a cura di Mattia Bettoni e Jordi Valentini
[Nell’ambito del programma della Casa della Letteratura per la Svizzera italiana di Lugano, Mattia Bettoni e Jordi Valentini curano la rubrica “Spaziobianco”, una serie di incontri con i poeti contemporanei. Pubblichiamo la trascrizione del dialogo con Milo De Angelis, avvenuto nel novembre 2021].
JV: Per cercare di riassumere, nel poco tempo che abbiamo a disposizione, un’opera così estesa e ricca come quella di Milo De Angelis, vorrei partire dal titolo di una sua poesia che amo molto. La poesia si chiama L’ago del ritorno ed è contenuta in Biografia sommaria (1999). Trovo che questo titolo ci dica qualcosa di fondamentale per tutta l’opera di De Angelis, compresa l’ultima raccolta su cui oggi ci concentreremo. L’ago ricorre più volte nell’opera deangelisiana: comunica l’esattezza, il punto da cogliere e da tentare di attraversare. L’ago è qualcosa che fa pensare al dolore, che nella poesia di De Angelis non è mai gratuito, non cerca consolazione, non cede al lamento individuale. L’ago in De Angelis è sì solitudine, perdita, l’incontro in una strada di notte a Milano, la fine dell’adolescenza. Ma quest’ago apre una ferita – altro termine chiave di De Angelis – più grande del singolo, riguarda una collettività. Fondamentale in questo senso la riflessione sul tragico, articolata da De Angelis fin da Poesia e destino (1982), sua raccolta di riflessioni e scritti critici recentemente riedita nel 2019 per Crocetti. Il tragico però non è l’esperienza di una fine: pur essendo numerosi gli addii, i congedi nella sua opera, il tragico, l’ago è inseparabile dalla prospettiva del ritorno. Torna ai luoghi che abbiamo amato, che hanno trattenuto qualcosa di noi, qualcosa che continua a parlarci. Tuttavia, il ritorno ci ricorda ciò che è stato e non è più, ciò che è irripetibile e irraggiungibile. Ci ricorda ciò che era intero, unico e non replicabile, che torna costantemente a chiederci attenzione, presenza. L’intero che si spezza, la linea spezzata che ricorre anche nel titolo di quest’ultima raccolta, riprendendo il Libro dei Mutamenti (I Ching), è un punto preciso, decisivo, come la punta dell’ago che stasera cercheremo di esplorare.
MB: La prima domanda, come di consueto, non riguarda nello specifico una silloge o un testo poetico ma vuole essere di carattere generale per permettere al pubblico presente di conoscerti meglio e di affiancarsi pian piano alla tua figura di poeta; il tuo esordio è avvenuto nel 1976 con Somiglianze, e mi pare che già in questa prima silloge, ma anche nelle seguenti fino a quella che sarà al centro della nostra discussione questa sera, la tua poesia manifesti un particolare interesse verso l’interiore, verso l’ungarettiano porto sepolto, verso quelle occasioni che proustianamente ci permettono di ritrovare noi stessi nei momenti e negli attimi vissuti, anche in quelli più semplici e all’apparenza privi di significato.
Tu stesso hai scritto, in chiusura al volume Tutte le poesie, edito nel 2017 da Mondadori, «C’è un porto sepolto, diceva Ungaretti, in fondo al nostro essere noi, scendendo a picco, liberandoci dai passatempi della vita quotidiana, concentrandoci interamente sull’essenziale, possiamo indirizzare il cammino verso questo porto, che è la meta ultima della nostra vita».
Allora, la domanda che sorge spontanea dall’estratto appena citato è: l’intera opera poetica, che dal ‘76 giunge fino al 2021, è una ricerca personale del tuo porto sepolto? Proprio come certi poeti possono essere considerati civili, o più interessati alla manifestazione di una cartesiana res extensa, di una natura esteriore delle cose, è possibile affermare che la tua poetica, al contrario, presta più attenzione ad un’interpretazione interiore delle esperienze vissute (siano esse conoscenze, amori, decessi o immagini repentine)?
