di Paolo Costa

 

[La parte centrale di questo articolo è stata pubblicata in una versione parzialmente diversa su “Domani”, l’8 agosto 2022, con il titolo redazionale I cittadini appassionati possono riformare la democrazia.]

 

1. Quarant’anni fa, nell’estate del 1982, l’Italia vinse il suo terzo campionato mondiale battendo la Germania tre a uno.

Riformulo la frase a beneficio dei lettori più giovani: l’11 luglio 1982, nello stadio Santiago Bernabéu di Madrid, si gioca la finale della Coppa del Mondo di calcio tra Italia e Germania e gli Azzurri, al termine di un torneo tanto entusiasmante quanto illogico nel suo andamento altalenante, strapazzano i tedeschi e si portano a casa l’ambito trofeo fra le grida di giubilo del popolarissimo presidente, Sandro Pertini, e, insieme a lui, dell’intero Paese.

 

La spiegazione, a dire il vero, era superflua perché la storia è nota praticamente a chiunque. Si tratta forse del mito sportivo che è rimasto più vivo nella memoria degli italiani oggi.

Quando la scorsa estate ho ascoltato alla radio diverse rievocazioni dell’evento, sono rimasto colpito dal contrasto tra il mio ricordo e quello proposto dai vari speaker. Il loro può essere riassunto in un paio di frasi: quell’attimo di assoluta euforia è stato forse l’ultimo momento in cui noi italiani siamo stati davvero felici. Il Paese usciva da un decennio buio e l’esplosione collettiva di gioia dopo il gol di Tardelli è stato come un urlo liberatorio di cui oggi non possiamo non avere nostalgia.

 

Il mio ricordo personale, al contrario, è questo: sì, è stato un bel momento, esaltante, ma erano anni talmente tristi… ed era solo l’inizio!

Per completezza d’informazione, devo precisare che nel luglio del 1982 avevo sedici anni, e gran parte della mia vita l’avevo trascorsa in un decennio diverso. «Diverso» è un eufemismo, perché il divario tra gli anni Settanta e Ottanta in Italia è talmente enorme che dev’essere stata proprio quell’esperienza diretta di Epochenschwelle a fare di me un irriducibile realista in materia di periodizzazioni storiche.[1]

 

Negli anni Settanta, per andare diritti al punto, la politica era veramente ovunque: nel modo in cui la gente si vestiva, si pettinava, nella musica che ascoltava, nei programmi televisivi che guardava, nella lingua che parlava. Tutto questo è svanito nel giro di un paio di anni. Dovendo riassumere con una sola immagine lo spirito del decennio in cui ho trascorso la mia infanzia, sceglierei un’istantanea delle animatissime riunioni a cui mi poteva capitare di assistere in casa dopo la riforma dei Decreti delegati sulla scuola. Ecco, se uno paragona quell’incongrua passione civile per le sorti della scuola pubblica allo stato d’animo di un odierno rappresentante di classe può forse farsi un’idea di che cosa una persona sana di mente potesse provare all’inizio dei «meravigliosi» anni Ottanta. Il mondo per molti era diventato semplicemente irriconoscibile.

 

Ora, non voglio dire che fosse per tutti peggio di prima. Presentarlo, però, come l’irruzione della luce della joie de vivre nelle tenebre avvilenti degli Anni di Piombo secondo me non ha biograficamente senso. A meno che…

Ecco, la tesi da cui vorrei prendere le mosse nel ragionamento sul futuro della democrazia che intendo svolgere da qui in avanti è incapsulata proprio in quell’«a meno che». Riesco a capire, infatti, il sentimento che ha dominato le celebrazioni dell’anniversario della vittoria al Mundial spagnolo solo se lo interpreto come la spia di una tesi sottaciuta che formulerei in questi termini: un periodo storico dominato dall’impegno politico non può che essere un incubo. Detto altrimenti, la vita umana è zeppa di cose meravigliose, ma la politica non è sicuramente una di queste: felice il paese che non deve occuparsene!

