di Michele Marchioro

 

[Ricordiamo la figura di Jean-Luc Godard riprendendo questo articolo sul suo ultimo film, apparso su Le parole e le cose il 5 maggio 2020]

 

In un’intervista rilasciata l’anno scorso a France Culture per presentare il suo ultimo film, Jean-Luc Godard ha affermato di esser riuscito a realizzare un cinema politico solamente negli ultimi cinque o sei anni di carriera, avendo a lungo creduto, erroneamente, che quest’idea coincidesse con un cinema che affronta direttamente temi politici. Fu questo, a suo dire, il grande errore del periodo Dziga-Vertov degli anni ‘70, quando la collaborazione con gruppi maoisti emersi dal ’68 francese aveva prodotto film sulle lotte sociali del periodo. Se tale stagione artistica viene oggi definita un fallimento, allo stesso tempo spinse un Godard sempre più interessato al montaggio a sperimentare nuove vie per realizzare l’idea brechtiana di fabbricare il cinema in maniera politica. Il “non ci sono immagini giuste ma giusto delle immagini” che stava scritto su una tavola di Vent d’est (1970), significa che le potenzialità rivoluzionarie della camera non si trovano più nel cinema “civile”: il Realismo Sovietico non ha funzionato, e il Neorealismo è stato l’ultimo grande momento in cui l’arte ha giocato un ruolo morale socialmente edificante; se ci si ostina a fare quel tipo di cinema politico la morale finisce per prevalere sull’etica, e l’arte diviene presto propaganda. Per Godard non è più il soggetto ad avere una rilevanza politica, benché esso non sia ovviamente un elemento trascendente, bensì è il processo produttivo del film, e in particolare la fase del montaggio con i suoi accostamenti, dissonanze, sovrapposizioni, a dare un significato politico a suoni e immagini. In Livre d’image[1], proseguendo questa riflessione, il cineasta franco-svizzero si propone di indagare allo stesso tempo un soggetto e un metodo; nella misura in cui riesce a fare dell’atto artistico stesso anche una critica estetica, si può dire che questo sia il punto di arrivo di anni di esperimenti, oltre che probabilmente l’opera più raffinata di tutta la sua carriera.

 

Ad una prima visione tutto ciò potrebbe non apparire; Livre d’image richiede di essere visto più volte[2] e ogni visione chiarisce progressivamente il suo significato, senza però mai lasciarsi recuperare da una comprensione analitica o cartesiana, morte di ogni sguardo sull’arte. Ciò significa che i frammenti che compongono il testo non possono essere conosciuti in quanto tali, essi restano dei significanti vuoti o aperti all’interpretazione ipersoggettivistica postmoderna, se non vengono colti all’interno della totalità in cui si trovano, cioè dell’opera. Come nella poesia modernista di Pound, il mondo reale è riprodotto nella sua frantumazione sociale e l’artista cerca di costruire nuovi significati a partire da quel che resta delle certezze passate; ma rispetto a certa poesia che ha reagito all’angoscia moderna rifugiandosi in una rivalorizzazione di strutture e gerarchie tradizionali, Godard adotta una visione per cui gli sconfitti della storia sono l’unica forza creatrice in grado di riscattare l’umanità. Nell’atomizzazione individualistica tipica della modernità capitalistica, ciò emerge solamente se si osserva l’opera come una totalità composta da contraddizioni e calata nel suo tempo. Per questo i piani di lettura si intrecciano, rendendo impossibile un racconto esaustivo della ricchezza travolgente messa a disposizione del nostro sguardo. Si può tuttavia ragionare a partire da alcuni spunti politici e alcune indicazioni di metodo che emergono da Livre d’Image.

 

In principio è la struttura del film che colpisce. Livre d’image è una dialettica del montaggio che si svolge in cinque momenti, cinque capitoli che inseguono e ripercorrono allo stesso tempo la storia del cinema. Come per la forma del poema “esiste un’escatologia iscritta nel ritmo del verso e nel susseguirsi delle strofe”[3], allo stesso modo soggiace alla narrazione di quest’opera una sorta di destino religioso, che sembra compiersi nel ritmo dell’incedere delle immagini. Questa teleologia si realizza nella misura in cui l’immagine proiettata è anche già attesa dell’immagine successiva, e soltanto la venuta, l’epifania di questa può completare il senso di ciò che l’ha preceduta. In particolare, questo procedimento trae la sua forza non da immagini brutali o fantastiche, come è invece il caso di gran parte del cinema commerciale attuale, ma da associazioni di idee che sono “lontane e giuste”, come aveva detto lo stesso Godard in JLG/JLG, Autoportrait de décembre (1994).

