di Luca Illetterati
[Ieri sera, alla 79a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Saint Omer di Alice Diop ha vinto il Leone d’argento-Gran premio della giuria e il Leone del futuro per la migliore opera prima].
Saint Omer, presentato in concorso alla 79. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, primo lavoro di finzione della regista Alice Diop – anche se si riferisce a una storia vera che ha sconvolto la Francia, è un film profondo e per molti versi straordinario. Un film che costringe lo spettatore a un’attenzione emozionale inconsueta, se non altro per i caratteri di inattualità che incarna rispetto al mainstream della narrazione cinematografica: l’azione è infatti tutta negli sguardi, nei silenzi e in parole che rimandano sempre a qualcosa d’altro rispetto a quello che dicono, a gesti minimi, spesso non compiuti, ma solo evocati.
Il film si svolge quasi interamente in interni, per la maggior parte dentro l’aula di un tribunale dove Laurence Coly, immigrata senegalese in Francia, viene processata per un infanticidio rispetto al quale si riconosce, a un tempo, come colpevole e non colpevole. Colpevole nel senso che non ha nessuna difficoltà ad ammettere i fatti che sono avvenuti, ovvero di essersi recata a Saint Omer e di avere abbandonato di notte la figlia di pochi mesi alle onde del mare. Non colpevole in quanto ritiene di non aver agito a partire da una sua specifica intenzione, ma mossa da una qualche potenza che a sua volta ha agito in lei: un malocchio, una fattura, qualcosa che rimanda alla dimensione della stregoneria. A seguire il processo c’è Rama, docente e scrittrice, anche lei di origini africane. Rama vuole scrivere una versione moderna di Medea, colei che nella tragedia di Euripide andò contro la propria natura di madre e uccise i propri figli ed è in vista di questo lavoro di scrittura che decide di assistere al processo. Per quanto sia la protagonista, in quanto il fuoco narrativo del racconto ruota intorno a lei, Rama parla pochissimo: all’inizio la vediamo mentre tiene lezione su Marguerite Duras – scrittrice che, non ancora trentenne e in contemporanea al suo esordio letterario, vide morire suo figlio – la sentiamo poi in qualche breve e scabro colloquio con il compagno, in qualche battuta scambiata con la madre dell’imputata. A parlare, per Rama, sono soprattutto i suoi silenzi: la sua incapacità di dire alla madre di essere incinta o di rispondere davvero alle frasi della madre dell’imputata. E poi le lacrime. Un pianto profondo nel riconoscersi in fondo non così diversa da Laurence, dall’infanticida, nel riconoscersi forse nelle sue stesse paure, nelle sue stesse angosce e dunque nella possibilità della medesima follia. Rama ha evidentemente paura della maternità. Ha paura di essere come la propria madre, di riprodurre le medesime dinamiche che a lei hanno recato dolore; ha paura di essere come Laurence, di arrivare a odiare la sua creatura; ha paura di non riuscire a sentire ciò che invece si ritiene ogni donna debba sentire rispetto al proprio diventare madre.
Il riferimento iniziale a Marguerite Duras, in questo senso, ha davvero la funzione di un segnavia. Basti pensare a un brano come questo, tratto da L’amante:
Nei libri in cui racconto la mia infanzia, ad un tratto non so più che cosa ho tralasciato e che cosa ho raccontato, credo di aver parlato del nostro amore per nostra madre, ma non so se ho parlato anche dell’odio, di quanto ci amavamo e di quanto anche riuscivamo a odiarci, vivendo quella storia di rovina e di morte che era la storia della nostra famiglia, una storia fatta di amore e odio, che sfugge ancora ad ogni mio intendere, che mi è ancora inaccessibile, celata nella profondità della mia carne, cieca come un neonato il primo giorno.
La dimensione di inaccessibilità è incarnata nel film, oltre che dai silenzi e dagli imbarazzi, anche dai riferimenti alla stregoneria. La stregoneria a cui si riferisce Laurence nella sua confessione e a cui si riferisce anche la madre di Laurence nella sua testimonianza a difesa della figlia è in fondo il rinvio a quella dimensione di tabù ancestrale che quelle paure e quelle angosce evocano: la paura della maternità, la paura di arrivare a odiare ciò che si ama, il terrore angosciante di non sentirsi adeguati a ciò cui una natura in fondo non scelta vorrebbe si fosse necessariamente all’altezza; l’idea stessa che ciò che si ritiene naturale sia giocoforza semplice, facile, ovvio, giusto.
La stregoneria, il malocchio, la dimensione magica, è un modo per dire ciò che non si può dire, per dare corpo, materia e voce a ciò che è proibito dire.
Laurence racconta, nella sua lucida confessione, di aver rotto i rapporti con il padre nel momento in cui ha deciso di lasciare gli studi di giurisprudenza per intraprendere quelli di filosofia. Aveva deciso di scrivere la sua tesi su Wittgenstein – dice una sua docente chiamata a testimoniare: scelta incongrua, a parere della docente, nel senso che Laurence avrebbe potuto scegliere – afferma incarnando quel punto di vista accogliente e razzista che è propri di molti discorsi del perbenismo bianco occidentale – qualcosa di più vicino alla sua cultura invece che un astratto filosofo del linguaggio austriaco. Wittgenstein è però in realtà un altro segnavia del film. Wittgenstein è infatti il filosofo del dicibile e dell’indicibile, di ciò che si può dire e di ciò che invece non si può dire e si deve tacere. Il riferimento a Wittgenstein rimanda cioè a quel confine spurio che separa ciò che è possibile portare a discorso e ciò che invece non può trovare parola che è il luogo stesso della tragedia di Laurence.
Saint Omer è un film importante e, per quanto forse imperfetto rispetto ad alcune decisioni specificamente cinematografiche, bellissimo. Un film che interroga e che continua ad abitare lo spettatore ben oltre la sua visione. Un film anche spiazzante: nella prima ora ci si attende in qualche modo che la storia trovi il suo sviluppo, la sua prosecuzione magari fuori dall’aula del tribunale. Ma poco alla volta ci si accorge che la storia si svolge tutta lì, dentro quella dimensione statica e autenticamente tragica in cui c’è una colpevole che è anche la vittima, ci sono dei testimoni – il compagno, la madre, la professoressa – che sono tutti a loro volta, in un modo o nell’altro, dei colpevoli, ci sono degli avvocati che svolgono le funzioni di poli opposti che tentano ciascuno di riportare a una qualche forma di ragione (caritatevole l’una e di orrido buon senso l’altra) ciò che appare privo di ragione, c’è una giudice (una bravissima Valerie Devrille) che pone le domande che vorremmo porre noi e infine c’è Rama, soggetto silente di una catarsi che si produce grazie all’identificazione con la colpevole, con colei alla quale diritto, morale e buon senso proibiscono di identificarsi.
Non tutto è limpido nel film. Ma non lo è, in fondo, perché non può esserlo: perché non si può dire ciò che non può essere detto. Non si può dire di riconoscersi in una madre che uccide la figlia. L’infanticidio è in qualche modo l’emblema stesso di ciò che non ha diritto a ragione alcuna. Eppure, dietro quel gesto c’è una dimensione di umanità profonda. È il gesto estremo, orrido e raro, che rivela una paura e un buco esistenziale che è in realtà di tutte e, forse, anche di tutti.
per quanto riguarda Duras e l’infanticidio c’è anche altro
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/07/26/marguerite-duras-difende-christine-ha-ucciso-ma.html