 

2. Quante sono le persone oggi che, come me, trovano questa affermazione non solo contestabile, ma sbagliata da ogni punto di vista: filosofico, storico, sociologico, antropologico, forse persino calcistico? Non molte, suppongo. Ora, non dico che sia una tesi assurda – è pur sempre la doxa attorno a cui ruota la visione liberale del mondo, a partire almeno dalle famose affermazioni di Constant sul primato moderno della ricerca privata della felicità e, di conseguenza, della libertà dalla anziché nella politica[2] – ma da qui a considerarla un’ovvietà non bisognosa di dimostrazione, direi che ne passa di strada. Comunque sia, non è mia intenzione qui far cambiare opinione a coloro che ritengono che la politica sia nel migliore dei casi un male necessario. Per i miei scopi, in effetti, basta molto meno. È sufficiente, cioè, che le nostre intuizioni dissonanti non impediscano comunque di riconoscere che, per chi vive in una democrazia, la questione non può che restare aperta. Detto in forma interrogativa: come si possono apprezzare fino in fondo i vantaggi derivanti dal vivere entro un regime democratico se non lo si considera anche, almeno in parte, come una forma di vita, cioè come una condizione esistenziale in cui la dimensione pubblica dell’agire svolge necessariamente un ruolo cruciale? Può avere senso, insomma, l’individualismo democratico se non viene inteso come un individualismo dialogico, olistico, secondo il ritratto esemplare dell’azione umana sviluppato da Hannah Arendt in The Human Condition?[3] Se si condivide questo modo di porre la questione, credo che gli anni Settanta torneranno subito ad apparirci per quello che sono effettivamente stati: il decennio in cui è cominciata la lunga crisi del modello di democrazia nato dalle ceneri del Secondo dopoguerra, crisi di cui stiamo subendo le conseguenze di lungo periodo ancora oggi.

 

3. La diagnosi appena formulata è l’assunto su cui poggia Degenerations of Democracy, il libro di Craig Calhoun, Dilip Gaonkar e Charles Taylor uscito qualche mese fa per Harvard University Press.[4] Nel primo capitolo, in particolare, Taylor descrive i modi in cui le democrazie liberali hanno perso progressivamente slancio nel corso degli ultimi decenni, come hanno finito cioè per prosciugare quella che egli definisce, con un vocabolo di chiara derivazione aristotelica, la loro dotazione «telica», ossia la spinta di quella che è pur sempre la forma più ugualitaria di governo della cosa pubblica a includere anche gli strati più poveri della popolazione, il «demos» per l’appunto, in una forma adulta, matura, «self-empowering», di autogoverno.[5]

 

La spinta è andata esaurendosi anzitutto perché la gente ha smesso gradualmente di credere nella possibilità di cambiare in meglio la propria situazione agendo di concerto. Questo è l’effetto principale di quello che Taylor chiama, con un’espressione azzeccata, il «Grande Declassamento» (Great Downgrade).[6] Il processo ha una sua banale linearità. Se in un regime democratico la sovranità appartiene per principio al popolo, allora le parti più svantaggiate della popolazione sono il termometro più affidabile per misurare il suo stato di salute. Se in costoro, detto meglio, cresce la sensazione di non essere più padroni del proprio destino vuol dire che qualcosa di essenziale è andato storto. Voglio dire, se è la logica sistemica della sfera economica a stabilire sempre e comunque i limiti entro i quali deve svolgersi la dialettica politica; se è sostanzialmente solo attraverso i progressi interni del sistema giuridico dei diritti dei cittadini che si compie il processo di civilizzazione di una società – allora è inevitabile che diminuisca, fino a quasi scomparire, il senso della propria efficacia politica. Che senso ha mobilitarsi? Non è più razionale farsi imprenditori di sé stessi o cercarsi un buon avvocato? È a quel punto che la sfera pubblica democratica smette di essere uno spazio d’azione e sopravvive solo perché diventa un teatro dove, grazie ai nuovi strabilianti mezzi di comunicazione, si possono mettere in scena le peggiori passioni tristi. In particolare, è con il risentimento verso i periodici capri espiatori che le energie non investite già nel lavoro, nel consumo, nella vita famigliare, vengono dilapidate in una polarizzazione fine a sé stessa che torna utile solo ai politici più scaltri per realizzare i loro obiettivi smaccatamente opportunistici. Questa bizzarra (perché contingente e superficiale) convergenza di interessi tra una parte significativa del demos e una parte dell’élite è il fenomeno universalmente noto come «populismo», che è fin dalle origini, ossia fin dall’antichità classica, il sintomo più eclatante della «degenerazione» delle democrazie, della perdita cioè del loro slancio o telos più autentico. Come osservano gli autori nell’introduzione:

 

«La democrazia degenera quando la gente comune sente di essere stata privata della capacità di costruire una vita buona per sé e per le proprie famiglie. Degenera quando le comunità non sono in grado di plasmare democraticamente il proprio futuro, tanto le loro scelte sono determinate da quelle di poteri lontani e dalle caratteristiche impersonali dei mercati capitalistici o di altri sistemi su larga scala. La democrazia degenera quando alcuni cittadini cercano di emarginarne altri, non solo ostacolandone il voto, ma anche limitandone l’accesso alle istituzioni pubbliche e persino agli spazi pubblici. La democrazia degenera quando i cittadini non si trattano più con un minimo di rispetto e riconoscimento e quando si rifiutano di riconoscere il fatto che sono tutti membri di un’unica comunità. Le degenerazioni riflettono l’erosione delle basi sociali della democrazia».[7]

 

Usando un lessico diverso, si potrebbe anche dire che le democrazie moderne degenerano quando i cittadini perdono di vista il fatto che l’autogoverno repubblicano è un bene tanto prezioso quanto fragile.

 

4. Mentre sta per concludersi una delle campagne elettorali più sconfortanti della storia del nostro Paese, viene spontaneo chiedersi se esista ancora una tradizione politica repubblicana degna di questo nome in Italia oggi. Per tradizione politica «repubblicana» non intendo quella sorta di blando patriottismo costituzionale che dalla presidenza Ciampi in poi è diventato lo strumento con cui le figure più carismatiche di una classe politica in declino hanno cercato di riaccendere in una popolazione politicamente sempre più cinica la fiducia nel valore delle istituzioni democratiche. Non sto pensando, insomma, a cose pur importanti come il senso dello Stato, all’esempio dei suoi servitori più integerrimi o ai suoi simboli ormai in gran parte desueti, ma proprio alla passione primaria per la res publica, all’intuizione che sta alla base di ogni esperienza felice di autogoverno: che esista, cioè, uno spazio di azione che non è primariamente né mio né tuo, ma irriducibilmente nostro, e che sia proprio la sua esistenza a rendere possibile una condizione politica di non dominio e, di conseguenza, un senso di efficacia che non ha equivalenti nella vita privata delle persone: non in famiglia (sia che siamo figli o genitori), non sul lavoro (sia che siamo imprenditori o dipendenti) e non nel tempo libero (sia che lo passiamo in mezzo alla natura o immersi nelle consuetudini tipiche di una società affluente).