Cinque capitoli abbiamo detto, perché “cinque sono le parti del mondo, cinque sono i sensi e cinque sono le dita della mano, e la condizione dell’uomo è pensare con le sue mani”[4]; premessa indispensabile è quindi la necessità di una dialettica fra teoria e pratica, condizione non solo di ogni tecnico del cinema, per cui è necessario confrontarsi con i mezzi tecnici della riproduzione di immagini e suoni, ma condizione esistenziale di ogni essere umano.

 

1. Remakes

 

La prima parte, come lo era stato per “I profeti” delle Histoire(s) du Cinéma, è una ricerca sul principio del cinema, del fiat che sottrae ogni immagine all’oblio, e cioè la mimesis, la messa in scena della realtà esistente che in maniera più o meno cosciente è presente in ogni immagine. Questo sembrano significare i “Remakes” che danno il titolo al primo capitolo del Livre, dedicato alla riproduzione della realtà: essa può trovarsi nella citazione di un altro film (come un dialogo d’amore de Le petit soldat che citava Johnny Guitar), o nelle scene degli abusi di Salò che vengono paragonate a quelle di uomini addestrati alla guerra, o ancora gli eccidi in Paisà che restituiscono sotto forma artistica dinamiche presenti negli omicidi dell’ISIS. In sostanza ci viene mostrato come certe situazioni reali particolari sono state riprodotte nell’arte, mettendole in scena in maniera da dare loro una generalità che conduca lo spettatore a un’interrogazione.

 

2. Les soirées de St. Petersbourg

 

“Les soirées de St. Petersbourg”, che tratta del carattere sacralizzato e perpetuo della guerra, prende il nome dal capolavoro della letteratura controrivoluzionaria che ispirò la Restaurazione, scritto da Joseph De Maistre nei primi dell’Ottocento durante il suo esilio nella capitale russa. De Maistre non è qui il cattivo a cui opporre la bontà di altri, Godard rifiuta la morale, non monta sulla predella come gli è stato a lungo rimproverato, non è sua intenzione spiegare, al contrario tenta di disporre alla riflessione, fornisce elementi di analisi. Il fatto che la realtà storica sia mostrata, e non spiegata, non deve però lasciar pensare a una neutralità dello sguardo: come lo storico materialista descritto da Benjamin nelle Tesi, Godard si situa con lo “sguardo triste” dei vinti nella San Pietroburgo alla vigilia della battaglia di Borodino, dove la nobiltà, incurante della morte che si consuma sui campi di battaglia, continua i suoi riti festivi, i suoi divertissements, le danze autocelebrative.
L’artista non è giudice, egli osserva i responsabili della guerra, ma non gli interessano le singole individualità che popolano la corte zarista del tempo; quella guerra non rappresenta per lui la campagna russa di Napoleone, è piuttosto un punto di partenza per considerare la guerra in generale come eterno fondamento delle società umane. De Maistre gli è particolarmente utile perché nella definizione del boia come “la pietra angolare della società” ha enunciato ciò che le classi dominanti tendono a nascondere: nel loro tentativo di ammantare la guerra di sacralità, di farla apparire un sacrificio necessario alla continuazione della specie, i potenti celano il fatto che essa sia in realtà un dispositivo di mantenimento della ricchezza dei pochi. “Così si compie la legge degli esseri viventi, la terra intera non è che un altare immenso in cui tutto ciò che vive deve essere immolato senza fine, senza misura, fino alla consumazione delle cose”. Il potere è il dio degli uomini, e la guerra è il sacrificio ritenuto necessario dalle classi dominanti per ingraziarselo. Il sacrificio di un capro espiatorio umano è mezzo di avanzamento della storia, come nel cinema l’immagine, cogliendo e sacralizzando il presente, non fa altro che annotarne la morte – e il cinema francese è stato il primo a teorizzarlo in Europa, si pensi alla Jétée di Chris Marker.

