di Franco Buffoni

 

[Esce domani per Nomos Edizioni Sul dialogo tra critica e poetica, di Franco Buffoni. Ne anticipiamo il capitolo introduttivo e il sommario].

 

Negli anni tra il 1986 e il 1990, in cui avrei dovuto pubblicare per giungere all’ordinariato in anglistica, frequentai un dottorato di ricerca in estetica con Emilio Mattioli: un dottorato senza borsa e senza l’ufficialità, ovviamente, ero già associato, ma il mio impegno fu totale.

Avevo capito che la sintesi tra le due branche del mio operare – la scrittura poetica come poeta di lingua romanza, quindi con metrica quantitativa; e la concentrazione come traduttore da lingue con metriche accentuative – stava nella teoria della traduzione. Quindi nella filosofia estetica. Avevo capito che quel nutrimento mi era essenziale per continuare. Così vissi il secondo periodo filosofico della mia vita, dopo quello giovanile “inglese” in cui avevo imparato a coniugare filosofia e diritto. Avevo capito che quel dottorato in estetica – a quasi quarant’anni – mi avrebbe dato l’impostazione teorica di cui avevo un essenziale bisogno.

 

Da quell’esperienza nacque il semestrale di teoria e pratica della traduzione letteraria “Testo a fronte”, che ormai ha tagliato il traguardo dei trent’anni di vita col sessantesimo numero. Confortato dal fatto che l’ordinariato in anglistica me lo diedero lo stesso, continuai a lavorare sui concetti di intertestualità e di poetica, di avantesto, di ritmo e di movimento del linguaggio nel tempo: avevo le idee chiare sulle differenze tra estetica, critica e poetica, e ciò mi aiutò a non cadere nella trappola di una troppo generica teoria della letteratura.

Con questo libro desidero dimostrare praticamente come il dialogo tra critica e poetica possa risultare fecondo, soprattutto se riesce a protrarsi nel tempo. Spero che l’estetica possa presto tornare a giocare il suo essenziale ruolo, valutando tale dialogo, nella convinzione che proprio in tale “valutazione” si annidi la “quiddità” dell’arte.

 

C’è una scena dell’Amleto di Laforgue che mi viene sempre in mente quando si tratta di definire che cosa sia per me «poesia». Amleto si rivolge a Orazio, l’amico assoluto, e lo prega di precederlo, per dire in sua vece, entrando, quelle parole «che lo uccidono».

Poesia come ancora di salvezza, dunque, in primis per chi la compone. Poesia mai stanca di ripetere quelle due o tre cose essenziali concernenti l’etica e l’estetica che non si ha più la forza o il coraggio di dire ad alta voce. Poesia come portavoce delle intermittenze del cuore attraverso gli anni.

 

Ma poesia anche come privilegio, grazie alla possibilità di parlarne agli studenti nei corsi di letteratura, e di tradurla (con la giustificazione a sé stessi di star lavorando), così da tenere sempre in esercizio – come ben tese corde di violino – le facoltà essenziali del poiêin.

«Fu una faccenda di piogge, di laghi, e di discorsi in un gran parco verdissimo», scrive Luciano Anceschi circa la genesi della poetica di «linea lombarda» nei primi anni Cinquanta. Una poetica nella quale, pur con gli inevitabili aggiustamenti e le necessarie trasformazioni, continuo a riconoscere una delle tre matrici essenziali del mio fare poetico (particolarmente nella pratica dell’understatement, nel rifiuto del vittimismo, in una misura etica individuale e sobria, in una linea anglosassone di ragionevolezza piuttosto che continentale di razionalismo).

 

L’altra matrice – geograficamente più ampia – e forse più significativa per la mia formazione (perché assorbita negli anni dell’adolescenza) credo di poter individuare nella grande tradizione otto-novecentesca italiana che lega Pascoli a Gozzano; infine, appartiene agli anni della formazione universitaria, la terza – e ben più vasta – matrice che mi riconosco, e che vede la frequentazione delle grandi letterature europee sia di area romanza sia di area germanica in un rapporto linguistico e filologico diretto.

Volendo richiamare quali sono state sino ad oggi le principali matrici stilistiche (e proprio di «elaborazione») che mi sono trovato a perseguire, posso empiricamente suddividere l’insieme dei componimenti poetici in quattro principali gruppi:

 

– testi di lenta stratificazione;

– testi associativi;

– testi-dono-degli-dei;

– racconti in versi.

 

Per testi di lenta stratificazione, molto numerosi particolarmente nella seconda raccolta, I tre desideri, intendo composizioni che sono andate con lentezza strutturandosi attorno a un’idea-cardine: un’idea che, volendo, avrei potuto sviluppare anche in prosa, ma che percepii più naturale per me di esporre in versi.

Il testo intitolato Come un polittico, per esempio, nasce dalla necessità di esprimere la consapevolezza ormai acquisita di non essere più in grado di abbracciare contemporaneamente (in un unico ricordo, in un’unica grande immagine come avviene da ragazzi) la propria esistenza. Ormai – capivo – cominciavo anch’io a procedere per frammenti, isole, tranche de vie. Da qui la similitudine con il polittico che custodisce in sé la grande storia a colori sgargianti, ma non la mostra: all’esterno appaiono solo alcuni frammenti della storia a colori smorzati.

