilità di tramandare ad altri quell’esperienza.
Divento un diserede.
Quei luoghi «non erano più parte di me…mi venivano incontro disanimati e diversi…Tutti gli dèi che una volta li abitavano li avevano silenziosamente abbandonati»[5].
Il degrado della natura si accompagna a quello antropologico, perché i luoghi della così detta bellezza del Sud sono invasi da gruppi e carovane «di ceffi coperti di ciaffi, tristi figuri, facce patibolari, facce postribolari, facce ‘piene di voglie e vuote di significato’, perduto ogni costume, perduto ogni ritegno», «facce di iena, facce di murena, facce di leone, facce di lemure, di iguana, di gorilla, di faina», facce di camorristi e speculatori privi di ogni cultura. In La Capria riaffiora ogni tanto l’indignazione che lo ha spinto a scrivere la sceneggiatura di Mani sulla città, per quanto possa provare nostalgia per quei «nomi che furono di luoghi» e ora sono «non luoghi spettrali»[6].
L’immagine della “mosca nella bottiglia” che da il titolo a un libro di La Capria deriva da Wittgenstein. Noi non possiamo che vedere il mondo attraverso il vetro della bottiglia in cui siamo e dalla posizione in cui si trova: anche quando ne contorniamo i confini e perfino quando tentiamo di uscirne, come auspicato da Wittgenstein, sempre da questa visione partiamo (che è linguaggio, assetto familiare, ordine simbolico). Le categorie che usiamo provengono esse pure dall’interno della bottiglia, anche quando non vogliamo rassegnarci a stare chiusi dentro di essa. Così pur cercando disperatamente di uscire dal mondo della vita in cui siamo, non possiamo farlo che partendo dal suo regime di desiderio, di potere, di produzione. Non esiste, di per sé, per noi un punto di vista esterno a quello della bottiglia, e per uscirne possiamo solo percorrerne i bordi fino all’imboccatura: «Insomma immaginare qual è la forma della bottiglia in cui siamo imbottigliati è altrettanto difficile che indovinare la forma di un sottomarino…standoci dentro. Chi ci sta dentro, quando il sottomarino naviga sott’acqua, vede solo un labirinto di tubi contorti», un groviglio di strumenti particolari e di frantumi da cui è molto difficile immaginare la sua forma totale»[7].
Da tre bottiglie si deve cercare di uscire: quella del luogo e della mentalità (che nel suo caso sono quelli della borghesia partenopea e della sua “napolitudine”), quella del linguaggio, che come un ordine simbolico invisibile determina ciò che può essere dicibile o non dicibile in un tempo storico, e quella dell’ideologia che si irrigidisce di fronte alla mutabilità del reale (quanto a quest’ultima va detto che è per noi divenuta una bottiglia assai vuota, da molto, e quasi non esiste più, almeno come pensiero consapevole, le manipolazioni trascorrono in modo immaginario e inavvertito).
In una intervista a Paolo Virno[8] La Capria usa l’immagine nell’ambito della letteratura. Qui la bottiglia da cui uscire è quella critica letteraria che vede nel “progresso” da avanguardia ad avanguardia il senso stesso della cultura del ‘900, verso una sempre maggiore astrazione, o frantumazione del linguaggio, o deperimento del significato rispetto al significante. Non che La Capria voglia negare l’importanza dell’avanguardia storica, che ha avuto un ruolo fondamentale nella sua formazione; ma il suo percorso è giunto all’estremo. «Di questa possibilità tengo conto quando immagino la mia anatra risalire all’incontrario, dalla foce verso la sorgente, il grande fiume del Novecento. Si allontana dalla nebbiolina dell’estuario, ri-vede e ri-sente autori e paesaggi già noti, ma in ordine inverso, e quindi cogliendo aspetti che, all’andata, le erano sfuggiti. Questo è un buon ri-sentire, non quello incattivito con cui polemizzo. È un ri-sentire che chiamo “recupero redentivo”».
Nel risalire il vento o nel recupero redentivo, La Capria cerca di indicare (e di praticare) una forma inedita e alternativa rispetto alla polarità fra astrazione o figura, narratività espansa e tradizionale o sperimentalismo linguistico, proponendo figure e sintassi in metamorfosi, sempre in bilico tra nascita e morire, in un moto incessante tra venire e svanire: colte nel loro trascorrere. Come ha scritto Silvio Perrella, «una volta sperimentata la tecnica compositiva per tasselli mobili, il gioco ad incastro dei pezzi che suscitano un’immagine in continuo movimento e metamorfosi…– la ‘bella confusione’ di cui parlava Flaiano a proposito della Dolce vita di Fellini – La Capria non farà altro che approfondirla e variarla…»[9].
