di Luca Illetterati
La casa editrice In Transito ha inaugurato Masereel, la collana di testi che prende il nome dal grande illustratore belga Frans Masereel, le cui xilografie sono riprodotte nei bellissimi volumi che la compongono, con un racconto del grande critico letterario russo Efim Etkind. Etkind è noto da noi soprattutto per aver curato insieme a Il’ja Serman, Geoges Nivat e Vittorio Strada la grande storia della letteratura russa pubblicata dall’editore francese Fayard, i cui ultimi tre tomi, dedicati al Novecento, sono stati pubblicati da Einaudi nei primi anni Novanta. Etkind era però, oltre che un grande critico, un importante traduttore, sia dal russo che in russo, e soprattutto un grande teorico della traduzione. Non è in questo senso un caso che Etkind racconti qui una storia (vera) che ha a che fare con la traduzione, ma ha a che fare anche con la memoria come strumento di resistenza e con l’amore per la letteratura inteso come luogo della verità dell’umano.
La traduttrice – questo il titolo del racconto, tradotto dal russo da Giulia Gigante, cui si deve anche il piccolo saggio in appendice e una utile nota sull’autore – narra la storia di Tat’jana Grigor’evna Gnedič, trisnipote del traduttore dell’Iliade in russo e grande esperta di letteratura inglese, soprattutto della poesia dell’età elisabettiana. Nel 1945 Gnedič fu arrestata e condannata a dieci anni di campi di lavoro. Nel primo periodo di prigionia, quando era ancora nel carcere di Leningrado, e dunque prima di essere trasferita nel lager, Gnedič tradusse a memoria – senza cioè l’ausilio del libro – qualche migliaio di versi del Don Juan di Lord Byron. Grazie alla complicità di un inquirente colto, affascinato dalla stravaganza del personaggio e soprattutto dalla incredibile bellezza di quei versi, Gnedič ottiene il libro di Byron e in due anni lo traduce integralmente, rinunciando anche alle ore d’aria pur di portare a compimento il suo lavoro: «Integrale. In ottave, splendide ottave classiche. Diciassettemila versi. Un enorme volume di versi di qualità eccezionale» dice l’esperto a cui viene mostrato per la prima volta il manoscritto.
Dopo aver trascorso i rimanenti otto anni di lager, al suo ritorno a casa Gnedič non ha più nulla e non ha un posto dove andare e viene ospitata proprio dalla famiglia di Efim Etkind, di cui era stata, prima dell’arresto, una vicina di casa. Il suo Don Juan viene però pubblicato ottenendo grande risonanza. Il grande regista Akimov decide addirittura di metterne in scena una riduzione e chiede a Gnedič di lavorarci insieme. L’allestimento ha un successo straordinario e resterà in scena per molti anni. Ma è soprattutto la sera della prima quella che Etkind ricorda, quando tutto il pubblico in piedi chiedeva a gran voce l’autrice sul palco. Gnedič non era ovviamente l’autrice, ma la traduttrice, appunto. E tuttavia ci sono opere e circostanze in cui chi traduce è anche autore. E questa era certamente una di quelle.
Nel piccolo saggio a corredo del breve racconto, Giulia Gigante mette giustamente in evidenza come la vicenda di Gnedič rappresenti da una parte la ricerca disperata di una dimensione di alterità e differenza rispetto all’insopportabilità del reale – una sorta di possibile impossibile, verrebbe da dire – dall’altra un “atto di resistenza” contro il potere ottuso che l’ha incarcerata.
Walter Benjamin diceva che la traduzione è il luogo della sopravvivenza, ovvero l’atto che consente a un testo di vivere oltre se stesso, in dimensioni diverse rispetto a quelle in cui è sorto. Nel caso di Gnedič la traduzione è sopravvivenza non solo rispetto al Don Juan di Byron, ma anche rispetto a se stessa e, se così si può dire, del concetto stesso di umanità che quell’operazione in certo modo incarna.
Gigante mette inoltre in evidenza come durante l’epoca sovietica la memoria abbia spesso svolto questa funzione di arma invisibile contro la censura del potere. Come se la memoria segnasse la sopravvivenza dell’umano nella cancellazione dell’umano. Mentre i testi scritti potevano infatti essere eliminati, la memoria consentiva di conservare e tramandare oralmente ciò che il potere non voleva fosse ricordato. Viene in mente, ovviamente, a questo proposito la polemica platonica nei confronti della scrittura, il privilegio che egli assegna all’oralità rispetto all’assenza di vita del testo scritto e il pericolo che egli vede nella scrittura di essere cancellazione e non conservazione della memoria. Al di là di questo ciò che è comunque possibile cogliere da questa storia è come la memoria, per quanto debole e incerta, sia sempre, in effetti, un’arma contro le forme di oblio su cui si fonda sempre ogni nuovo potere. Giustamente Gigante ricorda che gli anni in cui Gnedič si impegna nella sua traduzione di Byron sono gli anni in cui Stalin enuncia i diktat del realismo socialista. Gli scrittori, diceva Stalin facendo propria un’espressione dello scrittore Jurij Oleša, sono “gli ingegneri dell’anima” e dunque sono chiamati a “costruire” l’umanità adeguata alla società socialista. Oggi non sembra più tempo di ingegneri dell’anima. O per meglio dire nessuno crede più che questo compito – quello di costruire l’anima – possa essere affidato agli scrittori. Gli ingegneri dell’anima sono oggi in effetti molto più efficienti di quanto poteva immaginare Stalin. Essi hanno la forma di algoritmi attraverso i quali vengono prima catalogati e poi riprodotti i nostri gusti, le nostre bolle, i nostri comportamenti. E non è detto che non riescano dove gli scrittori a cui si rivolgeva Stalin non sono riusciti.
[Immagine: Efrim Etkind con sua moglie, Elke Liebs].