 

La differenza di procedimento compositivo con quelli che descriverò come i componimenti del secondo gruppo sta nel fatto che qui l’idea non venne osservando un polittico in una chiesa di Spagna. L’idea esisteva già, e si sarebbe comunque concretizzata in poesia, magari tramite un’altra similitudine. Il termine di raffronto – dunque – non mosse nulla: venne scelto a freddo perché ritenuto oggettivamente più efficace di altri. In questa poesia delle logopeia (avrebbe detto Pound) dovevo insomma fare un ragionamento: si trattava di rivestirlo nel modo esteticamente più valido.

Circa il secondo gruppo di composizioni, definite «associative», Mario Luzi in Vicissitudine e forma ha scritto che il grande momento poetico, concentrato talvolta anche solo in pochi versi all’interno di una poesia, può essere visto come una sintesi tra due concetti, due sentimenti, due ordini di percezione o «universi di discorso» che non erano mai stati posti in relazione tra loro in precedenza. In pratica – secondo Luzi – poesia avviene solo quando si trovano a coincidere («in modo assolutamente misterioso»), da un lato «uno stato emotivo e una capacità artistica» del poeta, e dall’altro un particolare momento («quello e non un altro») dell’essere universale.

 

Perché il fatto saliente dell’avvenimento poetico è il ritrovamento – momentaneo magari, fugace – della coincidenza dell’esistenza con l’essenza vitale. Il lavoro poetico, infine, non è che la ricerca di questa coincidenza.

Più banalmente posso esemplificare la differenza con le composizioni del primo gruppo sostenendo che qui non preesisteva nessuna idea da trasformare in poesia: è esistita – fortissima – soltanto la «coincidenza».

Ancora con riferimento alle composizioni del secondo gruppo, non necessariamente il momento esterno deve essere particolare (tanto da appartenere alla coscienza e poi alla memoria collettive): può essere anche qualcosa di molto meno appariscente, un dettaglio che solitamente sfugge. Nella poesia Il circuito di Pergusa, la coincidenza avvenne tra lo studio che andavo compiendo in quei giorni sul racconto del Mercante nei Canterbury Tales (dove tra i personaggi appaiono Plutone e Proserpina) e la telecronaca di una gara di «formula tre» (da qui i nomi reali dei piloti Moreno e Martini). Sta di fatto che l’antro da cui – secondo la leggenda – emerse Plutone per rapire Proserpina si trova in Sicilia nei pressi del lago di Pergusa. Un lago particolare che, per i riflessi delle alghe sul fondo, sovente assume una colorazione rossa. Come le auto dei corridori. Come le loro tute e le insegne. Perché il circuito automobilistico è stato costruito attorno a quel lago. Il telecronista diceva «… qui dal lago di Pergusa». Non capii subito che il nome che avevo lasciato sui libri nello studio mi aveva seguito in cucina tra l’acqua minerale e il riso in bianco.

 

Per i testi definiti «dono degli dei» credo che l’espressione sereniana sia quanto mai esplicita. Sereni tuttavia la riferiva (citando Valéry) al primo verso, lasciando intendere quanto invece «il resto» fosse opera di bulino. Per esperienza posso estendere la definizione a certe brevi composizioni (quattro-cinque versi in tutto) scritte di getto nei momenti più svariati e passate indenni attraverso le successive e severe recollections in tranquillity. Il breve testo L’aspide potrebbe costituire un buon esempio per questi testi della fanopeia (per ricorrere nuovamente alle categorie poundiane).

 

L’odore di resina e c’era

Tra le fessure di roccia i fili d’erba

Rosso il capino dell’aspide.
Un garofanino di montagna.

 

Sta di fatto che versi aventi questo tipo di matrice compositiva possono ritrovarsi anche in testi più complessi. Per esempio il finale melopeico (per chiudere con le categorie poundiane) di Come un polittico («Mentre il vento capriccioso corteggiava come amante / i pioppi giovani. / Fino a farli fremere») o i versi iniziali della poesia Lafcadio in Quaranta a quindici:

 

La chiesa vaticana a riguardo

Segreto secreto dalle sue labbra oscure

Ripropone bromuro

Dato per secoli a’ soldati suoi cavalli e collegiali (…)

 

Naturalmente all’espressione «dono-degli-dèi» potrebbe ben più verosimilmente sostituirsi un’oggettiva riflessione su inconscio, conscio e pre-conscio, in virtù della quale gli dei farebbero il dono a chi se lo merita; anzi, non sarebbe affatto un dono, ma il naturale output di quanto seminato precedentemente in decenni di letture e rinunzie e vita (input onnicomprensivo). Ma tutto sommato mi sembra più espressivo continuare ad usare l’espressione di Sereni e Valéry.

