di Michele Marchioro

 

La 79esima mostra del cinema di Venezia si è aperta in un contesto politico drammatico che tuttavia non è sembrato turbare il regolare svolgersi della manifestazione; i motivi per aspettarsi maggiore attenzione all’attualità da parte dell’organizzazione e degli artisti erano numerosi ed evidenti: dall’espansione dei teatri di guerra alla recrudescenza del conflitto sociale, dalla campagna elettorale più a destra della storia del paese alla crisi climatica che minaccia di travolgere fisicamente anche la città stessa. Tuttavia, se guardiamo come si è conclusa, la realtà esterna alla bolla ipersorvegliata della Mostra del Cinema ha finito per avere una sua importanza: da una parte per la premiazione di film che delle crisi attuali sono spesso espressioni coscienti, dall’altra per la partecipata manifestazione pacifica per la giustizia climatica organizzata da Fridays For Future, XR e altre realtà del nordest italiano che è stata bloccata dalla polizia a pochi metri dal red carpet.

 

Quest’ultima è stata la conclusione di tre giorni di incontri, dibattiti e laboratori con interventi e ospiti da tutto il mondo: dalle lotte indigene latino-americane alle YPG curde, dai movimenti femministi dell’Est Europa a quelli anti-estrattivisti africani, che hanno raggiunto il Lido per il Venice Climate Camp. Gli attivisti hanno cercato di raggiungere il palazzo del cinema come già avevano fatto nel 2019, ma stavolta si sono trovati di fronte almeno 100 poliziotti in tenuta anti sommossa che li hanno respinti con estrema violenza, e utilizzando idranti e manganelli. Malgrado la scarsa attenzione riservata alla mobilitazione da parte dei media principali e dalla mostra stessa (esclusa una breve visita del Presidente e la partecipazione a un laboratorio su arte, genere e decolonialità della regista Benedetta Argentieri, che alla mostra ha presentato l’apprezzato The Matchmaker), la manifestazione è stata un importante passo in avanti verso una convergenza italiana e la costruzione di un movimento climatico globale. Vedremo se questa unità si rinnoverà e troverà la forza di allargarsi nei prossimi appuntamenti il 23 settembre per il Global Climate Strike, il 22 ottobre alla manifestazione prevista a Bologna, e a novembre a Napoli nel tentativo di coinvolgere maggiormente il sud Italia.

 

Anche la giuria ha dato dei segnali in direzione di una apertura ai temi sociali, o forse anche il cinema che si pretende di autore oggi non può ignorarli. Il Leone d’oro è stato attribuito in maniera abbastanza incomprensibile a All the beauty and the bloodshed, un documentario ben fatto su contenuti attuali e importanti, in cui Laura Poitras segue la lotta del collettivo P.A.I.N. contro l’azienda farmaceutica della famiglia Sackler, produttrice di oppioidi e ritenuta responsabile della morte di milioni di persone, raccontata attraverso la vita e l’impegno della fotografa Nan Goldin.
Il film affronta temi urgenti e speriamo aiuterà a evitare la rimozione collettiva della pandemia che è già in atto, ma che risulta formalmente povero di idee, spesso scontato, e il cui tono moraleggiante finisce per essere ripetitivo. Una storia costruita e raccontata secondo i canoni del documentario tradizionale, che non sperimenta e non lascia esprimere la potenzialità dell’immaginazione, della fantasia – in fin dei conti del cinema – che i suoi personaggi avrebbero probabilmente meritato.

 

I due film più originali che erano in concorso sono stati invece Saint Omer di Alice Diop e l’atteso No Bears di Jafar Panahi, premiati uno con il Leone d’argento della Giuria, e l’altro con il Premio Speciale.
Diop, al suo primo film di finzione, ricostruisce un processo a una madre rea confessa dell’uccisione di sua figlia. Riprendendo la lezione della Medea pasoliniana, l’autrice ha scritto una sceneggiatura che si interroga sulla misura in cui le scelte individuali anche più estreme e socialmente meno accettate siano scelte individuali o piuttosto influenzate dalle strutture sociali. Ciò che appare delittuoso non è l’atto dell’infanticidio, né i rimorsi e il panico del padre non all’altezza del suo ruolo – simbolo di un uomo bianco fragile, stanco e impaurito di fronte ai propri stessi miti e modelli di paternità e mascolinità, la cui faccia più aggressiva è invece rappresentata dall’avvocato accusatore – ma le condizioni culturali e politiche che hanno portato al fatto.
La capacità stravolgente del film sta nell’affrontare tematiche generali senza trascurare le individualità; ponendo la tecnica al servizio dei personaggi e delle loro parole. Ritroviamo al centro della narrazione proprio le prospettive soggettive diverse e conflittuali, i diversi interessi in gioco. Così i dialoghi, il montaggio e perfino i colori fanno emergere i rimossi, i traumi e le contraddizioni di ognuno di loro, e come questi siano cause e conseguenze di uno stesso sistema patriarcale e colonialista. Non può esserci sentenza quindi, l’atto tragico in sé è per Diop una maniera di interrogarsi sulle istituzioni, a partire dalla famiglia e dal significato di essere madre, biologicamente e sentimentalmente, in un tempo in cui fare figli sembra perdere ogni giorno il suo senso. La tragedia (come nel film di Panahi) è infine vissuta con un senso di ineluttabilità, l’atto negativo assume i contorni di un evento irreparabile già prima che esso sia commesso, come se nel nostro tempo la tragedia fosse già presente e scontata e se ne attendesse solamente l’avvento.

 

Il film No Bears era atteso con emozione, e la sala si è effettivamente avvolta di un’atmosfera particolare durante la proiezione – non fosse altro che per la poltrona vuota lasciata dal regista. C’è da dire che la pellicola non ha tradito le attese: drammatica e machiavellica, in perfetta continuità con la migliore tradizione del cinema iraniano. Attraverso un’indagine antropologica della campagna iraniana, che rifiuta sia i tratti divulgativi del documentario classico, sia il manierismo formale che ha pervaso il cinema di autore di questi anni, Panahi riflette sulla figura di un regista (interpretato da se stesso) che si trova di fronte alla caduta della credibilità e rappresentabilità della realtà: oltre al pubblico, nemmeno gli attori credono più al regista, e attraverso di loro la storia si ribella a lui, come se fosse impossibile raccontare questo mondo senza urlare contro la telecamera (non a caso si parla sempre più di cinema iperrealistico). Panahi si ritrae mentre cerca pazientemente di tessere le fila di un film evidentemente impossibile da realizzare, se non filmando gli stessi tentativi disperati di completarlo. Riuscire a tenere insieme tutti gli strati narrativi con la complessità dei temi trattati è forse la più grande dimostrazione di conoscenza cinematografica presente in concorso e in tutta la carriera dell’autore (e forse meritava per questo qualcosa in più dalla giuria), ma quel che impressiona maggiormente sono il coraggio e la determinazione che necessari a terminare un film pericoloso e spericolato come questo.

 

[Immagine: Locandina di No Bears di Jafar Panahi].

1 thought on “La Mostra del cinema non è una sfilata di gala

  1. Quando si descrive un film si deve partire dalla trama, non dal commento critico; altrimenti non si capisce nulla e si rischia di allontanare il lettore dalla critica cinematografica. Resta il fatto che la Mostra del Cinema di Venezia è soprattutto una parata di stelle, soprattutto comete e non stelle fisse nel firmamento dello spettacolo. Uno che non è andato a vederla pretende di sapere per altri canali, cosa è stato presentato e cosa ha colpito maggiormente; non cosa ne pensa il “critico” di turno.

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