di Giovanni Giudici
[È da poco uscita per Ledizioni la riedizione della prima raccolta di saggi di Giovanni Giudici, «La letteratura verso Hiroshima e altri scritti 1959-1975», a cura di Massimiliano Cappello. L’estratto che pubblichiamo è apparso originariamente con il titolo di «Rimbaud e la “querelle”» sul secondo numero di «Questo e altro», rivista di cui quest’anno ricorre il sessantennale, su invito di Vittorio Sereni. La “querelle” cui si fa riferimento è quella neo-avanguardistica.]
Dunque, Rimbaud come poeta «industriale»? Ho raccolto un invito a rileggere le Illuminations, in particolare le più presumibilmente «londinesi», a ripercorrere il sentiero di una lotta liberatrice che a suo modo un poeta condusse contro le stesse forze, le stesse situazioni, contro le quali qualche anno prima Marx aveva eretto un’altra «illuminazione londinese» chiamata Il Capitale, pagina su pagina dalla biblioteca del British Museum; mirando entrambi, con analoga ansia di futuro, alla nouvelle harmonie di un mondo e di una storia veramente umani, che una rottura rivoluzionaria avrebbe sostituito all’ancienne inharmonie.
In che senso e in che misura – per via «di suggestioni e di ipotesi, non di precetti» – l’esempio delle Illuminations, contestazione poetica di un ordine-disordine, quello della prima rivoluzione industriale, già contemporaneamente oggetto di’ contestazione storica e politica in chiave di un’ideologia d’interpretazione e di denuncia e di tendenziale liberazione, può oggi consigliare la ricerca poetica, diciamo semplicemente l’atteggiamento della letteratura, davanti all’ordine-disordine della seconda o magari già terza rivoluzione industriale?
Lasciamo agli specialisti l’onere della lettura (o di un’eventuale rilettura) analitica, di una nuova esegesi, e accontentiamoci di qualche annotazione d’ordine generale, che ci consenta per analogia di fruire di quell’esperienza nel quadro dell’ormai quasi ozioso dibattito su letteratura e industria (ormai quasi ozioso, nella fattispecie, perché al di là dell’occasione giornalistica mostra la corda dell’annosa e mai univocamente risolta, né forse risolvibile, questione del generale rapporto tra lo scrittore e la realtà-oggetto).
L’autore della voce Rimbaud nel Dizionario universale della letteratura contemporanea ha ragione quando, a proposito delle Illuminations, dice che «adesso egli [Rimbaud] non pensa a “cambiare la vita” se non rappresentandone all’estremo gli elementi in contrasto»: ma appunto in questa «dialettica scatenata tra il reale e il surreale», tra il rapporto immediato e brutale soggetto-oggetto e la sua ricomposizione prospettica nella nuova sintesi, vanno colti, a mio parere, e del resto abbastanza ovviamente, il senso storico, la significazione politica (almeno per noi) dell’opera, il risultato di quel rapporto uomo-mondo.
Da una parte «les vilaines odeurs des jardins ravagés et des prés desséchés», « les ambitions continuellement écrasées», «les âges d’indigence», il «désert de bitume», la «vision esclave», la liquidazione («Solde») di ogni desiderabile bene, le «plus monstrueuses exploitations industrielles ou militaires»; all’altro polo della tensione, l’«habitation bénie par le ciel et les ombrages», l’«autre monde», «notre ombre de bois, notre nuit d’été», la «joie du travail nouveau», «la ligne des orients, des progrès», il comunardo «pavillon en viande saignante» e magari (col virile realismo che toglie ogni sospetto d’idillio alla visione messianica) «le chant clair des malheurs nouveaux». Non in questo semplice contrasto, quale da una rapida sequenza di citazioni potrebbe apparire, è naturalmente la sostanza della poesia: ma nei modi in cui esso si esprime, modi in cui tanto prevale il dato positivo, il dato della voyance, quanto più potente è la forza liberatrice della poesia stessa. Potrebbe sembrare a volte un’elegiaca nostalgia di paesaggi naturali e naturalmente liberi in opposizione a un macchinistico squallore urbano (e tuttavia nemmeno per Rimbaud la parola «natura» poteva aver più una significazione necessariamente botanica): ma che è ben altro lo sappiamo, quando nella visione avveniristica (cfr. ad esempio Promontoire) i dati più esterni e materiali del progresso ci appaiono integrati in un paesaggio «babilonese», in un cielo aperto che da lontano (come atmosfera) ricorda le ultime pagine dell’America di Kafka.