MDA: Mi ha sempre colpito questa espressione, Il porto sepolto, che poi è diventata il titolo della prima raccolta di Ungaretti. Da una parte si riferisce ad un fatto oggettivo, l’inabissamento del porto di Alessandria d’Egitto in epoca antica, ma dall’altra allude al porto sepolto dentro ognuno di noi, quello a cui tendiamo sempre, la meta della nostra vita, che però è sepolta. Dobbiamo guardarci dentro, dobbiamo esplorarci a fondo, dobbiamo scendere in verticale nel nostro intimo per tradurre, per decifrare il nome di questo porto misterioso. Ecco, la mia formazione poetica negli anni Sessanta e Settanta è avvenuta, come dicevi, in un periodo ben lontano da questa idea di porto sepolto, un periodo in cui si diceva che ogni mutamento radicale doveva essere prima nelle cose e poi di conseguenza dentro di noi. Io pensavo invece che solo con una rivoluzione interiore avrebbe potuto esserci la possibilità di un cambiamento nel mondo. Questa non era e non è una posizione antimoderna, non è René Guénon o Julius Evola. Piuttosto si avvicina a Rimbaud, il quale dice che bisogna essere assolutamente moderni, ossia che bisogna essere “moderni” in una dimensione di assoluto, e “assoluti” in una dimensione contemporanea. Il viaggio interiore dentro di sé deve accompagnare il viaggio esterno dentro la natura delle cose. La nostra parola dovrà diventare terrestre laddove è spirituale e dovrà diventare spirituale laddove è terreste, dovrà concordare queste due dimensioni del porto sepolto al fondo di noi: supremo telos dell’animo e contingenza sanguinaria del mondo.
JV: Di recente è stato anche ripubblicato Poesia e destino, uscito nel 1982, l’unica tua opera organica di “critica”, se togliamo i volumi di interviste, che pure in questo senso sono molto ricchi. In una recente presentazione di questa ristampa hai affermato che Poesia e destino uscì in un contesto per cui alcune intuizioni del libro potevano risultare anacronistiche. In particolare, il recupero dei classici, in opposizione a una tendenza che li voleva mettere da parte o superare. Solo dopo, da generazioni di lettori e lettrici più giovani, il libro ha cominciato a raccogliere attorno a sé una nutrita schiera di appassionati.
Questa ristampa raggiunge altre generazioni ancora, per esempio quella dei nati negli anni Novanta, come me e Mattia. Questa è anche una generazione di voci esordienti in cui si coglie, forse ancora più che un tempo, la lettura della tua poesia. Se alla sua uscita nel 1982 il libro si trova, come hai affermato, in una condizione di ‘solitudine’, pensi che nel 2019 possa essere accolto in modo diverso dalle nuove generazioni?
MDA: Penso proprio di sì. D’altra parte gli amici che mi hanno convinto a ristampare sono proprio dei giovani poeti, nati negli anni Settanta, Ottanta, Novanta. Quando uscì, nel 1982, il libro non è stato inteso, forse non è stato nemmeno letto. Era un altro tempo, imperava la semiologia da una parte, il marxismo dall’altra, era un mondo poco attento a questi temi “tradizionali”, figuriamoci poi all’antico. C’è stato un interesse per Poesia e destino, nella sua fase preparatoria da parte di Giorgio Colli, che morì prima della sua pubblicazione…e la presenza di Nietzsche, così forte in questo libro, fu motivo di dialogo tra noi. Ma erano pochi gli uomini devoti al mito, quelli che sapevano sottrarsi agli infiniti e monotoni dibattiti su letteratura e società. Erano per esempio Piero Bigongiari, Giuseppe Conte, Giancarlo Pontiggia. Pochissimi alleati in questa esplorazione. Poesia e destino crede in ciò che rimane identico, crede nella permanenza, cosa che allora era un peccato mortale. Se uno non si dichiarava un professionista del cambiamento e della rivoluzione imminente, era considerato già di per sé un reazionario. Poesia e destino crede invece negli archetipi, in Vico, in Baudelaire, in Pavese, in Leopardi, in Giorgio Colli, qualche cosa che si replica nel tempo, si ripropone, riappare e si ripete, crede nella durata essenziale.