 

Alla base di qualsiasi dedizione personale all’ideale di partecipazione democratica su cui poggia questa variante minimale di repubblicanesimo non può che esserci una condizione vissuta di libertà insieme agli altri e non contro di essi. Non vorrei essere frainteso: non sto dicendo che si tratti di un’esperienza banale, trasparente. Tra i suoi presupposti, infatti, c’è una qualità specifica dell’immaginazione, che non è facile da descrivere in maniera convincente. Di certo è la qualità tipica di una facoltà esplorativa. Quando partecipiamo a un’elezione locale o nazionale, diamo il nostro contributo alla vita di un partito o di un movimento politico, aderiamo a una protesta, una manifestazione, una petizione, o anche solo discutiamo di politica con gli amici, ci immaginiamo questi singoli gesti privi di conseguenze immediate come parti di un processo più ampio il cui effetto complessivo è qualcosa di simile a un bene architettonico: l’autogoverno, appunto, ossia l’essere governati da un regime che ha come fine non la nostra sudditanza, ma il nostro potenziamento – il vocabolo inglese empowerment funziona molto bene in questo caso –, il cui scopo, cioè, è renderci un po’ più adulti, un po’ più capaci, un po’ più forti, un po’ più in grado di fare fronte alla realtà di quanto non accadrebbe se fossimo abbandonati a noi stessi nella natura oppure in una società dominata da forze su cui non abbiamo alcun controllo.

 

A pensarci bene, si tratta della stessa capacità esplorativa a cui ci affidiamo quando vogliamo allargare la cerchia delle nostre relazioni personali significative. Anche in questi casi, infatti, anticipiamo nell’immaginazione qualche caratteristica attraente della persona a noi ancora ignota ed è questo che ci motiva a conoscerla, a fare uno sforzo per uscire dal nostro guscio e incontrarla nella vita di ogni giorno. A quel punto, però, il fulcro dell’esperienza deve rapidamente spostarsi dall’immaginazione alla realtà che, se ci gratificherà, lo farà in una maniera mille volte superiore all’immaginazione. È all’opera un circolo, qui, e lo stesso vale per le esperienze di autogoverno. Affinché diventino un’opzione concreta per noi, dobbiamo confidare nel fatto che vi sia un qualche tipo di beneficio attuale, anche se immateriale, nel dedicarsi a un bene che è irriducibilmente pubblico e quindi «proprio» solo in un senso indiretto. Dopo di che, tocca alla realtà fare il resto. La vita democratica, in effetti, è una grande scuola di realismo, ma di un realismo vitale, non mortificante, persino avventuroso. La res publica è non a caso anzitutto una res, una «cosa»: solida, materiale, pregnante.

 

5. Ebbene, la campagna elettorale in cui siamo stati gettati dalla caduta del governo Draghi – estiva, inattesa, quasi «aliena» dopo la lunga sospensione della normale dialettica democratica dovuta all’emergenza sanitaria – sembra una prova inconfutabile della crisi in cui è precipitata da alcuni anni l’immaginazione politica degli italiani. Un simile caso particolare di disaffezione in un contesto più ampio di disillusione generale amplifica anche nelle persone che ancora sentono un legame di lealtà verso le istituzioni nate dalla Resistenza la sensazione della vanità di ogni sforzo volto a tradurre in realtà il sogno dell’autogoverno repubblicano. Lo stesso fallimento dell’astruso modello di democrazia «rousseauiana» incarnato dal Movimento Cinque Stelle e nutrito più di fantasie tecnologiche al limite della distopia che non degli immaginari repubblicani che per secoli hanno agito in maniera carsica nella storia d’Italia, sembra aver certificato la fine di ogni speranza nel rinnovamento dello spirito civico nazionale.

Ma davvero non esiste un modo efficace per ridurre il divario tra immaginazione e realtà nella vita delle democrazie contemporanee e contrastarne i processi degenerativi? In un libro che suona ottimista fin dal titolo Charles Taylor, Patrizia Nanz e Madeleine Beaubien Taylor hanno provato non tanto a convincerci, ma a mostrarci che esistono, al contrario, ottimi motivi per continuare ad avere fiducia nelle gigantesche promesse incapsulate nell’ideale moderno dell’autogoverno del popolo.[8] Gli esempi che ci vengono dispiegati davanti agli occhi sono tutti casi di graduale rieducazione e rigenerazione degli immaginari democratici attraverso una riattivazione, per lo più locale, del senso dell’efficacia dell’azione comune che, verso la fine del testo, assume un respiro quasi utopico.