La denuncia, pronunciata sull’immagine della tomba di Rosa Luxemburg coperta di garofani rossi, è che durante tutta la storia “l’innocente ha potuto pagare per il colpevole”, e il boia e la morte in battaglia hanno potuto essere considerati dei privilegi sociali. Ma se il sacrificio dell’innocente è necessario alla società umana per come si è preteso costruirla fino ad oggi, la disperazione dello sguardo non lascia spazio al patetismo, perché l’artista sa che nell’estetica rivoluzionaria non c’è spazio per la lamentela, piuttosto gli è necessario un distacco dalla realtà per osservare la frontiera fra colpevoli e innocenti. La tragedia è trattata come un’esperienza storica che induce a studiare il contrattacco, indipendentemente dal fatto che la vittoria sia realizzabile o meno; alla “guerra divina in sé” è necessario opporre la soluzione indicata da Malraux: “Trasformare la nostra apocalisse in esercito”.

 

3. Ces fleurs entre les rails, dans le vent confus des voyages

 

La questione che si pone è quindi come compiere questa trasformazione, come rompere il continuum storico di catastrofi che vedeva l’angelo della storia di Benjamin voltato verso il passato. Non esistono risposte chiare ma solo indizi, e come al solito Godard preferisce sperimentare piuttosto che facilitare la comprensione, costruisce un altro linguaggio – una ricerca che spesso è scambiata per cripticismo o elitismo –, codifica il proprio messaggio per sfuggire alle regole della grammatica, cioè alle strutture linguistiche del potere, e inventa così nuove forme espressive che lascino spazio all’immaginazione[5].
Nel terzo capitolo, “Questi fiori fra i binari, nel vento confuso dei viaggi” (una citazione da Notte, Inverno di Rilke), la storia del cinema è ripercorsa attraverso il topos del treno, oggetto cinematografico per eccellenza. Nella modernità, il treno è la grande invenzione nel trasporto come il cinema lo è nell’arte, il primo viaggia su delle ruote che girano, il secondo funziona grazie a delle bobine che compiono lo stesso movimento. E qui sta l’intuizione di Godard, la ruota e la bobina, girando, compiono la loro rivoluzione, e per interrompere questo ciclo infinito di tragedie “deve esserci una rivoluzione”.
In questo variegato accostamento di immagini e suoni, il treno è trattato come elemento letterario (dall’incipit de L’idiota all’Orfeo di Cocteau), ma anche come innovazione tecnica, e come mezzo politico, in quanto luogo di incontri, discussioni, spionaggi, omicidi e deportazioni.

 

4. L’esprit des lois

 

Il capitolo seguente, “Lo spirito delle leggi” – dal libro di Montesquieu -, analizza più da vicino le condizioni che possono condurre a una trasformazione sociale. In particolare, la riflessione si concentra sulla contraddizione fra la tendenza ad adattarsi in maniera passiva al potere e le pratiche di liberazione che produce l’umanità quando si trova nelle giuste condizioni; i due comportamenti sono resi attraverso i contrasti fra certi effetti della sottomissione al potere (il nazionalismo stigmatizzato da Rimbaud in Démocratie, ma anche la guerra, lo stupro…) e invece la possibilità, secondo le parole di Montesquieu, che “quelli che comandano aumentino la loro conoscenza su ciò che devono prescrivere, e quelli che obbediscono trovino un nuovo piacere nell’obbedire”. Se appare una soluzione, è chiaro che essa non sarà definitiva, ma una continua rimessa in questione del potere, “una rivoluzione nella rivoluzione”. Questi echi, che è possibile leggere come residui di una visione sessantottina, sono in realtà parte integrante della prospettiva politica di un uomo memore dei fallimenti del determinismo e dell’evoluzionismo che hanno afflitto e rovinato le ideologie politiche novecentesche. Ma c’è dell’altro, perché la concezione che sorregge questo film e tutta l’opera degli ultimi decenni di Godard nasce dalla volontà di schierarsi dal lato degli sconfitti della storia: i figli del Saturno di Goya, Edmund di Germania anno-zero vengono mostrati non in quanto personaggi di un’opera, ma per assurgere a ruolo di icone degli sconfitti, dei poveri. In una visione profetica molto pasoliniana, questi “salveranno il mondo. Non domanderanno niente in cambio.” Nemmeno “sanno il prezzo del servizio reso. Io preferisco i poveri, ma unicamente perché sono dei vinti”. Questa poetica si pone in continuità con quella di altri autori a cui Godard si è ispirato a più riprese[6]; sostenendo l’idea della perdita come forza creatrice ed elemento di salvezza, il regista finisce per cedere – seppur parzialmente – ad una estetizzazione della sconfitta. Questo mutamento di prospettiva mostra la consumazione di un’inedita rottura sul piano politico con Brecht, la cui teoria estetica è onnipresente nell’opera godardiana. Se il drammaturgo tedesco – che morì nel 1956 – aveva sempre basato la sua scelta di stare nel campo degli sfruttati su ragioni scientifiche, che giustificavano in maniera razionale la possibilità di un mondo totalmente libero dallo sfruttamento, Godard, alla soglia dei novant’anni, si fa più pessimista, e oppone a questo ottimismo una morale, seppur rivoluzionaria.