Più complessa da esemplificare la genesi dei racconti in versi, i quali – a loro volta – possono essere di tipo palesemente narrativo, oppure più sfumati, più lirici. A questo secondo gruppo di racconti in versi appartengono Monte Athos, Pelle intrecciata di verde e il più breve Spiga di grano matto.

 

Tra i racconti in versi più esplicitamente narrativi ricordo Aeroporto contadino, Cinema rosa e Suora carmelitana.

Scrissi quanto sopra all’inizio degli anni Novanta. Mi piace accostare a quella nota, dopo quasi trent’anni, quella redatta a commento di La linea del cielo, Garzanti 2018, in particolare per quanto attiene allo sviluppo delle riflessioni sulla poetica di Linea lombarda.

La mia genealogia “tematica” è più appenninica che lombarda, o meglio, è giuliano-friulana con Saba e il primo Pasolini, poi bolognese, quindi passa per la Perugia di Penna per giungere alla Roma di Bertolucci e Bellezza. Con sintesi efferata potrei forse schematizzare in questo modo: Saba-Pasolini-Penna-Bertolucci-Bellezza vs Sereni-Erba-Risi-Giudici-Raboni? Tentando però una conciliazione, grazie a una definizione che proprio il codificatore di Linea lombarda, Luciano Anceschi, ci ha lasciato: “La riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul proprio fare, indicandone i sistemi tecnici e le norme operative, le moralità e gli ideali” è la poetica. Se dunque le mie moralità e i miei ideali si trovano maggiormente a loro agio nella linea appenninica, i miei sistemi tecnici e le mie norme operative – la mia officina, insomma – rimane saldamente legata a “quella faccenda di laghi e di discorsi in un gran parco verdissimo” che è la poesia in re, prosciugata e scabra, dei miei maestri lombardi, Sereni in primis. Non a caso, forse, anche logisticamente, oggi io sono un lombardo che vive a Roma.

 

Se il risultato più evidente della fusione delle due linee in poesia è costituito da testi qualiIl terzino anziano”, questo libro costituisce un più organico tentativo di convogliare le poesie “lombarde” e le poesie “romane” su un unico binario, che vorrei definire di una personale linea “lombardo-appenninica”, secondo un criterio etico – le mie moralità, i miei ideali – e secondo un criterio di confezione testuale: i miei sistemi tecnici, le mie norme operative. La Lombardia dei ricordi e dei continui ritorni; e la Roma dei pensieri. Come se dal Buffoni lombardo di una giovinezza che non trova scampo, in dialogo col Buffoni romano che concepisce la poesia come attività sapienziale (“rivelazione di parole espressa in parole” diceva Wallace Stevens), fuoriuscisse un poeta che non miscela ma fonde, cercando di evitare il rischio di pensarla in modo diverso sullo stesso argomento, a seconda che ne scriva da Roma o da Milano. “Egli” a Roma, “lui” a Milano: un po’ come la barista cinese della poesia Confucio con Maometto a San Lorenzo. E forse un po’ anche come la sintesi della lettera di Sereni a Pasolini del 27 gennaio 1954 sul poemetto Canto popolare, poi entrato nelle Ceneri di Gramsci: “… oltre al tuo solito coraggio, c’è anche quello, non so quanto raro in te ma abbastanza raro al di sopra di un certo livello, di correre il rischio di fare dei versi brutti pur di dire una certa cosa che preme e che se non fosse detta toglierebbe buona parte del significato ai versi più belli”. Con bene in vista la stilettata audeniana: “Due poesie mi chiedevano oggi di essere scritte: ho dovuto rifiutarle. Mi dispiace, mia cara, troppo tardi. Mi dispiace, tesoro, non ancora.” E la sorniona grazia zanzottiana: “Nessun diritto è riservato: / magari da me si copiasse / tanto quanto dagli altri ho copiato.

 

Parte Prima

I.Poesia e ragionevolezza

 

II. Genealogie

III. Giovanni Raboni e le prime voci critiche

IV. Quaranta a quindici

V. Scuola di Atene

VI. Adidas

VII. Suora carmelitana

VIII. Il profilo del Rosa e la svolta critica di Guido Mazzoni

IX. Theios, il sigillo d’una trilogia

X. Del maestro in bottega: poesie e traduzioni in dialogo

XI. Guerra e di nuovo Mazzoni…

XII. Noi e loro: poesia civile?

XIII. Roma tra Penna e Pasolini

XIV. L’Oscar e il canone

XV. Lingue e linguaggi della traduzione

XVI. Jucci

XVII. O Germania

XVIII. Avrei fatto la fine di Turing

XIX. Personae a teatro

XX. La linea del cielo

XXI. Betelgeuse e altre poesie scientifiche

 

Parte Seconda

XXII. Racconto-mythos ed elegia forte

XXIII. Gratitudine tardiva

XXIV. Un critico appartato

XXV. Critici amici

XXVI. Svolte critiche

XXVII. Un dialogo plurale

XXVIII. Accademici e non

XXIX. Nuove generazioni critiche

XXX. L’ultimo libro

 

 

[Immagine: © Mark Rothko, Untitled, 1957, Washington, National Gallery of Art].

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