di Stefano Jossa
Ripubblicare testi, si sa, è lo sport preferito dei letterati italiani, soprattutto quelli di appartenenza accademica: non c’è settimana che non compaia un libro «a cura di», che non è mai l’autore, ma un’altra persona, che commenta, postilla, glossa, collaziona, giudica, discerne e dirime. Come prova quest’elenco, lo stesso vocabolario dell’editore di testi è ricchissimo, a definire il perimetro, accuratamente scientifico, di una disciplina che non ammette le obiezioni che si rivolgono di solito alle materie umanistiche: di essere vaghe, opinabili, soggette all’arbitrio del giudizio individuale e condizionate dalle egemonie culturali. L’edizione dei testi, che si incarna nella più nobile e antica delle discipline accademiche, la filologia, non può subire lo stesso tipo di attacchi, perché possiede un metodo sicuro, procedure ripetibili e risultati inconfutabili. Certo, è disciplina storica, per cui l’edizione fornita sarà sempre e solo la migliore possibile in quel momento temporale e alle date condizioni, perfettibile a seguito di nuove scoperte e rinnovate strumentazioni, ma comunque decisiva e determinante.
Peccato però che le edizioni veramente critiche (quelle che si confrontano con pluralità di tradizioni, problemi esegetici e interpretazioni storiche) siano davvero pochissime. Che bisogno c’è, infatti, di ripubblicare un testo a stampa, senza manoscritti e senza varianti, che compare già in un centinaio di biblioteche italiane ed è pure disponibile online? Oppure di far arrivare alla stampa un manoscritto con un testo in unica attestazione che alla stampa non era mai arrivato per qualche motivo legato o allo scarso valore letterario o alla sostanziale irrilevanza storica anziché perché oggetto di censura (nel qual caso la pubblicazione è invece benvenuta)? La caccia all’inedito però continua, perché facilita le carriere accademiche, stimola il mito moderno della novità a tutti i costi e favorisce l’ambizione alla scoperta, come se il senso della ricerca stesse solo nel ritrovamento anziché anche nel ripensamento, nella sistemazione e nella discussione. È facile, del resto, reperire inediti nel patrimonio ricchissimo e in gran parte inesplorato degli archivi e delle biblioteche italiani: molto più facile che proporre una nuova interpretazione, ricostruire un contesto culturale o una storia della tradizione, spostare il punto di vista o rivedere canoni prestabiliti. Certo, le edizioni critiche serie dovrebbero rendere conto della mobilità e delle stratificazioni di un testo, ma molte edizioni critiche, purtroppo, ancora tendono a fissare il testo, immobilizzarlo e deproblematizzarlo.
Che senso ha, allora, di fronte a queste critiche, riproporre un testo a stampa, come un albo per ragazzi pubblicato in Italia negli anni del fascismo, apparentemente di scarso valore letterario e mai frequentato dagli studiosi? Si tratta di quel Viaggio di Pinocchio nell’aldilà dantesco che chi scrive, insieme con l’amico e collega Luciano Curreri, ha recentemente ripresentato ai lettori del nostro tempo in un’edizione Mauvais Livres accompagnata da due saggi di commento e contorno; in origine affidato a tre albi autonomi, Pinocchio all’Inferno (sottotitolato: Straordinario viaggio del celebre burattino in compagnia di Dante Alighieri), Pinocchio in Purgatorio (con sottotitolo: Straordinario viaggio del celebre burattino accompagnato da Dante Alighieri) e Pinocchio in Paradiso (a sua volta sottotitolato: Terzo ed ultimo viaggio del celebre burattino nei possedimenti Danteschi), il Viaggio di Pinocchio nell’aldilà dantesco fu pubblicato a Firenze da Nerbini verso la metà degli anni Venti del Novecento. L’autore, Bettino D’Aloja, fu un fascistone, a giudicare almeno dalla sua unica raccolta di poesie, Inni e fremiti fascisti: fiamme d’amore e di fede, comparsa nel 1925 a Firenze presso lo stesso editore: motivo in più, forse, per non ripubblicarlo, soprattutto nel clima politico dell’Italia contemporanea, visto fra l’altro che di quell’esperienza i due curatori si proclamano agli antipodi. Al suo nome va probabilmente associato quello di Adele Ferrari D’Aloja, autrice dei Canti giovanili fascisti delle piccole italiane e dei Balilla d’Italia (1926), di una biografia di Vittorio Emanuele III (Il nostro re, 1929) e di un’altra di Garibaldi (La vita di Giuseppe Garibaldi narrata ai giovani, 1932), tutti pubblicati da Nerbini.