È questo tipo di scrittura che viene proposta nei bellissimi saggi dedicati da La Capria a Parise, ai Sillabari in particolare, percorsi da un «elemento germinale che conferisce l’energia e quel che di transeunte, di fluttuante, a ognuno di questi racconti, quel loro esserci che poteva anche non essere, quella casualità che li ha fermati nella pulsione del tempo, tutto questo – però non li rende per nulla evanescenti. Sono invece concisi e precisi…»[10].Questa scrittura sarebbe impensabile se non come il punto d’approdo di chi ha attraversato l’esperienza novecentesca, e ora può in certo senso ricomporne i frammenti, sapendo però che quella frammentazione c’è stata, esiste, è irreversibile e nessun restauro o gioco postmoderno potrà mai negarla o renderla inesistente. È una scrittura in cui un trauma profondo cerca di trovare una forma, senza ridursi al silenzio e senza tradire la sua profondità.
La “semplicità non ingenua” viene dopo l’esperienza delle avanguardie: «Se non avessi conosciuto da vicino, e frequentato a lungo, la tradizione del Novecento, il rifiuto non avrebbe valore alcuno. Nel rifiuto c’è pur sempre il ricordo di un rapporto, di un cammino percorso. Ma alla fine di questo cammino, avverto una stanchezza. Voglio prendere le distanze dal secolo della divisione, dal secolo dello specchio, del labirinto, della frantumazione. Abbiamo innumerevoli cocci a nostra disposizione. Eliot diceva “Non possiamo darti che degli sparsi frantumi su cui batte il sole”. Ecco, questi sparsi frantumi, invece di celebrarli con deferenza, vorrei farli combaciare, ricomporli, con la fatica inappariscente delle zampette dell’anatra. Non ci riuscirò, certo. Ma questa è la mia tendenza, il mio desiderio, la mia nostalgia»[11].
È esistita davvero un’epoca in cui il mare di Capri era «tempestato di liquide gemme splendenti…blu venati di verde, i rosa e gli azzurri irrequieti, i celeste acquamarina appariscenti, i cobalti smaltati, i densi lapislazzuli intarsiati…»[12]? Non potrò certo mai saperlo, negli anni quaranta del ‘900 non c’ero, mentre ricordo benissimo le chiazze oleose a partire dagli anni ’60, dopo il boom economico. Ed è mai esistita «una Napoli capitale, luogo privilegiato dello spirito e ‘Impero dell’Armonia’»?[13]. Quel che è certo è che nell’immaginazione di La Capria domina come un archetipo la ricerca-di-un’armonia-perduta, che si tratti della sua vita personale, della storia della città, o addirittura della civiltà mediterranea e dell’Occidente: «Proprio come gli individui, i popoli sognano, e questi sogni a volte li scatenano, a volte invece li immobilizzano e li tengono prigionieri di un’illusione»[14].
Questa ricerca incessante nasce da un sentimento tragico: «Finito il racconto la vita continua, continuerà senza di loro, così come continueranno a splendere i giorni quando non ci saremo più». È detto dei personaggi dei Sillabari di Parise, ma non vale forse anche per quelli di La Capria? Il fascino inesauribile della bella giornata sorge dalla coscienza tragica del tempo che conduce a perderla in modo irreversibile. Così Eros e Thanatos si stringono in un nodo indissolubile e intenso. Questo sentimento del tempo, abbagliato da immagini di felicità che nascono e si dissolvono metamorficamente in ogni attimo, è la cifra della scrittura di La Capria, “nottilucente”, per usare un termine suo. A Parise riconosceva il merito di aver cercato una narratività diversa sia dalla frantumazione delle avanguardie, sia dall’accademismo postmoderno, ma questa forma è intensa perché corrisponde a un’esperienza, a una percezione estatica e tragica a un tempo dell’esistenza: «Anche gli istanti memorabili, gli attimi di felicità di amore di bellezza sono percepiti con la struggente consapevolezza della loro caducità di stelle filanti, nella loro fuga verso il nulla»[15].
La nota più intensa della scrittura di La Capria è il dolore creaturale; quello che piega verso il nulla adulti, bambini, animali; anche alberi e pietre. A cui risponde la compassione, un sentimento di simpatia universale. Questo è il male inevitabile, antropologico: «Il tempo è anche l’ossessione di sapere che le cose finiscono, che tutto finisce e che è proprio questa fine inaccettabile, irreparabile e senza senso, a rendere impossibile il possesso della vita»[16]. Poi ci sarebbe il male evitabile, quello che gli uomini infliggono a se stessi e alla natura; sarebbe evitabile, se non fosse agito dalle pulsioni di una violenza mimetica a quanto pare inaccessibili alla pietà e irresistibili. Questo è propriamente il male radicale perché voluto ed è il «disordine distruttore»[17] attivamente promosso.
Nel suo stile immaginativo e mitopoietico, La Capria è uno dei pochi scrittori italiani, che hanno tentato di descrivere i traumi storici e collettivi e l’effetto della loro rimozione nelle coscienze, la mancata conciliazione tra la storia e l’identità. Lo ha fatto con Napoli e il 1799, ma allude anche alla guerra civile 1943-1945 e alla storia italiana recente, la nostra psiche collettiva è interamente edificata sulla rimozione di fantasmi perturbanti: «Tutto ciò che è stato rimosso, col tempo vien fuori in altre forme e ci perseguita. Quando l’inconscio rimosso comanda su di noi non possiamo sentirci liberi, siamo preda di forze sconosciute», «l’Italia rimosse, dal dopoguerra in poi, la catastrofe della sconfitta e della guerra civile»[18].