Regnavano incontrastati, dicevo, il marxismo e la semiologia. Il primo liquidava il mito e gli archetipi con la solita formula della sovrastruttura e non voleva nemmeno sentirne parlare. Pavese ne sa qualcosa, con i suoi meravigliosi Dialoghi con Leucò totalmente ignorati dal pensiero a lui contemporaneo. La semiologia dal canto suo cercava di prolungare all’infinito il viaggio per eludere la nostalgia del porto. Non si poneva e non si pone in nessun caso il problema di una meta finale, di una seria domanda sul destino dell’uomo. Descrive l’esistente come una specie di gioco di carte permutabili l’una con l’altra, senza mai fondare una gerarchia e senza mai affrontare il nodo tragico dell’esistenza umana di fronte al nulla che l’attende. Anzi, l’idea stessa del tragico era totalmente estranea a quei tempi. Altre le priorità, altri gli autori. Già parlare di Nietzsche sembrava delittuoso. Questa era l’aria del tempo. Adesso è diverso…in questi anni è diverso, per fortuna…sono anni certamente migliori di quelli che ho vissuto nella mia giovinezza.
MB: Vorrei ora inaugurare la parte dell’incontro dedicata alla tua ultima silloge, Linea intera, linea spezzata, uscita per Mondadori nel 2021, con una domanda di carattere generale dedicata ad uno dei temi in essa presenti e preponderanti. Leggendo la raccolta ci si accorge che molte poesie non soltanto contengono, ma addirittura terminano con una certa costanza, richiamando situazioni di morte, abbandono, solitudine e, soprattutto, di silenzi (specifico: non per forza da interpretare in maniera negativa, anzi, molte sembrerebbero essere figure taumaturgiche che accompagnano questa condizione esistenziale); ora, ho trascritto passaggi, e cito quasi esclusivamente versi in chiusa, come: «sembrava un saluto ma è un addio» (Nemini), «tutto è silenzioso per sempre» (Scrutinio finale), «e iniziò la lunga notte silenziosa» (Matita blu), e ancora «vivere per sempre | la notte silenziosa!» (Stille Nacht), «sussura una parola | prossima al nulla» (Quinta tappa del viaggio notturno), e via dicendo fino al termine dell’ultima sezione che si chiude con i versi «sotto il mio cuscino | dormiva la morte» (Il penultimo discorso di Daniele Zanin).
Forse potrei ricollegarmi ai frammenti appena citati chiedendoti se, per caso, anche la scelta di questi temi e argomenti siano parte del motivo per cui hai dichiarato che questa sarà la tua ultima raccolta; dunque se, in un certo senso, coronino, chiudano l’intera opera poetica all’insegna di un messaggio ad essi legato. Ricordo inoltre che spesso hai dichiarato che la poesia stessa può nascere dal silenzio: «Il silenzio ha accompagnato tutta la mia giovinezza. Nel silenzio fantasticavo, ricordavo, preparavo incontri e situazioni, partite di calcio o giochi temerari» (Che cos’è la poesia, in Tutte le poesie, 1969 – 2015).
MDA: La poesia riguarda un certo tipo di silenzio: il silenzio prima della battaglia e la quiete dopo la tempesta. L’attesa del libro è silenzio prima della battaglia, la pubblicazione del libro è quiete dopo la tempesta. E l’intervallo tra due libri è una lunghissima via che a volte ci conduce fuori dalla scrittura. Questo intervallo diventa così lungo che ci precipita nella nuda vita, ossia nel vortice degli incontri, degli accadimenti, delle esperienze, delle illusioni, delle delusioni. Il primo libro è troppo lontano ormai per esercitare ancora una spinta ispiratrice. Il secondo non si affaccia ancora all’orizzonte. Si è soli in mezzo alla vita. E la vita ci porta dove decide lei, fa di noi ciò che crede. Tutto questo però non è infecondo: anzi, proprio perché non pensiamo alla letteratura, possiamo scrivere una parola vera e violenta, una parola non letteraria, appunto, carica di un’ esistenza estranea all’idea di essere scritta.
JV: Nella terza sezione del libro – Dialoghi con le ore contate – c’è un aspetto che nella tua poesia non è molto comune, e per questo mi ha colpito particolarmente. In questa sezione ricorre due volte il tuo nome: nel primo caso, in relazione al tuo essere poeta («Io ho creduto | nella tua poesia, Milo, sono stato il primo e ora | ti dico vieni qui, presto, prima dell’ultimo volo», Alberico Sala), nel secondo, pronunciato dalla figura materna, un’altra presenza non così comune nella tua opera («Non devi ringraziarmi, Milo, è giusto | così, sono contenta, sono pur sempre tua | madre», Un film chiamato “Il Grido”). Prima di queste due occorrenze, il tuo nome compare solo in una poesia di Terra del viso (1985), ma in un modo più circostanziale. Qui invece sembra che il tuo nome, poterlo pronunciare in poesia, assuma una valenza importante. È così? Cosa significa per te, in quest’ultima raccolta, poterti individuare sulla pagina, come poeta e come figlio?
MDA: Nel mio ultimo libro pronunciare il nome proprio è l’inizio di un cammino di conoscenza. Le due poesie che hai citato si riferiscono a due persone e a due episodi significativi della mia passione poetica, due incontri che hanno lasciato il segno. Alberico Sala era un uomo buono, attento e generoso, oltre che un poeta importante in quegli anni Sessanta. Passava ogni domenica sotto la finestra di casa mia, al pianterreno in Viale Majno 31, e mi diceva «leggimi una poesia»; gliela leggevo e lui mi diceva «non è male…ma ora andiamo a farci un cappuccino al bar»; io scendevo dalla finestra e andavamo insieme nel nostro bar preferito a parlare di letteratura. La presenza di questo angelo, di questa voce incoraggiante, capace di cogliere quel poco di buono che ci poteva essere nei versi di un quindicenne, andò di pari passo con la presenza di mia madre, la quale fu la prima a capire che un bambino di quel genere era felice solo quando vedeva bei film, leggeva bei libri, osservava bei quadri. Quindi avviò con me un cammino davvero iniziatico per le strade di Milano, portandomi in tutti i cinema d’essai, che allora erano quattro o cinque tra i centotrenta dell’intera città. In particolare nel 1959 mi fece vedere Il Grido di Antonioni, dove si parla di un uomo disperato, un uomo che dopo il divorzio cerca invano un legame con altre donne, sempre nella nebbia del Polesine. Mi portò al cinema Orchidea e vedemmo insieme questo film. Quando molti anni dopo uscì di nuovo in un cinema milanese – mia madre nel frattempo era morta – io volli rivederlo da solo e le diedi una sorta di appuntamento sussurrato al cinema Orchidea, dove proponevano ancora Il grido. Ci trovammo e cominciammo a parlare e lei mi chiamò con il nome di sempre, Milo, che aveva scelto per me al posto del nome di battesimo, Camillo, quello che appare nei documenti.
MB: Vorrei soffermarmi rapidamente su una sezione in particolare, la seconda, intitolata Nove tappe del viaggio notturno. Colui o coloro che attraversano queste nove tappe si ritrovano in differenti luoghi, un parco, dei cinema, la strada, che definirei più metaforici che effettivamente fisici (non per questo meno reali); mi vengono in mente la piscina in cui chi prosegue il suo cammino si immerge «tra le ombre che si affollavano» (Penultima tappa del viaggio notturno), oppure il «campo che gira veloce su se stesso» (Prima tappa), campo che riporta i ricordi di corpi sepolti e di altri vivi; inoltre, non soltanto il dato spaziale, ma anche quello temporale assume una carica significativa piuttosto rilevante: «il mostro invisibile del tempo | ti invade» (Settima tappa), oppure «il prima e il dopo convergono in sasso» (Penultima tappa), o «l’attimo che prolunghi fino all’ultima fermata» (Settima tappa) e, ancora, «io sono | la voce del tempo, la voce del tempo e del distacco | che si ripete in ogni tempo» (Seconda tappa); versi che manifestano diverse contiguità con le tematiche emerse nella domanda precedente e che a loro volta si legano ad un tempo transeunte, che tutto porta via al suo passaggio.
