di Andrea Cortellessa

 

Lo si era perso di vista da un bel po’, Giorgio Vasta. Ogni tanto lo s’incontrava, certo, tra un festival e l’altro; inconfondibili l’elmo del cranio quanto quel suo modo di parlare avvolgente ma, per così dire, sempre più staccato dalle cose. Quel suo modo di avvicinarsi a quanto più ti sta a cuore, persino troppo forse, per poi, quando non sai se lo devi abbracciare o respingere, dileguarsi discreto com’era apparso. Il breve Spaesamento, nel 2010, mi era sembrato ancora più bello del celebrato Tempo materiale di due anni precedente: romanzo d’esordio al quale, a dispetto di ripetuti annunci, non ne è più seguito uno. Lui, che da Palermo se n’era andato quindici anni prima (prima lungamente a Torino, poi con un breve «allunaggio» a Roma), raccontava una visita nella città natale: dove, anziché ricongiungervisi agrodolce come nella tradizione del nòstos “intranazionale” à la Vittorini, le dichiarava una volta di più la sua immedicabile estraneità. A splendere, in Spaesamento, una lingua unica nel nostro panorama di oggi: l’esattezza maniacale di un lessico d’ampiezza gaddiana calata in una sintassi dall’equilibrio inappuntabile.

 

Per la verità in mezzo a tutto questo niente c’è stato, appunto, Absolutely Nothing (uscito sempre da Humboldt nel 2016), diario di viaggio nei deserti d’America in compagnia del fotografo d’origine iraniana Ramak Fazel. Due sguardi molto diversi, combacianti però nell’allegoria di un essiccamento emotivo da Leopardi terminale, «contento dei deserti» appunto; poema lirico in prosa su una solitudine non contingente («il mio amore è una superficie orizzontale») rappresa in memorabili «immagini agenti» (lancinante un galoppatoio abbandonato in Arizona).

 

 

L’ulteriore ritorno di Palermo. Un’autobiografia nella luce, di nuovo accompagnato dalle foto di Fazel (forse meno in sintonia che nell’episodio precedente), è il simmetrico rovescio tanto di Spaesamento che di Absolutely Nothing (tanto che, scherzando fino a un certo punto, i due amici si dicono che il titolo giusto, piuttosto, sarebbe Absolutely Everything). Stavolta Vasta a Palermo è tornato per restarci, ma «senza aver mai desiderato il ritorno, senza nessuna riconciliazione, al contrario avvertendo la città sempre più lontana e incomprensibile». Non sappiamo perché, e lui non ce lo dirà di certo: «negli anni erano accadute tante cose, o almeno sul piano di un’autobiografia tradizionale che dà credito ai fatti dovrei dire così».

 

 

Autobiografia, è scritto infatti in copertina, e aggiungo finalmente: dopo i tanti testi consimili – fra i migliori del repertorio recente – presentati proditoriamente come romanzi o, quando va bene, autofiction. Che è il più innecessario dei brand: essendo l’autobiografia di uno scrittore, connaturatamente, finzione. Per il solo fatto di scriverla, la «verità» entra – per dirla con Giorgio Manganelli – «in una regione in cui il vero non ha alcun privilegio sul falso». Che non è semplicemente, si badi, il falso (in tal modo sarebbe la stessa tautologia, solo rovesciata). Lo dice lo stesso Vasta nel voice off di un bel video del duo Masbedo, Pantelleria, presentato nella rassegna Penumbra in corso al Complesso dell’Ospidaletto di Venezia: quella storia (la storia di un secondo bombardamento, nell’isola già conquistata dagli americani nel giugno del ’43, al solo scopo d’essere ripreso dai Combat film,) «non è mai accaduta ed è certissima, non c’è nessun dubbio sul fatto che è accaduta, ma non è mai accaduta…».

 

 

Piuttosto che nella luce, si poteva dire della luce: perché quello che racconta Vasta non è altro che l’inseguire una «luce», un’intensità delle cose che ciascuno sa per certo esistere, per tutta l’esistenza continuando però a chiedersi dove sia. Quella luce ignota, come in Austerlitz di Sebald, la memoria la cerca avvitandosi a ritroso. Crede di intravederla nei Bresson e nei Cassavetes compulsati in VHS, nella fiamma ossidrica maneggiata da un fabbro, nella prima goccia di sperma in cima al proprio corpo, nel tremore delle candeline sul bambino chinato a spegnerle. Si aggira nella casa natale, chi dice «io», come il fantasma del Jolly corner di Henry James: lì capisce che «da vent’anni non facevo che risalire verso l’origine del mio sguardo, e questo risalire era un tentativo di ritornare a una cosa – a quella cosa – che non sapevo descrivere ma che esisteva in fondo al mio sguardo». Lì trova certe vecchie bobine impolverate girate in casa da suo padre, lì prova il soprassalto di vedersi vedersi: nella «luce immensa di un giorno di giugno del 1970», in uno di quei «filmini», appare «all’interno del continente più antico, il continente neonato, quel corpo di luce al centro della trapunta». In un’epifania degna di Kubrick (o del magnifico Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi, forse il più bel film italiano degli ultimi vent’anni), ci si vede letteralmente venire al mondo, «grottesco re magio che dopo aver girovagato per anni seguendo le strie di innumerevoli comete giunge infine al cospetto della sua stessa natività».

 

 

E poi l’ultimo giro di vite. Chi dice «io» trova anche la cinepresa paterna e prende a filmare di nuovo quello spazio: «non vedevo e cieco di luce filmavo ciò che non vedevo ma non importava perché filmare non serviva a prendere o a capire, serviva a immaginare». Proprio come lo scrivere. Lo dice della luce, Vasta, ma lo potrebbe dire della scrittura: «smetteva di essere un mezzo – la pura e semplice precondizione dell’esperienza visiva – trasformandosi invece nell’oggetto dello sguardo». Infatti la sua lingua è diversissima, qui, dai libri precedenti. La stessa, in realtà, ma come esplosa. Nel testo non si vede alcuno scorcio della città del titolo, perché in effetti è ovunque. Se Palermo è «sempre a pezzi», in un «continuo eccedersi e disperdersi» che «riguardava non solo una specifica città ma l’umano», la lingua di Palermo è una colata incandescente che travolge ogni euritmia, una formidabile cascata paraipotattica nella quale i periodi, di lunghezza davvero gaddiana se non proustiana, sono spezzettati al loro interno da una mirabile screziatura di incisi, riprese e singulti (simili a come Vasta descrive sé stesso: «come se nel corpo non ci fosse continuità tra le parti ma un succedersi di cesure»). Un’«esasperazione linguistica» che è lo specchio più esatto, in misura persino perturbante, di un «pensiero semplice e stroboscopico».

 

 

 Grazie a questo strumento trascendentale si scopre, in clausola, una verità che è dato trovare solo nelle parole. Inquadrando lo stesso letto di mezzo secolo prima a mancare è il bambino di allora, quello che adesso tiene in mano la cinepresa. Ma a mancare è tanto altro; è tutto il resto, in effetti. Né poteva essere diversamente, forse: se per conquistarsi quella lingua, quella luce, tutto quel resto lo si è dovuto sacrificare. Allora, cecidere manus: la cinepresa si abbassa, «se n’era andata via la luce, se ne va via la frase».

 

Giorgio Vasta, Ramak Fazel

Palermo. Un’autobiografia nella luce

Humboldt Books, 2022, 164 pp. ill. a col., € 24

 

[Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Corriere della Sera» il 5 settembre].

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