di Rino Genovese
1. La Francia e l’Europa.
La Francia, come si sa, potrebbe diventare nei prossimi mesi l’àncora di salvezza della politica europea. È il duo Sarkozy-Merkel che finora ha costituito l’asse di comando nella deriva neoliberista imposta alla crisi dell’euro; è il probabile prossimo presidente francese, il socialista Hollande, che potrebbe (il condizionale è d’obbligo) tentare di riprendere la rotta verso un’Europa sociale. I sondaggi sono ancora favorevoli al candidato socialista, ma, per la prima volta da molto tempo, Sarkozy non è più in caduta, anzi recupera consensi. In una certa misura ciò è fisiologico con l’approsimarsi delle elezioni, fissate, nei due turni, il 22 aprile e il 6 maggio. E tuttavia c’è un elemento, un’incognita che deve far riflettere.
L’incognita questa volta non consiste nell’estrema destra (che, nonostante il volto rinnovato di Marine Le Pen, non sembra in grado di andare al di là della soglia del 15% o 16% dei voti al primo turno, che per la maggior parte si riverseranno su Sarkozy al secondo), ma dal combinarsi o ricombinarsi dei voti, nel ballottaggio, tra la sinistra e il centro, il cui candidato, Bayrou, pur magari non ripetendo l’exploit di cinque anni fa, conserva una certa capacità di attrazione. A sinistra, infatti, c’è la presenza piuttosto ingombrante di Mélenchon: il candidato del Front de gauche (unione tra il Partito comunista, un gruppo della sinistra socialista e altri di sinistra) sta conducendo una campagna aggressiva, basata sulla parola d’ordine di un’assemblea costituente per la sesta Repubblica. Una cosa che non sta né in cielo né in terra, com’è ovvio. Ma intanto, se Mélenchon otterrà al primo turno più del 10% dei voti, come appare probabile, ciò avrà l’effetto oggettivo di mostrare un Partito socialista tirato a sinistra per la giacca da un raggruppamento di sinistra radicale per nulla insignificante nei numeri. Come si concilierà questa prospettiva con quella più moderata capace di attirare, al secondo turno, il voto centrista? E se Hollande dovesse riuscire a spuntarla, non sarà come dilaniato, tirato dalle condizioni stesse della sua elezione da una parte e da quella opposta. Non si tradurrà ciò alla fine in una specie di paralisi?
2. Banlieues
La questione delle banlieues in Francia ha due aspetti. Il primo è quello della politique de la ville, un insieme di interventi, da parte delle amministrazioni locali soprattutto, mirante a contrastare l’effetto ghetto che le periferie, quasi naturalmente, producono. Si è notato, per esempio, che maggiore è la distanza dal centro della città, a causa del funzionamento non ottimale delle reti del trasporto pubblico urbano, maggiore è il senso di solitudine e di abbandono che regna nei quartieri. Si sta perciò cercando di ovviare a questo problema. Ma – è bene sottolinearlo – si tratta solo del profilo spaziale della questione, se si vuole del tempo “spazializzato” che s’impiega ad arrivare dalle periferie al centro e viceversa. C’è poi, secondo aspetto, quello temporale in senso storico. Quanto radicato, quanto profondo è il risentimento postcoloniale dei giovani, per lo più discendenti d’immigrati, che popolano i quartieri cosiddetti sensibili? Il passato che non passa come s’intreccia con il presente di questi giovani che, in astratto, sarebbero pienamente francesi?
È qui che si nota un deficit da parte della politica, in particolare da parte della politica di sinistra. I socialisti francesi – che pure, diversamente da quanto accade per i “riformisti” nostrani, parlano ancora di capitalismo, di finanziarizzazione dell’economia, del modo come contrastare la seconda e regolare il primo – sono assenti dalle banlieues. E le cose non vanno meglio per i comunisti e il Front de gauche. Bisogna anzi riflettere sul fatto che la periferia parigina, un tempo elettoralmente comunista senza discussioni, è stata contesa, con successo, dall’estrema destra. Mélenchon sta oggi, stando ai sondaggi, faticosamente risalendo la china. Ma in che modo?
Sono stato il 18 marzo alla Bastille (quindi prima che accadesse quello che è accaduto a Tolosa). Mélenchon ha parlato per venti o venticinque minuti – di fronte a una folla non immensa considerate le dimensioni della piazza, ma comunque cospicua – un linguaggio d’altri tempi. Era il giorno dell’anniversario della Comune di Parigi del 1871, e naturalmente l’oratore vi ha fatto riferimento… Ma in che modo? Se fossimo stati nel 1936, ai tempi del “fronte popolare”, il suo linguaggio avrebbe avuto un senso. L’oratore ha parlato di una “insurrezione” civica o cittadina (si noti, però, non proletaria) in un tono solenne, frontista e repubblicano, che denotava un uso puramente nostalgico del passato.
L’integralismo religioso ha in sé una componente millenaristica capace di attrarre quei giovani figli di immigrati che del passato repubblicano, come del resto del presente, non sanno che farsene, e da cui anzi si sentono esclusi. Solo un’utopia concreta in grado di ridare senso a una lotta collettiva avrebbe ancora una chance contro quel millenarismo. Ma di questa organizzazione della speranza la sinistra non sa parlare, non sa neppure più concepirla.
3. Le Pen
Marine Le Pen non è il vecchio arnese della guerra d’Algeria che è stato suo padre; è una quarantenne di notevoli capacità, con una voce dal timbro leggermente roco in grado di sedurre. Il suo sforzo è stato quello di rinnovare l’estrema destra staccandola dall’immagine fascista petainista e avvicinandola a un nazionalismo a sfondo etnico di tipo leghista. In parte c’è riuscita. Oggi, infatti, il Front national non è tanto antisemita (l’antisemitismo non paga più come una volta) quanto anti-islamico, contro l’immigrazione e contro le minacce alla sicurezza che possono derivarne. Inoltre – questo va da sé – la signora Le Pen batte e ribatte sul tasto dell’euro, dalla cui zona vorrebbe uscire per ritornare al franco. Come si vede, un cocktail ben dosato di paure e malesseri, che è quello di tutti i populismi europei.
Soprattutto dopo la terribile vicenda di Tolosa, la candidata dell’estrema destra ritiene di potere portare la sua sfida al secondo turno (come già acccadde con suo padre nel 2002). Ciò difficilmente avverrà, ma è certo che, nel probabile ballottaggio tra Sarkozy e Hollande, l’atteggiamento del suo elettorato – astensione o voto, nonostante tutto, per Sarkozy? – giocherà un ruolo non secondario. La sua posizione assimilazionista riguardo al problema dell’immigrazione – e dei giovani usciti dall’immigrazione, francesi a tutti gli effetti – è in realtà la stessa del presidente uscente e della sua maggioranza: non si tratta di integrare socialmente ma di assimilare culturalmente. Una posizione che vede l’alterità sempre come un pericolo potenziale da ridurre all’identità. In concreto ciò si traduce in una politica di “respingimenti” (per usare un termine che in Italia conosciamo fin troppo bene) e di chiusura verso lo straniero. L’antisemitismo tradizionale non serve più ad alimentare paure irrazionali, visto che ormai è diventato patrimonio del jihadismo internazionale. Così il razzismo cambia volto: si rivolge al maghrebino e al nero, restando tuttavia lo stesso.
4. Hollande
François Hollande deve vincere, deve assolutamente vincere le elezioni presidenziali francesi se si vuole che ci sia una speranza, o almeno la possibilità, di un cambiamento della politica europea. Questo riguarda noi italiani molto da vicino. Hollande ha infatti promesso di rinegoziare il patto del 9 dicembre 2011, che porta il segno del duo franco-tedesco, e che è alla base, tra l’altro, della politica economica del governo Monti. Non potrà esserci una nuova crescita in Europa, e neppure una ripresa della domanda, senza una revisione di quel patto di segno neoliberista. Hollande è inoltre un sostenitore dell’introduzione degli “eurobond”, della possibilità, cioè, di creare un prestito europeo con la Banca centrale come prestatore in ultima istanza. E ancora, Hollande mira a una “Tobin tax”, una tassa sulle transazioni finanziarie, a livello europeo. Insomma solo una presidenza socialista francese potrebbe (sottolineo il condizionale) fare da contrappeso alla politica economica imposta, fin qui, dalla Germania della signora Merkel.
Non ci sono tentennamenti possibili: chi non sopporta l’impasse cui il leghismo-berlusconismo ha condotto l’Italia, con l’attuale (presunto) governo tecnico, deve augurarsi il trionfo di Hollande, dell’unica possibilità di una riapertura della politica in Europa. Il candidato, per il suo stile o non stile, può piacere o non piacere. Ma il fatto che adesso, come del resto è nelle cose delle vicende pre-elettorali, il suo vantaggio sul presidente uscente sembra ridursi, deve preoccuparci. È importante che i socialisti riprendano il bando della loro campagna a partire dai temi economico-sociali. Solo da qui, non certo inseguendo la destra sul tema della sicurezza, si potrà consolidare il vantaggio che, al secondo turno, vede ancora vincitore, con uno scarto di voti non indifferente, Hollande su Sarkozy.
5. Individualismi
Guardate la differenza: il neoliberismo – che è una forma di conservatorismo, non di liberalismo progressista – propone dappertutto (ne sappiamo qualcosa in Italia) minori vincoli e maggiore libertà di licenziare (come se non ci fosse già!); dei diritti di libertà individuale se ne infischia, o meglio, in linea con un cattolicesimo retrivo, ne vuole impedire gli sviluppi. Così niente matrimoni gay, per esempio (che già furono uno dei punti qualificanti del governo Zapatero in Spagna); in Italia neppure una legge sulle convivenze, in linea con una difesa a oltranza della famiglia tradizionale; e ovviamente chiusura totale nei confronti dell’eutanasia, attiva o passiva, con il tentativo d’imporre addirittura una vita da zombi obbligatoria a chiunque incappi in un coma irreversibile.
In Francia c’è già una legge intorno alla fine della vita (non del tutto disprezzabile, dal punto di vista di un italiano) voluta da un deputato del partito sarkozysta, guarda caso di origine italiana chiamandosi Jean Leonetti. Questa legge consente delle robuste cure palliative, cioè di accompagnamento alla morte mediante sedativi, che configurano la possibilità di un’eutanasia passiva, cioè senza intervento attivo del medico. Adesso però – ed è uno dei titoli di merito del candidato Hollande – la proposta socialista apre, sia pure con cautela, all’eutanasia attiva, cioè alla possibilità, sotto certe condizioni, di dare la morte ai malati terminali. Per chiarezza, non si tratta di suicidio assistito (del genere di quello praticato in Svizzera da Lucio Magri qualche mese fa), ma dell’intervento di un medico, sulla base di un testamento biologico, per porre fine alla vita e alle sofferenze di chi in quel momento non è cosciente o comunque si trovi in una situazione d’incapacità decisionale. Una delle fondatrici dell’Associazione per il diritto a morire nella dignità, a favore dell’eutanasia attiva, è stata la madre di Lionel Jospin, il non dimenticato esponente socialista di alcuni anni fa, sotto il cui governo fu fatta la legge sulla diminuzione dell’orario di lavoro (le trentacinque ore).
È questo il senso profondo dell’individualismo moderno, che in Francia ha storicamente una patria di elezione: il cittadino deve vedere moltiplicate le sue potenzialità, la sua libertà, in ogni settore della vita sociale, dalla questione del tempo di lavoro, mediante una legislazione ad hoc, fino al diritto di morire con dignità attraverso un testamento biologico. Se non si mette al centro della visione socialista l’individuo, spingendola verso un individualismo sociale, con l’acqua sporca della modernità si rischia di buttare via anche il bambino.
6. Sinistre
Se si confrontano i programmi di Mélenchon (Front de gauche) e Hollande (Partito socialista), soprattutto sui temi di politica economica, si vede che tra di essi non c’è un abisso. Mélenchon non fa altro, da buon massimalista, che sparare più alto: per esempio, se Hollande propone un prelievo fiscale del 75% sui redditi al di sopra di un milione di euro, Mélenchon ne propone uno del 100% a partire da una soglia molto più bassa; oppure, se Hollande dice che si deve portare il deficit pubblico al 3% del prodotto interno lordo nel 2013, Mélenchon gli risponde che bisogna elevare lo Smic (che sarebbe il salario minimo garantito, una cosa che in Italia nemmeno ci si sogna) dagli attuali 1398 a 1700 euro, senza preoccuparsi neanche un po’ delle compatibilità di bilancio.
In questa situazione – che vede una crescita non indifferente di Mélenchon nei sondaggi, in probabile terza posizione al primo turno elettorale – un esponente della sinistra socialista, Arnaud Montebourg, ha detto che un accordo di governo tra il Partito socialista, i Verdi (ridotti, a quanto pare, ai minimi termini) e la sinistra radicale melenchonista, sarebbe auspicabile. Io non credo che sia così: in particolare che non lo sia tra il primo e il secondo turno.
Il sistema dell’elezione presidenziale francese – a due turni, e in un certo senso a tre se si pensa che, un mese dopo, si celebreranno anche le elezioni legislative, quelle per eleggere i deputati all’Assemblea – consente alla sinistra di riunirsi nelle urne al momento del ballottaggio, senza bisogno di un accordo preventivo. I voti andati al rappresentante del Front de gauche al primo turno convergeranno senza difficoltà su Hollande al secondo. Invece, quelli che non convergeranno affatto in maniera naturale su Hollande al secondo turno saranno i voti del centrista Bayrou al primo. Sarà su questi (oltre che su quelli dell’estrema destra di Marine Le Pen) che alla fine la partita si deciderà. Non c’è allora chi non veda come un’alleanza esplicita di governo (allo stato degli atti, tra parentesi, neppure richiesta da Mélenchon) tra i socialisti e la sinistra radicale avrebbe il solo effetto di spaventare l’elettorato centrista, che finirebbe con il votare per Sarkozy nel ballottaggio.
7. Monarchie repubblicane
Le elezioni presidenziali francesi, invenzione del generale de Gaulle insieme con l’intera costruzione costituzionale della quinta Repubblica (tra parentesi, nella storia francese le repubbliche sono cinque, in quella italiana a malapena una, e solo con una certa insulsaggine si parla di una prima e una seconda, talvolta perfino di una terza), furono pensate a misura del grand’uomo che lui stesso si sentiva di essere, avendo salvato a due riprese la Francia (la prima volta dopo la sconfitta dinanzi alla Germania hitleriana, difendendone l’onore e organizzando la resistenza, la seconda al tempo della guerra d’Algeria, con l’intervento “provvidenziale” che aprì all’indipendenza di quel paese). De Gaulle definiva l’elezione del presidente come “l’incontro di un uomo e di un popolo”: e non c’è definizione migliore, probabilmente, né più sintetica, della politica carismatico-populistica.
Il 13 giugno 1958, appena ritornato al potere, così il generale in un’emissione radiotelevisiva: “Da dodici anni il regime dei partiti, galleggiante su un popolo profondamente diviso in mezzo a un universo terribilmente pericoloso, si mostrava incapace di assicurare la condotta degli affari”. La quarta Repubblica era liquidata, sullo sfondo della sua impotenza a chiudere la guerra d’Algeria: d’ora in avanti, i partiti politici sarebbero stati secondari. Il 20 settembre 1962, infatti, così ancora il generale: “La chiave di volta del nostro regime è la nuova istituzione di un presidente della repubblica designato dalla ragione e dal sentimento dei francesi per essere il capo dello Stato e la guida della Francia”. Era la proclamazione di un nuovo bonapartismo, della monarchia repubblicana che da quel momento a oggi avrebbe governato la Francia.
Con de Gaulle, tuttavia, sarebbe stata anche l’ultima volta che una concezione “eroica” della politica si sarebbe “fatalmente” combinata con l’esaltazione della sovranità popolare e l’idea di un’elezione diretta di sapore plebiscitario. Sono tutti gli ingredienti che, in maniera più o meno degradata, avremmo visto all’opera negli anni successivi (anche in Italia) per mezzo di una retorica man mano sempre più vuota.
Oggi l’Ump (Unione per un movimento popolare), il partito sarkozysta che si richiama all’eredità del gaullismo, non è molto di più che un grosso comitato elettorale composto da vari cacicchi che si contendono i posti di potere. Il maggiore partito della sinistra, quello socialista, non è – bisogna ammetterlo – un partito di militanti ma di amministratori e funzionari (anche qui spesso in lotta tra loro) che, in larga misura, vivono del ricordo di quell’altro “monarca repubblicano” che fu Mitterand. La concezione gaullista, in questo senso, ha scavato in profondo, contribuendo a demolire l’idea stessa del partito politico. E neppure c’è più la parvenza, ormai, di quell’incontro di un uomo con il suo popolo che, quantunque in modo carismatico-populistico, nutriva ancora l’idea di una politica in senso alto, determinata a imprimere il suo segno – vanità o aspirazione che fosse – nel corso del mondo.
[da “Il Ponte” on line, dove è possibile leggere altre pagine di questo taccuino elettorale]
[Immagine: Tour Eiffel (gm). http://dailyphotoparis.blogspot.it]
Ottima analisi, e molto utile per orientarsi nella situazione politica francese.
Alcune osservazioni, per ragionare sulla sinistra e sui nostri guai.
Programmi politici. E’ giusto: bisogna combinare un progetto di controllo sociale sull’economia con l’individualismo sul terreno dei diritti civili. Il primo lato è molto difficile, sul terreno degli strumenti, ma correttamente la risposta di Hollande è posta al livello europeo. Questo deve essere l’obbiettivo delle sinistre. Per esempio puntando alla revisione del fiscal compact e all’abbandono di rigidi vincoli di bilancio. Questo però è possibile solo su un piano sovranazionale.
Alleanze politiche. La base deve essere un programma, come quello di Hollande, per dire. Poi si determinano le convergenze, se il sistema politico funziona. Da noi il problema è un sistema politico imballato e non rappresentativo, e un sistema elettorale che impedisce una formazione naturale delle convergenze. Da tempo penso che il doppio turno potrebbe risolverci molti problemi.
Utopia concreta. Certo, se riuscissimo a trovarne la formula, permetterebbe di recuperare il consenso perduto dalla sinistra nei gruppi sociali marginalizzati. Non vedo tuttavia come trovare questa formula. Su un piano non utopico, dico però che la base di questo recupero deve essere uno stato che assicura servizi e protezione sociale, quindi uno stato che funzioni. Hollande può fare un programma che promette qualcosa del genere, perché uno stato simile esiste. Da noi la lacuna, enorme, è proprio questa: l’assenza dello stato, la sua impotenza, il suo essere totalmente in mano a cricche. La sinistra deve costruire questo tipo di progetto aggiungendovi la lotta anche per l’efficienza dello stato (tema che in altri contesti non è di sinistra).
Populismi e sinistra. Il nostro Mélanchon è Grillo (o forse Mélanchon è il loro Grillo). La semplificazione, che propone progetti irrealizzabili solo per far scatenare la rabbia della gente. Questo contribuisce solo a frammentare la sinistra. Se ne esce se si danno risposte concrete. Con un programma democratico-sociale come quello di Hollande; in più, da noi, con qualcosa di radicale sul sistema politico. Senza cadere in errori, però: il finanziamento pubblico ai partiti (che ci ha rimesso tra i piedi Grillo in questi giorni) serve a una democrazia, si tratta di farlo bene.
Il fatto è che le resistenze della Merkel saranno in ogni caso enormi, anche per l’appuntamento elettorale tedesco del prossimo anno.
Il punto quindi mi pare stia nella perseveranza di Hollande sul suo obiettivo a livello europeo, lì si possono chiedere ricontrattazioni solo se si è pronti a spaccare l’europa così come sta andando avanti, anche scontando che per primo Monti starà dalla parte della Merkel, come appare inevitabile.
Non conosco Hollande, ma a occhio e croce non mi pare un tale cuor di leone da scommettere tutto su un progetto così drastico come questo, e ciò in definitiva significa che la vittoria di Hollande non è che cambierebbe granchè le cose, continuando una linea di comportamento suicida della socialdemocrazia europea in questi ultimi decenni.
Caro Cucinotta, la socialdemocrazia reale avrà anche un atteggiamento suicida, come dice lei: ma per muoverci verso un socialismo possibile è da lì che bisogna partire, da ciò che c’è. Il mio partito, se ce ne fosse uno, si chiamerebbe Rifondazione socialdemocratica…
A Mauro Piras risponderei che l’utopia (qualsiasi cosa debba intendersi con questa parola) è necessaria per spingere le cose in avanti: senza un briciolo di utopia non si fanno nemmeno le riforme più elementari. Se Hollande (sempre ammesso che sia eletto) resterà preso nella trappola della Merkel e dell’Europa attuale, ciò accadrà per non avere saputo sognare un’altra Europa. Riguardo all’Italia, e al confronto tra l’Italia e la Francia, la penso esattamente come Piras: in Francia uno Stato c’è, e le cricche e il populismo demagogico non sono tutto. In Italia, invece, bisognerebbe ricominciare da zero. Per prima cosa ci vorrebbe un’idea di partito politico, contro il qualunquismo diffuso e montante. (Attenzione, però, Mélenchon non è Grillo: ha alle spalle ben altro che il semplice qualunquismo, un’idea “repubblicana” e giacobina, il Pcf residuo, etc.).
Grazie per questa bella analisi politica e soprattutto sociale.
Concordo particolarmente sull’idea di “Una posizione (francese, molto diffusa al di là degli schieramenti) che vede l’alterità sempre come un pericolo potenziale da ridurre all’identità.” Mi pare – vivendoci – che la Francia non abbia mai investito abbastanza sulla valorizzazione dell’alterità, della ricchezza portata dalla differenza dei suoi abitanti e immigrati. Ricchezza senza dubbio più grande di quella dell’assimilazione un po’ illusoria e a volte solo formale, che vuole definire tutti semplicemente francesi… e che cosi’ si ritrova ad escludere tutte le sfumature.
Negli ultimissimi tempi si sta cominciando ad educare i francesi “de souche” a questa diversità positiva tutta da valorizzare.
E’ un po’ tardi ma (speriamo) non troppo, e una virata verso gauche potrebbe davvero ridare all’Europa intera un senso di apertura all’alterità.
Caro Genovese,
chiaramente il mio breve intervento non era sulla socialdemocrazia ma sull’attualità politica europea, su cui mi pare lei sorvola.
Questo suo evitare di considerare la durezza della situazione e la conseguente radicalità delle scelte che abbiamo di fronte, in realtà sono coerenti con questo suo appoggio, apparentemente incondizionato a chiunque si presenti come socialdemocratico.
Voglio dire che socialdemocrazia alla fine è solo una parola, il cui significato è profondamente segnato dalla storia recente di coloro che hanno operato politicamente dichiarandosi tali.
Se la socialdemocrazia in europa si è caratterizzata come colei che ha spalancato le porte dei sistemi politici continentali al liberismo odierno, davvero non si capisce su cosa si possa basare in maniera minimamente credibile questo credito da parte di coloro che dichiarandosi oggi socialdemocratici, si assumono invece inevitabilmente la pesante tradizione di questa storia.
Dopo le esperienze di Tony Blair nel Regno Unito, come del duo Prodi – D’Alema in italia (tacendo penosamente sull’appendice veltroniana) che sono stati i più globalisti politici europei, dopo la deludente esperienza di Zapatero che sancisce la monodimensione libertaria della sinistra europea, incapace di avere un proprio indipendente punto di vista di politica economica, la socialdemocrazia dovrebbe quantomeno fare i conti con questo passato recente per superarlo, sennò la socialdemocrazia è morta, è una parola che può evocare solo esperienze fallimentari.
Allora, caro Cucinotta, siamo d’accordo sulla diagnosi (più o meno, perché io non inserirei la stravagante vicenda del centrosinistra italiano nell’ambito del socialismo europeo): così com’è, la socialdemocrazia reale non va. La differenza sta nelle soluzioni prospettate: lei vorrebbe uscire dal socialismo europeo, propone infatti una “ideologia verde”; al contrario, io penso che, pur integrando al suo interno un’idea di sviluppo sostenibile (non di decrescita, però), è sul terreno del socialismo europeo che si debba restare per tentare di cambiarlo. Confidare nei “movimenti”, ad ogni modo, non mi sembra sufficiente: se non c’è un’idea di partito (soprattutto in Italia, dove ormai regnano il qualunquismo e l’antipolitica), non si va da nessuna parte.