Mi sono permesso di tracciare, per così dire, una breve linea tra queste nove tappe; ecco, che cosa rappresenta questo viaggio notturno? Il percorso ha un tu protagonista, un soggetto unico, oppure importa meno che si tratti di un singolo e il senso di questo percorso vitale stia piuttosto nel fatto che chiunque intraprenda tale tragitto debba affrontare, scrivi, «l’oscurità nel corridoio | che si espande silenziosa dentro di te» (Penultima tappa) e la discesa finale nel «bianco precipizio» (Ultima tappa)?
MDA: La sezione Nove tappe del viaggio notturno è quella più legata al tema del ritorno solitario, mentre la sezione successiva, Dialoghi con le ore contate, è dedicata al dialogo e agli incontri. Qui non c’è un corpo con cui parlare, ricordare o progettare. Qui tutto avviene alla presenza assoluta della città e dei suoi luoghi prediletti: possono essere un baracchino notturno di panini (quarta tappa), un campetto di calcio (prima tappa), un vecchio cinema di quartiere (seconda tappa), una risaia del Parco Sud (sesta tappa), una vecchia piscina abbandonata (penultima tappa), un dancing dove mi parve di intravedere la figura del poeta tedesco Gottfried Benn (quinta tappa). Sono le molte facce di un unico archetipo, il Ritorno, attraverso il quale possiamo sapere a che punto siamo del nostro viaggio, possiamo sapere se davvero abbiamo visto le cose fondamentali che dovevamo vedere, possiamo capire se qualcosa ci era sfuggito o non abbiamo scrutato profondamente: un viaggio nella memoria, inseparabile dal viaggio futuro che ci attende.
JV: Il tuo libro chiude con una sezione intitolata Aurora con rasoio, dedicata al tema del suicidio, che ricorre a più riprese nella tua opera. Tue poesie molto conosciute e studiate, dedicate a questo tema, sono per esempio T.S., in Somiglianze, e Cartina muta, in Biografia sommaria. In Aurora con rasoio il gesto finale e inappellabile si compie, anche rivendicando il gesto nella giovinezza («Morire giovane, questo l’ho sempre voluto, morire | in primavera, anticipare il lento disfarsi del pensiero», Exodos II), esce dal limite e vuole comunicare qualcosa di urgente. Al tempo stesso però, anche questo gesto non mi pare un gesto finale: certamente nasce e si compie nel segno di una separazione senza mediazione, «ingiusta, illegale, assoluta» (La stanza che gira su se stessa). Eppure, mi colpisce che la poesia che chiude questo viaggio tra i suicidi si intitoli Il penultimo discorso di Daniele Zanin.
Questo penultimo mi colpisce, e torna anche in L’ago del ritorno, la poesia che ho citato all’inizio di questa conversazione: «Tornano vedi, ricomposte le visioni | sono la prima e la penultima, i buoni | tramonti di ogni cosa, di ogni cosa». Scegliere di porre il suicidio in chiusura del tuo volume, un atto che nella sua violenza potrebbe essere considerato come un gesto tra i più fortemente finali, è proprio un modo per segnalare, in chiusura di questo tuo ultimo volume, che la morte non è la fine? Che, come scrivi in L’ora improtetta, «La vita continuerà altrove»?
MDA: Seneca diceva che ciascuno di noi ha una sola via per entrare nell’esistenza ma molte vie per uscirne, per far sì che questo giorno sia l’ultimo. In latino “ultimo” si dice in vari modi: ultimus, extremus, ma anche supremus e questo mi ha sempre colpito, perché è molto bello che l’ultimo passo sia considerato un passo supremo, un passo cruciale dove si radunano tutti gli altri passi. D’altra parte è vero, come hai notato, che il suicidio riguarda il penultimo gesto, non l’ultimo, perché solo il penultimo può essere testimoniato, ripensato e scritto. Dopo l’ultimo c’è la fine, c’è l’impossibilità di pronunciare qualsiasi parola. È vero poi che ci sono tante forme di suicidio in questo libro, tante ragioni per cui una persona decide di togliersi la vita: quella dell’angoscia e del male di vivere, certo, ma anche quella eroica, quella rituale, quella calma della scelta filosofica e quella furiosa della vendetta. Ecco, il poeta scende nell’Ade per captare queste voci estreme e riportarle a tutti noi su questa terra.