Se, infatti, come si legge nell’Epilogo, «il nostro concetto di cittadino utile, che dà il proprio contributo, è dominato dalla figura del “produttore per il mercato” (il lavoratore o l’imprenditore che riesce a produrre qualcosa che i consumatori vogliono comprare)», ciò di cui abbiamo un estremo bisogno, allora, è un radicale «mutamento culturale» e un «grande trasferimento di ricchezza collettiva dalla produzione di prodotti e servizi vendibili a [una] serie di servizi per le persone», superando la «coscienza dicotomica per cui ora distinguiamo tra chi ha un lavoro regolare a tempo pieno e chi riceve assistenza sociale con il sostegno delle tasse riscosse da chi un lavoro ce l’ha». «Ciò significa», a conti fatti,

 

«che è necessario pensare a nuovi modi di incoraggiare e spronare le comunità locali a prendere le redini del loro destino. La costruzione di una democrazia della base ha un ruolo fondamentale nella risoluzione della crisi attuale, ma sarà anche una parte essenziale della società più umana e meno ossessionata dalla crescita che vogliamo costruire per il futuro».[9]

 

Alla base di questo approccio originale c’è un’enfasi, a cui purtroppo non siamo più abituati, sulla pedagogia democratica, cioè su un apprendimento pratico dell’abc delle abitudini repubblicane da cui non può prescindere chiunque voglia ridare slancio alla democrazia ricostruendone le fondamenta. Se, come detto, alla base della crescente sfiducia dei cittadini nella democrazia come sistema c’è un’esperienza diffusa di declassamento e questo consiste sia in un effettivo impoverimento economico sia in una perdita di stima in sé stessi, allora non resta altro da fare che provare a trasformare la spirale discendente di una delusione che diventa rapidamente disillusione in un circolo virtuoso («un contrattacco democratico») che punti, nel migliore dei casi, a generare uno «spazio condiviso per l’autodeterminazione».[10] A questo scopo è essenziale, per esempio, promuovere la rinascita delle comunità deliberative in aree colpite dalla deindustrializzazione oppure ridestare nelle persone la voglia di agire insieme coinvolgendo la popolazione nelle scelte strategiche degli enti locali o, quando le questioni riguardano il futuro di una nazione o dell’intera umanità, anche degli Stati o delle unioni sovranazionali, valorizzando l’esperienza e la creatività della gente comune: il capitale sociale del demos, insomma.

 

C’è evidentemente un rischio, non tanto di paternalismo, quanto di «maternalismo», in questa insistenza sulla necessità di un graduale riapprendimento dell’arte repubblicana dell’autogoverno, nonché sull’esigenza di affidare tale processo di rieducazione democratica a una schiera di «animatori», «mediatori», «facilitatori» delle nuove pratiche deliberative che occorrerà evidentemente ideare e implementare per realizzare lo scopo ambizioso di frenare e, se possibile, invertire l’attuale ciclo di degenerazione democratica. La perplessità è comprensibile, visto che, come notavo sopra, l’autogoverno repubblicano attira soprattutto le persone che, quando si tratta di obbedire a un ordine, per quanto ragionevole esso sia, odiano essere trattate come bambini. Il dubbio può essere mitigato, però, pensando che qualsiasi forma di innovazione sociale radicale, se si vuole evitare il trauma di una lacerazione violenta del tessuto sociale, richiede una dose notevole di pazienza e apertura mentale. D’altra parte, come notano Calhoun, Gaonkar e Taylor all’inizio del loro lungo ragionamento, i progetti di rigenerazione democratica «devono spingersi oltre la mera riparazione del danno o il tentativo di tornare a una vecchia “normalità”. […] È fondamentale trattare la democrazia come un progetto, il cui scopo è la creazione di una democrazia più forte e, più in generale, di un futuro migliore».[11]