 

5. La Region Centrale

 

Nell’ultimo capitolo la tensione fra vincitori e vinti non è più analizzata su un piano speculativo, ma viene inserita nella condizione attuale dei rapporti di potere, cioè il metodo dello straniamento non viene abbandonato, ma la sua dialettica viene messa a verifica in una situazione presente.
Godard è un cineasta di cultura francese, tuttavia non nutre alcun rimpianto della centralità europea, anzi premonisce la fine degli imperi occidentali si interessa alle società “arabe” e alle loro rappresentazioni mistificate dall’Occidente.
Quest’ultima parte mutua il titolo da La Region Centrale, un film sperimentale del 1971 che indaga il ruolo della posizione della telecamera; come già aveva spiegato Ejzenstejn[7], la posizione della camera comporta una scelta di ciò che viene rappresentato, è un primo atto di montaggio, e quindi un atto politico. Su un piano formale viene analizzato il rapporto di potere che esiste fra chi guarda e chi è guardato: se da un lato la rappresentazione non potrà mai cogliere il presente senza che esso gli sfugga, allo stesso tempo il soggetto della rappresentazione subisce quasi sempre un atto di abuso da parte di chi lo rappresenta. Questo rapporto di potere produce una contraddizione lancinante fra “la violenza dell’atto di rappresentare”, cioè l’abuso che è presente in ogni cattura di immagine, e “la calma interiore della rappresentazione stessa”, ovvero la capacità di quell’immagine di apparire pacifica e sovrumana nel suo distacco dalle cose reali. Non ci sono soluzioni a questo dilemma, e quello che Godard sembra volerci far intendere è che non ci si può sostituire agli altri nella definizione della loro identità, bensì è necessario che ognuno formuli il proprio discorso e le proprie rivendicazioni in maniera indipendente per evitare di mitizzare la realtà.

 

Le incidenze sul piano politico sono enormi. Godard osserva lo sguardo che l’Occidente porta sull’Oriente; non vi è solo la critica all’Orientalismo, ai miti dell’Arabie Heurese[8], ai racconti degli intellettuali francesi – in particolare Flaubert; c’è anche un materialismo che non sfugge a Godard come era invece sfuggito a Said: “Gli arabi non interessano il mondo, e nemmeno i musulmani. L’islam concentra politicamente l’attenzione. Se il mondo arabo esiste, non è mai guardato in quanto tale, è sempre osservato come un insieme. Il mondo arabo è innanzitutto corpi e paesaggi”. È questo a dare il significato dei volti, dei corpi, delle scene quotidiane e marittime montate con tenerezza, e alternate alle immagini delle Crociate e delle guerre moderne in Medio-Oriente. Il montaggio diventa una continua messa in questione della rappresentazione, le immagini sono spesso storte, le voci arabe che compaiono vengono coperte da suoni di guerra e da colpi di mitra. La voce del regista accompagna lo sguardo, riprendendo ancora il tema dell’atto radicale che scaturisce dalla sconfitta: “Gli arabi possono parlare? Davanti alla ferocia del comportamento del governo, che delle genti lancino delle bombe, un po’ ovunque, mi appare normale; che potrebbero fare di diverso?, è la sola maniera di esprimere una rivolta. […] Da parte mia sarò sempre dalla parte delle bombe.” E poi, “La rivoluzione non mi sembra vitale in questa regione; è vero anche che al nostro tempo tutto è possibile”.