Perché, allora, se nei confronti di una critica accademica che ha sostituito il primato intellettuale con quello editoriale, i libri pensati con le curatele, la critica al testo con la critica testuale, i curatori sono per lo meno perplessi? La prima risposta sta sul versante quantitativo: si tratta di uno di quei testi che sono sì a stampa, ma sono pure quasi irreperibili, visto che attualmente ne sopravvivono solo una copia di tutti e tre gli albi presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze e una del solo viaggio all’inferno presso la Biblioteca del Centro APICE – Archivi della parola, dell’immagine e della comunicazione editoriale dell’Università degli studi di Milano. L’operazione è quindi di puro recupero erudito, per mettere a disposizione un testo altrimenti irreperibile e forse destinato all’oblio. Collezione di opere inedite o rare è del resto il titolo, nutrito di spirito positivistico, di una rinomata collana della Commissione per i testi di lingua.
Chi dice tuttavia che non meritasse l’oblio? Si tratta, dopotutto, di un albo per ragazzi, destinato a piccoli balilla degli anni Venti del Novecento, rispetto ai quali, nei gusti, nelle abilità di lettura e tecnologiche, negli interessi culturali e sociali, gli adolescenti del XXI secolo sono profondamente differenti. Qui è già una seconda risposta: che sta nell’interesse per lo studio della mentalità, delle psicologie evolutive di massa, delle pedagogie e degli immaginari, che da un punto di vista storico deve essere interessato alla differenza (ma anche alla somiglianza, se l’assunto di partenza si rivela infondato, in quanto gusti, abilità e interessi potrebbero rispondere a esigenze più archetipiche o antropologiche che solo storiche o contestuali). Esplorare le modalità con cui gli scrittori fascisti per ragazzi cercavano di costruire l’adesione al regime, tra i due miti contrapposti e complementari del ribelle e del soldato, è ancora operazione letterariamente, politicamente e culturalmente necessaria, per evitare che il discorso si riduca a questioni d’indottrinamento senza considerare gli aspetti, pedagogicamente più interessanti, della seduzione, della narrazione e dell’emozione: come venivano costruiti i testi destinati a formare l’immaginario dei futuri fascisti italiani? Con quali forme e quali contenuti? Dopo tutto, come ha scritto Maurice Halbwachts, «la società umana è essenzialmente il desiderio di tornare all’infanzia da parte degli adulti», perché l’identità sta nella continuità della memoria: le letture giovanili danno un imprinting che verrà continuato, nella manipolazione più spesso che nella ripetizione, ma tale da segnare definitivamente il nostro immaginario.
Punto di riferimento indispensabile per la costruzione di questo immaginario fu sicuramente il mito di Pinocchio, da cui nacquero le pinocchiate fasciste che Luciano Curreri ha già indagato in un precedente importantissimo volume: Pinocchio in camicia nera. Quattro pinocchiate fasciste, a cura di Luciano Curreri (Nerosubianco, 2011). Ecco una terza risposta: l’interesse non è solo storico o documentario, ma più specificamente letterario, perché si trattò di fondare un genere, con coordinate precise e obiettivi definiti. Un genere per ragazzi, senza dubbio, ma la letteratura per l’infanzia è un progetto di costruzione sociale e morale di cui chi studia la letteratura non può non tener conto. Lo stesso D’Aloja fu del resto autore, sempre per le edizioni Nerbini, di almeno altre undici pinocchiate: Il naufragio di Pinocchio; Pinocchio a Ceylan; Pinocchio nella Malesia; Pinocchio innamorato: racconto… passionale per ragazzi; Pinocchio sotto Spirito, ovvero pensierini, giudizi, ricordi e spruzzi poetici e musicali del celebre burattino di legno; Pinocchio in India; Pinocchio in Siberia; Pinocchio nel celeste impero; Pinocchio Robinson; Pinocchio spazzacamino. Spiccano i travestimenti salgariani e stevensoniani, a strizzare l’occhio al lettore già familiare con storie di pirati, corsari, naufragi e rinascite, e a proporre un’appropriazione pinocchiesca di classici ormai riconosciuti: il tutto, per di più, nell’orbita di una pedagogia della natura e dell’avventura che è totalmente in linea coi miti romantici e individualisti dell’egemonia culturale del tempo.
Di qui nasce una quarta risposta: per quello che nel testo c’è. Se manca la qualità letteraria (che dipende tuttavia dalle poetiche e retoriche dominanti, per cui la pregiudiziale estetica è sempre quanto di più vago si possa concepire), di letterario c’è tanto altro: allusioni e riferimenti a quelle opere che formavano l’immaginario del lettore ideale cui il testo si rivolgeva, da tanta opera lirica, che emerge nelle formulazioni del testo (come sta dimostrando un lettore appassionato, Ignazio Castiglia, in un saggio di prossima pubblicazione), ad altri libri per ragazzi e riviste a fumetti; uso di forme metriche di largo dominio e facile memorizzazione (tra la terzina dantesca e l’ottava cavalleresca); presenza di slogan culturali (culto del nuovo, promosso dai fascisti) e di attualizzazioni narrative (dibattito sulla pena di morte, reintrodotta dal regime nel 1926); linguaggio di cose (prendendo la rivista più diffusa del tempo, il «420», il suo nome dal calibro del pezzo di artiglieria, l’obice, che nella prima guerra mondiale aveva raggiunto i 420 mm, appunto, in una gara a chi le sparava più grosse). I miti dell’inventore, dell’esploratore e dell’aviatore convergono tutti intorno a un viaggio impossibile, che è tanto della memoria (scolastica, degli adulti) quanto della fantasia (associativa, dei bambini). A questi elementi si aggiunge il dialogo tra parole e immagini, visto che gli albi sono illustrati e l’illustratore è quasi sicuramente quel Giove Toppi che sarebbe presto divenuto il primo disegnatore italiano di Topolino.
La quinta risposta è però nel titolo stesso, che mette in scena, insieme, Pinocchio e Dante, cioè i due protagonisti di quel mito identitario italiano che alla letteratura ha chiesto soprattutto icone da celebrare anziché testi da leggere e discutere. Di Pinocchio, proprio a partire dalla magnifica postfazione di Curreri a Le avventure di Pinocchio per l’edizione Einaudi, che ripropone l’introduzione di Italo Calvino, è stranota la fortuna, fatta di manipolazioni, appropriazioni, revisioni e reinvenzioni, nel mondo delle arti, verbali, figurative, musicali e multimediali (con bibliografia voluminosissima, che va dal rapido e utilissimo excursus didattico di Rebecca West, The Persistent Puppet: Pinocchio’s Heirs in Contemporary Fiction and Film, all’intrigante libro dallo sguardo multimediatico a cura di Katia Pizzi, Pinocchio, Puppets, And Modernity, per citare solo due esempi decisivi). Di Dante, manco a dirlo, visto che agli studi accademicissimi di Barbi, Mazzoni e Vallone sulla storia della critica dantesca si è aggiunta la svolta pop del centenario, che Dante l’ha riproposto soprattutto in chiavi fumettistiche, cinematiche, teatrali, visive e sonore anziché promuovere un reale confronto sulle ragioni della sua influenza o meno sulla cultura del nostro tempo (citiamo qui solo tre esempi tra i migliori: Dante: Un’epopea pop, a cura di Giuseppe Antonelli; «A riveder la china»: Dante nei fumetti (e vignette) italiani dal XIX al XXI secolo, a cura di Leonardo Canova, Luca Lombardo e Paolo Rigo; La voce di Dante: Performance dantesche tra teatro, tv e nuovi media di Alberto Casadei e Paolo Gervasi). Il loro incontro è allora un’occasione di riflessione sulle modalità con cui si fa cultura nella società dello spettacolo, che impone di rivolgersi a icone d’impatto pubblico anziché interrogarsi su questioni che richiedono punti di vista alternativi e capacità di spostare lo sguardo. Lo aveva spiegato benissimo, del resto, fin dal classico La società dello spettacolo, Guy Debord, quando denunciava che «lo spettacolo […] ha la funzione di far dimenticare la storia nella cultura»: presentificando tutto, la società dello spettacolo distrugge il pensiero critico a favore di un senso di appartenenza di facciata che restituisca agli individui quella comunità perduta a causa della frammentazione esistenziale e parcellizzazione lavorativa imposte dal capitalismo avanzato.
Dante e Pinocchio in endiadi, se non in emulsione, sono allora il termometro dello stato di salute degli studi letterari e della creatività artistica in Italia: più se ne parla, più povero e triste è il quadro d’insieme. Diverso è il punto di vista degli stranieri, perché Dante e Pinocchio sono i loro strumenti di accesso privilegiati all’italianità, al carattere e alla lingua nazionali. Ma davvero gli italiani e gli italianisti d’oggi possono accontentarsi di ripetere quello che diceva Cesare Balbo nel 1839, che Dante è «l’Italiano più italiano che sia stato mai», oppure Giuseppe Prezzolini nel 1923, che «chi capisce la bellezza di Pinocchio, capisce l’Italia»? Una riflessione su un’Italia ridotta a quei due fratelli d’Italia potrebbe essere utile per capire che oggi, finalmente, alla vigilia di elezioni tanto importanti per il futuro del Paese, un altro modo di essere italiani c’è ed è possibile.