 

Il punto, in conclusione, è capire se questo tipo di ragionamento sia applicabile anche al caso italiano. La mia impressione, sia come cittadino sia come studioso di filosofia politica, è che esista praticamente dappertutto nel nostro paese un immaginario sociale repubblicano che è già silentemente all’opera nella società civile, sebbene le sue potenzialità siano significativamente limitate da cause sia strutturali sia contingenti. Da noi non mancano, cioè, le condizioni abilitanti per la pratica dell’autogoverno democratico, mentre sembrano latitare le condizioni per la sua fioritura. Alcuni degli ostacoli alla piena valorizzazione di tale retroterra repubblicano derivano dallo scacco di almeno tre transizioni storiche recenti: il repentino tramonto delle culture politiche novecentesche tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta; la destabilizzante crisi istituzionale degli anni Novanta; la mancata unificazione politica europea dopo la nascita dell’euro. Da un punto di vista strutturale, l’effetto rigenerativo delle pratiche e degli immaginari locali è invece ostacolato da una percezione della politica, diffusa un po’ ovunque oggi sul nostro pianeta, che ne favorisce un rigetto aprioristico, soprattutto tra i giovani. Questo difetto di immaginazione spinge a vedere nella politica soltanto partigianeria, scontri di personalità, se non addirittura una guerra civile latente, e non invece anche un’opportunità insostituibile di azione comune e, tramite essa, di presa di contatto con la realtà. Dato che la politica è un aspetto della vita umana che dipende integralmente dal modo in cui le persone la interpretano, è chiaro che una visione così lugubre è destinata in breve tempo a divenire una profezia che si autoavvera.

 

Molti di coloro che pensano che la pandemia da covid-19 sia stata una grande occasione sprecata per il genere umano, hanno di norma in mente proprio il senso di discontinuità che si è avvertito globalmente nella primavera del 2020. Non avere approfittato di quell’opportunità storica per recuperare il senso profondo della nostra forma di vita democratica, scavando sotto la scorza di consuetudini superficiali, è stato un errore di cui stiamo cominciando già a pagare il prezzo.[12] Il punto rimane sempre lo stesso: dobbiamo ritrovare, come singoli e come comunità, una fiducia realistica nella possibilità di cambiare insieme per il meglio. Come si intuisce leggendo sia Degenerations of Democracy sia Una nuova democrazia, questo «meglio per tutti», che molti oggi faticano persino a immaginare, si nasconde anche tra le pieghe di parole – «repubblica», «democrazia», «autogoverno» – che conservano una forza evocativa speciale pur a dispetto delle dolorose lezioni di umiltà impartiteci dalla storia politica dell’umanità.

 

Note

 

[1] Per una felice traduzione romanzesca di questa sensazione, tragicomica, di un passaggio di soglia si veda J. Coe, La banda dei brocchi, Feltrinelli, Milano 2002.

[2] Cfr. B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino 2001.

[3] Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994.

[4] Cfr. C. Calhoun, D.P. Gaonkar, C. Taylor, Degenerations of Democracy, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2022.

[5] Cfr. ibidem, pp. 19-22, in particolare p. 19: «La democrazia è un concetto telico. Non è cioè mai solo una questione di condizioni o relazioni causali, ma incorpora sempre necessariamente anche scopi e ideali. È definita da standard che non possono mai essere soddisfatti».

[6] Cfr. ibidem, Degenerations of Democracy, cit., p. 23.

[7] Ibidem, p. 16.

[8] Cfr. C. Taylor, P. Nanz, M. Beaubien Taylor, Una nuova democrazia: come i cittadini possono ricostruirla dal basso, Il Margine, Trento 2022.

[9] Cfr. ibidem, Epilogo, pp. 89-93.

[10] Cfr. ibidem, p. 87 e p. 79.

[11] Cfr. C. Calhoun, D.P. Gaonkar, C. Taylor, Degenerations of Democracy, cit., p. 17.