 

Insomma, Livre d’Image è un film destinato a restare sia come opera d’arte, sia come opera di metodo e di ricerca del ruolo del cinema al tempo in cui molti affermano che l’arte è cosa morta. Godard cerca di dimostrare che non è l’arte a morire ma il cinema come categoria distinta dal film, è il mondo novecentesco delle grandi troupes, delle narrazioni collettive che si manifestano sullo schermo, della sala di proiezione come luogo di consumo, acculturazione e intrattenimento; questo cinema è destinato a scomparire o a ridursi esclusivamente a merce, i film devono trovare nuove funzioni sociali. In principio, Livre d’Image non doveva essere nemmeno distribuito in sala, solo la sua partecipazione a Cannes e il regolamento del Festival hanno obbligato a programmarne alcune proiezioni. È da notare che queste proiezioni sono state pensate come eventi, nel senso che non erano qualcosa di interamente riproducibile, ma esperienze uniche costruite come happening (8 differenti fonti sonore, grandi schermi piazzati in contesti specifici e scelti dall’artista, spesso in percorsi di esposizioni video o di performances). La distribuzione cinematografica, se non vuole ostinarsi a un pubblico sempre meno numeroso e più abbrutito, dovrebbe infatti considerare che ormai i film devono essere contestualizzati, come avveniva per la pittura montata anche al di fuori della cornice, entrando così in relazione con l’ambiente circostante. Una direzione che d’altronde è già seguita da varie cinemateche, in Italia la Cineteca di Bologna è sicuramente quella che vi riesce con più successo.

 

Ma aldilà della distribuzione resta l’opera, orfana di personaggi, dove la narrazione si smarrisce e niente di nuovo può essere detto, ma solo citato e montato, come se l’artista si dovesse fare archivista e archeologo per poter produrre un’immagine attuale. Un’arte senza dubbio sincera ma non facile da abbordare, in cui l’artista chiede al pubblico un grande sforzo di comprensione e di riflessione, nella migliore tradizione godardiana di ricerca di uno sguardo attivo, ricettivo e con una base teorica già solida a supportarlo.

Il risultato, benché di difficile accesso, è un trattato d’arte come forse non se ne sono mai visti, una didattica di videoarte che in un apparente disordine di lingue che si sovrappongono, colori saturati, figure tirate o ridotte di misura, rinnova il concetto di rappresentazione scegliendo di fare della pittura attraverso il cinema. Allo stesso tempo un delicato canto d’amore per il “mondo arabo” e per la rivoluzione, che nell’incontro dell’altro e nella rivolta riscopre i veri bisogni dell’essere umano, fino all’ultima immagine, fino al vecchio del Plaisir di Ophuls che cade morto danzando dietro a una maschera di gioventù, e la voce ansimante di Godard che dall’oltretomba cita L’esthétique de la résistance di Weiss: “E anche se niente dovesse rivelarsi come l’avevamo sperato, ciò non cambierebbe niente alle nostre speranze, esse resterebbero un’utopia necessaria, e il campo delle speranze è più vasto del nostro tempo; come il passato si è rivelato immutabile, anche le speranze resteranno immutabili”.

 

[1] Distribuito in Francia in condizioni particolari, come si dirà più avanti, il film è stato doppiato in italiano grazie all’infaticabile e sempre fondamentale lavoro di Enrico Ghezzi e dell’équipe di “Fuori Orario”, disponibile in streaming dall’Italia a questo indirizzo: https://www.raiplay.it/programmi/lelivredimage

[2] Godard stesso ha affermato che i suoi film più recenti necessitano di almeno tre visioni prima di poter essere compresi.

[3] Luca Mozzachiodi, L’arte della sconfitta, Qudu Libri, 2017

[4] Tutte le traduzioni dei testi citati sono dell’autore.

[5] Può essere interessante notare che chi ci sembra che in questo senso si sia più avvicinato sul piano del linguaggio a Godard sia stato Pasolini, con la sua ricerca nel dialetto di forme espressive non colonizzate dalla grammatica capitalistica.

[6] Per iniziare a esplorare il ruolo teologico della sconfitta e gli autori che se ne sono occupati, è ottimo il libro “Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta” di Enzo Traverso, pubblicato da Feltrinelli nel 2016.

[7] Sergej M. Ejzenstejn, Teoria generale del montaggio, Marsilio, 2012

[8] In francese perché Godard, oltre che dalla regione dell’antichità, trae ispirazione dall’omonimo romanzo di Dumas

1 thought on “Livre d’image, l’ultima fatica di Godard fra malinconie e utopie concrete

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