Ed è questo il senso profondo delle sue riflessioni sulla lacerazione che si è prodotta nella storia di Napoli, a partire dalla violenta guerra civile del 1799. Si tratta di «una storia umana più lenta e nascosta, parla di una ferita invisibile che affonda nell’intimità delle coscienze e che provoca vicende senza nomi ed atti da ricordare, sepolta com’è nell’inconscio collettivo»[19]. L’inconscio possiede un indice temporale e anche le sue immagini originarie si attualizzano in modo differenziato e inconfondibile in un contesto storico determinato.
Il trauma storico rimosso e non metabolizzato produce una frattura tra storia e identità; o meglio crea un’identità fittizia, conciliazioni irreali, visioni unilaterali, mentre il trauma silenzioso scava in profondità fino riapparire nella sua violenza non appena si verifichi una situazione di crisi, allorché il conflitto del presente si carica di ciò che era rimasto inespresso. La ferita che un trauma collettivo può produrre, creando una costellazione scissa che si ripete per più generazioni, grava sulla coscienza desta come la coazione a ripetere che Freud attribuiva alla pulsione di morte. È un Reale che resta privo di articolazione simbolica, la «Cosa nascosta da sempre acquattata nell’inconscio di questa città», il risvolto tragico della sua “bella giornata”, rimosso più che articolato simbolicamente dalla recita della napoletanità, quella che La Capria e Rosi hanno insieme messo a nudo in Mani sulla città.
La “plebe” non è comunque solo quella che ha seguito il cardinale Ruffo (o ancora che ha sostenuto il populismo di Lauro negli anni Cinquanta del Novecento)[20]. La Capria ha condiviso fino a un certo punto l’ “orrore per la plebe” di altri intellettuali napoletani della sua generazione, per esempio della Ortese del Mare non bagna Napoli, ma ha anche riconosciuto in essa i fermenti di una cultura premoderna repressa e annientata, così come gli sembra ancora tradotta dal Pentamerone di Basile: «Tutto il libro… rispecchia forme di vita, desideri, atteggiamenti, passioni, abitudini, sogni, propri della plebe napoletana…E le fate, che così spesso qui appaiono, e trasformano i destini degli uomini, sono un aspetto della mentalità di questa plebe per cui la realtà è sottoposta al continuo intervento del meraviglioso. La fantasia della plebe napoletana in questo senso è aperta alle possibilità più surreali»[21].
E volentieri la scrittura di La Capria assume la movenza e l’andatura della fiaba. Se il romanzo “architettonico” non è più possibile, se la forma-saggio è minacciata dal concettualismo e dall’ideologia, la fiaba consente di trasporre ogni gesto e fatto in immagine esemplare, come nel Pinocchio di Collodi. Il ricorso ad essa ha del resto una motivazione profonda: la fiaba è un itinerario di iniziazione e di salvezza all’interno del mondo mitico, senza però cancellarne il carattere immaginativo, è un “percorso redentivo” del mito, non se ne fa catturare e non ne è la semplice negazione e ne adotta lo stile figurale. Un tono favoloso emerge anche negli scritti saggistici di La Capria, oltre che nelle sue fiabe vere e proprie, e perfino idee astratte o figure storiche assumono la postura di immagini e personaggi esemplari: come la bella giornata, l’armonia perduta, la Plebe…La favola può rivelare dettagli importanti che sfuggono allo storico, perché «la verità del tempo in cui a ciascuno tocca di vivere non è qualcosa di palese, come gli eventi riportati negli annali, ma scorre come un fiume sotterraneo sotto le apparenze illusorie dei grandi avvenimenti. Basta cogliere una sola stilla di quel vero»[22].
Note
[1] R. La Capria, Capri e non più Capri, Mondadori, Milano, 1992, p. 152.
[2] Ivi, p. 175.
[3] Ivi, p. 173.
[4] Ivi, p. 177.
[5] Questa frase viene aggiunta nella ripresa della pagina in Ultimi viaggi nell’Italia perduta.
[6] Capri…, cit. p. 181, 182, 190.
[7] Opere, II, p. 1532-1533.
[8] “La vita non passa per la cruna dell’ego”, il manifesto, 16 maggio 2001.
[9] S. Perrella, “Il mondo come acqua”, in R. La Capria, Opere, I, Meridiani Mondadori, Milano, 2014, p. XXII.
[10] Opere, II, cit., p. 1328.
[11] Dall’intervista a Paolo Virno, cit.
[12] Capri…,cit. , p. 193.
[13] Opere, I, cit. p. 370.
[14] Ibidem.
[15] Opere, II, cit. p. 1264.
[16] Ivi, pp. 1331, 1332.
[17] Ivi, p. 1939.
[18] Opere, II, cit. pp. 1558, 1553.
[19] Opere, I, p. 436.
[20] Ma per un discorso più approfondito su questo tema devo rimandare al mio Altrenapoli, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.
[21] Opere, II, p. 1072.
[22] Ivi, p. 1571.