Sono visioni che si proiettano al di là di un vaticinato e invocato déluge, destinato a restituire il morido a quella simbolica (cfr. Mouvement) «couple de jeunesse» che «s’isole sur l’arche […] et chante et se poste», destinato a restituire il mondo a un suo avvenire umano che «où ne sera point un effet de legende». È dunque (a parte il resto) questa prospettiva rivoluzionaria che segna un deciso discrimine tra la poesia delle Illuminations e l’elegia tardo-romantica: la poesia di Rimbaud, anche quando sembra guardare a qualche sorta di boschereccio idillio, resta una poesia di futuro, appunto per la sua acre consapevolezza del presente, che è negazione dell’idillio come nostalgia e premessa per il suo recupero, adulto e positivo, in una nuova realtà. Rimbaud vede il presente, insomma, alla luce di una concezione del futuro. Non si arrende al presente, lo contesta; perfino, accogliendone gli stimoli occasionali, trasfigurandone i dati… È quasi scontato citare da Alchimie du verbe: «[…] je voyais très franchement une mosquée à la place d’une usine».
Il problema che qui ci interessa è del rapporto di questa poesia con un certo «paesaggio» urbano e industriale, meglio con un certo mondo già dominato o in via d’esser dominato dall’industria e quindi dal «mutamento a livello industriale che la cosa industriale comporta in ogni altra specie di cosa» (leggi: anche nei valori e nei rapporti interumani); da una industria che è sì, per rifarci ancora a una formulazione di Pignotti, «quella che si vede, quella delle ciminiere e delle macchine, quella che impressionò la letteratura fine-ottocento», nella stessa misura in cui la cultura di Rimbaud è una cultura fine-ottocento; ma che, nell’altrettanta misura in cui la poesia di Rimbaud non è letteratura fine-ottocento, è anche un’industria «che non si vede», un’industria già tradotta sul piano delle conseguenze generali che il rapporto di produzione nella sua configurazione capitalistica comporta. Nella misura in cui il giovane simpatizzante comunardo (il lettore di Michelet e di Vermersch e di Quinet, ma anche di Owen – per quella già citata e sintomatica «nouvelle harmonie» – e quasi certamente del Manifesto dei comunisti) ha preso coscienza dell’universo di rapporti di cui fabbriche e ciminiere (non come tali, ma in quanto, ripeto, appartenenti ad un determinato contesto, ispirato a determinate concezioni del mondo, ecc.) sono il simbolo affiorante, la sua voyance poetica acquista una significazione rivoluzionaria, diventa una proposta di trasformazione del mondo e, quindi, rispecchiamento magari indiretto di una realtà immediata, appropriazione di questa realtà attraverso il giudizio che su di essa medesima esprime; e il contributo conoscitivo, di coscienza, che da questa voyance ci deriva è il risultato di un rapporto che modifica il senso del numeratore-oggetto in ragione dell’intervento del soggetto-denominatore. Il poeta non si rassegna a notaio della storia; ma si pretende ad attore, e fa la sua parte: cerca di capire, sì, la realtà immediata, ma non si esime dal prendere posizione, dal giudicarla riproponendola in una misura e in una prospettiva umane.
Ma a questo punto ci si accorge facilmente come l’aggettivo «industriale», giustapposto a «letteratura», diventi superfluo: essendo tale aggettivo semplicemente connotativo di una realtà storica dai particolari caratteri, di una civiltà macchinistica che è semplicemente la civiltà, che è semplicemente il mondo con cui deve fare i conti chiunque in esso viva; e che non è giudicabile, in bene o in male, per questi suoi particolari caratteri, bensì per e in base al valore del rapporto fra questi caratteri e l’uomo, in base dunque alla sua significazione politica. In un mondo dominato dall’industria, da quella che si vede e da quella che non si vede, non è certo possibile far letteratura significante a prescindere dalla realtà storica in cui si attua l’esperienza culturale e biografica, politica, umana, del soggetto attivo letterario; tanto è vero che ormai tutti sono d’accordo non qualificarsi la letteratura industriale per i suoi contenuti specifici (fabbriche, eccetera), bensì per la consapevolezza diciamo pure del «mutamento a livello industriale che la cosa industriale comporta in ogni altra specie di cosa». Ma c’è da aggiungere che la «cosa industriale» (e quindi il mutamento che essa comporta in ogni altra specie di cosa) non è alcunché di generico e indiscriminato, identico – per rifarmi allo scritto di Fortini nel «Menabò» 5 – alla Zis come alla Renault, in quanto il valore da essa assunto in relazione all’umano (alla «causa dell’uomo», la sola che ci interessi) muta col mutare del rapporto fondamentale di produzione all’interno dell’industria che si vede. È con questo dato elementare che anche (e direi soprattutto) lo scrittore ha da fare i conti e, naturalmente, con tutte le conseguenze che da esso derivano (si veda in proposito, ancora in «Menabò» 5 l’articolo di Gian Luigi Bragantin su La questione del potere). È sulla natura di questo dato, sul suo dover essere in un modo piuttosto che in altro, che lo scrittore (e anche il non scrittore) deve prendere posizione; è da questa presa di posizione che parte necessariamente ogni concezione del mondo (anche se sia una semplice non-concezione). È nei confronti di questo dato che bisogna pronunciale un sì o un no fondamentale.
Il dilagare di un’industria in cui le meraviglie della tecnica tendono a esorcizzare la decisiva questione del potere dovrebbe, a mio avviso, provocare nello scrittore un’attenzione maggiore a questo punto: alla scoperta dei molti modi e circostanze in cui l’umano è portato nella nostra condizione storica «industriale» a naufragare e, contemporaneamente, alla promozione dell’umano nei termini della prospettiva poetica, per cercare di «cambiare la vita», «rappresentandone all’estremo gli elementi in contrasto». Possiamo imparare questo da Rimbaud.
Invece mi sembra che da molte parti, e non prive d’autorità e di suggestione, si stia ponendo l’accento sulla pretesa necessità di una riforma sostanziale dell’atteggiamento dello scrittore nei confronti della realtà-oggetto; in concomitanza (vedi il caso) con l’affermarsi di un costume politico in grazia del quale e per virtù del quale tutti la pensano più o meno allo stesso modo e «siamo tutti un po’ socialisti» (il socialismo è diventato una specie di vaccino contro sé stesso). E mi sembra che, all’insegna dello scientifico, del nuovo, all’insegna di una operazione filosofico-politica a largo raggio, da lungo tempo in atto e destinata a mettere in crisi l’idea di concezione del mondo incoraggiando nei più pavidi o nei più interessati la comoda paura, denunciata da Brandys, «di fronte agli scopi posti dalle ideologie», si sia fatto strada quasi al livello della moda un atteggiamento precisamente antitetico a quello che ho cercato di delincare. Le due posizioni sono state enucleate con rigoroso distacco da Vittorio Sereni proprio sul primo numero di «Questo e altro», allorché egli ha parlato di «una querelle o piuttosto una scommessa tra chi agisce al di qua di una interpretazione del proprio tempo sentendosi e vedendosi nel proprio tempo, ma lasciandone interpretazione e definizione al posteriore – o simultaneo? – intervento della storia, e chi storicizza a priori, per così dire, sé stesso e il proprio tempo in una interpretazione e definizione di cui si fa, oltre che una base di propulsione, uno strumento». (Ora mi sembra che la contestazione di Rimbaud, proprio riletta oggi, si collochi nella seconda schiera e che anche l’autore delle Illuminations abbia diritto ad un suo stallo nell’ordine dei Cavalieri d’Apocalisse di cui Vittorini ci parla con tanto sdegno).
Per tornare alla prima delle due posizioni, a quella che molti tendono accesamente a ritenere le bon côté de l’affaire, dirò che non intendo disconoscerne a priori la plausibilità metodologica a differenza di chi si affretta a bollare di neotradizionalista chiunque operi in direzione diversa; ma mi limiterò a ricordare che al livello individuale e pratico, al livello politico, al livello etico e (perché no?) anche al livello letterario essa sembra prestarsi a troppi scivolamenti e a troppe comodità, in quanto ricorda (come, sempre in «Menabò» 5, avverte Umberto Eco nel suo abilissimo e discutibilissimo saggio) «la posizione di certi gnostici, ad esempio Carpocrate, i quali affermavano che […] occorre passare totalmente attraverso l’esperienza del male, conoscere ogni bassezza, proprio per uscirne finalmente purificati». E aggiunge Eco che «la conseguenza storica di queste persuasioni furono i riti segreti dei templari, le perversioni portate a livello liturgico di tutta una chiesa sotterranea […]».
La «nuova chiesa» di cui ho finito per far cenno in questo scorcio di discorso è assai meno trista e perversa, ancorché volendo accettare i termini proposti al punto 8 del divertente questionario di A. Giuliani e G. Manganelli nel «Verri» (1962, n. 2), mostri (in metafora deamicisiana) di ispirarsi più al Franti che al Garrone nell’elaborazione delle sue poetiche; e i meno bigotti fra i suoi fedeli sono forse proprio quelli destinati a darci, in tanto delirio di poetiche, qualche probabile risultato di poesia. Che applaudiremo. Ma soprattutto in materia di poetica (o di poetica e politica; o magari soltanto di politica) e soprattutto al livello del discorso letterario-industriale mi si consenta di rifiutarne il battesimo e di esprimere un voto contrario.
Perché sarà certamente doveroso e opportuno domandarsi, prima di scrivere una poesia su una rosa, se per caso non si tratti di una rosa di plastica (in altre parole prender atto dei termini particolari in cui in tutta la sua complessità ci si rivela ila società che siamo); ma assai più doveroso e opportuno sarà al tempo stesso ricordare che la plastica, utile ritrovato, non serve essenzialmente a fabbricare rose e che l’optimum delle sue destinazioni (in altre parole: la prospettiva e gli scopi della storia umana) non può non esser materia di decisione e di scelta politica. In questa decisione e in questa scelta sta il rischio della contestazione, della vera scommessa: che può essere rischio della sconfitta, ma anche del suo contrario.