di Rino Genovese
Tra i grandi fiorentini Dante e Pinocchio, quale dei due esprimerebbe nel modo più compiuto quella cosa peraltro sfuggente che può essere chiamata “identità italiana”? Che ne avrebbe detto Giulio Bollati (per tirare in ballo un nome che mi è caro), il quale all’Italiano: il carattere nazionale come storia e come invenzione dedicò un insieme di saggi molti anni fa? D’accordo, uno è il “sommo poeta” realmente vissuto, sia pure in un passato tanto lontano da farne un personaggio mitico, quasi di finzione; l’altro, invece, è solo un povero burattino mai esistito. Ma la differenza – se li si intende come congegni letterari capaci di sprigionare la loro potenza a distanza di secoli – è poi così rilevante?
Sono alcune delle domande che vengono alla mente scorrendo le pagine di un singolare “progetto editoriale” messo su da Stefano Jossa con il contributo di Luciano Curreri, dal titolo complessivo di In balìa di Dante e Pinocchio (Mauvais livres, Roma, 2022). Si tratta di un elegante cofanetto (come si sarebbe detto una volta) che contiene un volume con i saggi dei due curatori, e tre agili libretti che riprendono testi e disegni di Il viaggio di Pinocchio nell’aldilà dantesco di Bettino D’Aloja, edito, negli anni Venti del Novecento, da Nerbini di Firenze. Quest’ultimo – particolare non trascurabile – è il famoso editore dei fumetti all’italiana (non solo, in verità, anche di Topolino, prima che venisse rilevato da Mondadori), e il D’Aloja era un fascista della più bell’acqua. Mettendo insieme i due elementi, e ricordando che Curreri è autore di un precedente volume intitolato Pinocchio in camicia nera (Nerosubianco, Cuneo, 2011), si comprende agevolmente quale sia la pinocchiata che i nostri intendono compiere: mostrare quale sia la massiccia presenza di Dante, lungo più di un secolo, nell’industria della cultura (quella che oggi sarebbe meglio descrivere come un insieme di agenzie della estetizzazione diffusa, anziché come un monolite), e quale sia, in questo stesso ambito, il ruolo sottilmente politico giocato da Pinocchio, che va considerato – tenendo conto della sua nascita nel 1883, anno tra l’altro della morte di Karl Marx – un protoprodotto letterario più industriale che artigianale (mastro Geppetto permettendo).
Tra i due, il poeta e il burattino, è però senz’altro il primo ad avere avuto la peggio: da Vittorio Gassman e Vittorio Sermonti, fino a Carmelo Bene, e – più scoperto di tutti – Roberto Benigni, è una vera e propria discesa negli inferi dell’intrattenimento la sorte che l’autore della Vita nova e della Commedia ha dovuto subire. Dante non è per nulla di facile consumo: basti pensare alle difficoltà del Paradiso che, senza una conoscenza neanche tanto superficiale del pensiero medievale, non si capisce. Al contrario, l’“operazione culturale” che per lo più viene fatta nel recitarlo è quella di una banalizzazione musicale della sua famosa terzina: un lavoro di pura restituzione di uno stile, appunto (Dante avrebbe detto, “di uno stilo”, segnalando così il momento dell’incidere qualcosa su qualcos’altro), utile a riempire di senso poetico il Bel Paese dove il sì suona. “Che bello essere italiani!” – può allora esclamare l’uditore, estasiato da tanta musicalità.
Una parziale eccezione può essere fatta per Bene (il quale, tra parentesi, è anche interprete-autore di un Pinocchio), che però, con il suo misterico culto della “voce”, si dà a una dizione in cui ogni lettura finisce con l’assomigliare a qualsiasi altra: perché a officiare è sempre Bene. L’obiezione – lo sappiamo – è che la poesia nacque davvero, al tempo dei tempi, per essere detta a voce alta dinanzi a un collettivo, e non per essere recepita da soli, nel silenzio di una lettura muta. Ma quanti secoli sono trascorsi da quel dì? E perché mai la modernità sarà andata verso la ricezione individuale della poesia e del libro in genere? Mai sentito il nome di Lutero e della sua Riforma, associato a quello di colui che inventò i caratteri a stampa, Johannes Gutenberg? Da quel momento almeno – con la decisiva centralità che si cominciò a dare alla coscienza individuale e, insieme, a una formazione che avveniva nella guisa di una comunicazione la più diffusa possibile –, il nesso tra preghiera, culto e cultura (intesa come Bildung) iniziò a rompersi in una congerie di singole scelte parziali. E tra queste Dante compare, se compare, come un oggetto di studio cui attendere nella propria camera, non come quel fondatore d’identità nazionale tramite la lingua e la poesia che si vorrebbe chiamare in causa, quasi spiritisticamente, con evocazioni teatrali o televisive. Del resto, abbiamo letto – da soli, in camera – il Faust di Goethe (comparandolo a quello precedente di Marlowe), senza sentirci per questo coinvolti più di tanto in un’identità nazionale tedesca; e poi l’Ulisse di Joyce senza supporci irlandesi (visto che d’altronde Joyce stesso, dalla provincia natale, si era distanziato parecchio). Insomma, non sarà che la letteratura sarebbe quella cosa che servirebbe a occuparsi di questa o quella cultura (in senso antropologico), oppure di questo o quel tempo storico, di questo o quel pensiero, senza per ciò stesso sentirsi presi in qualche assurda questione di “spirito nazionale”? Era Giovanni Gentile che aveva preteso di comporre una Storia della filosofia italiana – impresa vana, perché la filosofia non ha patria e non può averne –, mentre la letteratura, che pure è legata più della filosofia alle moltissime lingue in cui è scritta, per fortuna si lascia tradurre: e così una patria nemmeno lei ce l’ha.
Ciò detto, l’intenzione di In balìa di Dante e Pinocchio è quella di muoversi, come scrive Jossa in una decisiva “Nota” in fondo al testo, all’interno di una sociologia della letteratura che desacralizzi i classici sottraendoli alla costruzione di un “pantheon laico nazionale”, mostrando l’uso e il riuso che di essi viene fatto nel discorso pubblico. Al che si potrebbe aggiungere quanto un vuoto culto della grande letteratura sia funzionale e faccia da pendant alle dinamiche proprie di un’industria della cultura – di cui, in Italia, proprio il burattino è forse il principale antesignano, e di certo il più noto. Carlo Collodi, il suo creatore, fu un fondatore di giornali umoristico-politici; la prima pubblicazione delle “avventure di Pinocchio” avvenne su un periodico precorritore del famoso Corriere dei piccoli novecentesco e delle sue volontà ammaestratrici mirate all’infanzia. Niente di male. Ma va sottolineato come il personaggio di Pinocchio, e le marachelle che lo mettono nei guai, avessero un connotato “educativo” nei confronti dei giovanissimi. In questo senso il post-risorgimentale burattino porta in sé un contenuto etico-politico di formazione “nazionale”. E il suo essere un protoprodotto dell’industria della cultura non lo esime dall’essere, al tempo stesso, un elemento del discorso pubblico dell’epoca. La sua ripresa con Nerbini e D’Aloja, per giunta in combutta con Dante, fu allora un aspetto dello sforzo fascista di riallacciarsi al Risorgimento e alla tradizione italiana in generale.
Nel fascismo, infatti, sono presenti entrambi i momenti: quello della rivolta e della trasgressione pinocchiesca, e il loro rientrare in una continuità del potere – elitaria, monarchica, colonialista, razzista –, che fu poi l’essenza del ventennio (fatto salvo il macabro ritorno “rivoluzionario” di Salò). Dunque la combinazione di Pinocchio con Dante ci sta tutta. E incredibilmente questa stessa combinazione – su un piano diverso, commerciale-turistico – è riemersa con il tentativo di museo multimediale denominato “Dantocchio” (multimedia museum experience), aperto a Firenze nel 2019, e poi rapidamente chiuso, probabilmente a seguito delle restrizioni imposte dalla pandemia e non per la vergogna. La tesi, che può apparire perfino estrema, secondo cui tra il fascismo e l’industria della cultura vi sarebbe un nesso più intimo di quanto a prima vista si potrebbe supporre, troverebbe qui una conferma.
Alla fine, sono più genuine e accettabili – in quanto in esse l’operazione commerciale è trasparente – le riduzioni di Walt Disney, il quale da fiabe e favole trasse alcuni memorabili film a cartoni animati, tra cui un Pinocchio del 1940 (e c’è perfino un albo a fumetti con Topolino all’Inferno, guidato da Pippo-Virgilio), anziché le invenzioni rivestite da intenti didattici, o di diffusione della cultura, che palesano facilmente la loro pelosa sostanza.