[12] Cfr. ibidem, pp. 10-11: «La pandemia da coronavirus ne è un ottimo esempio. Le speranze di ripresa […] hanno spinto molti a parlare di un ritorno alla “normalità”. Questo è però un termine fuorviante, non solo perché la pandemia probabilmente durerà più a lungo di quanto molti immaginano, e le sue conseguenze socioeconomiche persisteranno forse persino di più. Più in generale, la ripresa non sarà un ritorno alle condizioni stabili precedenti, così come ce le immaginiamo col senno di poi. Ci riprenderemo dalla pandemia solo trasformandoci. E la trasformazione non riguarderà solo la salute pubblica, ma anche questioni sistemiche, dalle catene di approvvigionamento alla ristrutturazione dell’occupazione, fino alla cooperazione globale. Allo stesso modo, è difficile capire che cosa si possa mai intendere per ritorno alla normalità in materia di processi migratori globali. Per tacere del cambiamento climatico, rispetto al quale qualsiasi idea di “normalità” appare come un mero prodotto di fantasia. Per affrontare sfide simili senza subire ulteriori degenerazioni della democrazia, dobbiamo sia riprenderci dalle degenerazioni degli ultimi cinquant’anni sia ricostruirne le fondamenta sociali. È fondamentale rinnovare le norme politiche repubblicane e completarle con la ricostruzione di strutture di solidarietà, dalle comunità alle istituzioni statali. E mano a mano che ci riprenderemo dalle singole emergenze, dovremo affrontare ulteriori nuove sfide. Non sarà possibile salvare le libertà democratiche, i processi costituzionali e la coesione politica senza una trasformazione di questa portata. Ciò richiederà la ripresa delle lotte storiche per rendere la democrazia un fenomeno meno superficiale; richiederà cioè l’impegno per ridefinire alla radice le agende dei governi».

1 thought on “Dopo il «Great Downgrade»: perché abbiamo bisogno di una pedagogia democratica

  1. Sono molto pessimista riguardo alla possibilità di un “riapprendimento dell’arte repubblicana dell’autogoverno” che passi dalla capacità delle comunità locali di riprendersi “le redini del loro destino”. Lo sono perché, per esperienza, ho vissuto quanto lo sforzo verso una pedagogia democratica confligga proprio sui territori locali con interessi che ormai sono globali, lontani dai cittadini, persino dalle istituzioni che amministrano quei territori. La complessità del sistema economico che è stato creato lascia residuali spazi d’azione che evidenziano concretamente ogni giorno l’impossibilità di incidere sulla gestione dei territori. Le azioni di contrasto di sciagurate politiche di consumo del suolo, di devastazione dell’ambiente, di sfruttamento del lavoro (azioni che non sono mancate in questi anni) non solo sono state perlopiù perdenti, ma hanno anche dovuto subire lo stigma di battaglie NIMBY dalla retorica ufficiale propinata sistematicamente dai mass media. L’attività politica ha sperimentato questa impotenza e ha prodotto a mio avviso (non so attraverso quali meccanismi esattamente) due antitetici risultati: da un lato, in alcuni, la convinzione che solo un’èlite di tecnocrati possa essere in grado, muovendosi a livello globale, di offrire soluzioni a problemi complessi (si pensi a quelli della produzione energetica o della gestione dei rifiuti, temi che hanno evidenti ripercussioni sulla vita delle comunità locali), dall’altro, all’opposto, il rifiuto di ogni dialogo, la violenza verbale, la polarizzazione insensata alimentata dai social media attorno a questioni del tutto marginali, il cospirazionismo, atteggiamenti frettolosamente bollati come “populisti”, che con l’antitetico atteggiamento tecno-elitario, condividono in buona sostanza l’idea che la politica intesa in modo tradizionale non rappresenti più un orizzonte di riferimento al quale tendere per costruire comunità locali prospere e coese.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *